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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 16 - Dicembre 2008

Zoom immagine Guantanamo:
gli Usa incivili

di Alessandro Tacconi
Un saggio Einaudi
contro le violenze
ai diritti dei reclusi


La baia dei dannati annegata in un oceano d’argento. Una lama di terra bruna in mezzo all’azzurro. Un boeing porta a terra giornalisti di diverse nazionalità. Un’inchiesta da svolgere in uno dei luoghi-simbolo dell’avamposto democratico della (ex?!) maggiore potenza mondiale: Guantanamo, sull’isolotto caraibico di Cuba. Destinazione: Camp Delta. Da un parte vi sono i feroci comunisti di Castro e dall’altra i sanguinari terroristi di Al Qaeda.

Insomma, un tratto d’isola molto diverso da quello che propongono le agenzie turistiche e i siti last minute per soggiorni e viaggi-vacanza in località dai nomi esotici come Coco Bay o L’Avana.

Carlo Bonini, inviato speciale di vari quotidiani italiani, è stato a Guantanamo due volte, nel 2002 e nel 2003. Quanto ha visto, gli ufficiali con cui si è confrontato e a cui ha rivolto domande, costituiscono la prima parte del saggio-reportage Guantanamo (Einaudi, pp. 238, € 8,50).

La seconda parte del testo raccoglie, invece, documenti ufficiali redatti, approvati ed emanati dalla White House e dal Dipartimento della difesa statunitense. In queste carte ufficiali si viene a conoscenza delle precise, minuziose e dettagliatissime direttive che devono servire da linee guida per il trattamento degli enemy combatant, cioè “combattenti nemici”, nozione totalmente estranea al diritto internazionale, e non “prigionieri” di guerra, come sancisce la Convenzione di Ginevra! La sottile differenza tra questi due termini è fondamentale per il governo americano, per non dover tener conto delle normative internazionali che regolano la carcerazione e i diritti dei reclusi di guerra.

Essere un enemy combatant dà “diritto” a una «detenzione a tempo indefinito, divieto di comunicazione con altri detenuti, con i propri familiari, con i propri avvocati. Divieto di accedere a una Corte di giustizia ordinaria perché si pronunci o meno sulla legittimità o meno dei presupposti e delle modalità della sua segregazione». Insomma chi giunge a Guantanamo finisce in un buco nero, una zona franca del diritto internazionale, dove vengono meno i diritti sanciti dalla citata Convenzione di Ginevra e vigono solamente quelli stabiliti dal governo statunitense.

Così sulla via per il campo di detenzione, Bonini inizia il windshield tour (il giro del parabrezza): «due miglia di filo spinato e decine di torri di guardia, si allungava una discarica umana in catene, esposta alla luce del sole, rinchiusa in minuscole stie di legno e ferro sormontate da un’incandescente lamiera ondulata, priva di acqua corrente, fogne. E una sequenza di pitali, almeno trecento, uno per ogni prigioniero, appoggiati negli angoli delle gabbie, in cui liberarsi sotto gli occhi di tutti dei propri bisogni. Al passaggio del Transit, teste di prigionieri che fino a un istante prima avevano ciondolato come svuotate di vita, si erano drizzate vigili, simili a quelle di animali intorpiditi richiamati da un suono. Quindi un detenuto aveva preso a picchiare contro la sua gabbia […] Aveva chiuso la mano destra a cuneo, infilandosela in bocca, mentre la sinistra mulinellava a indicare un “no”».

 

«Hai visto la luce? Tu, hai visto la luce!?»

Il sole è il primo discrimine tra prigionieri e uomini liberi su questo grumo terroso a mollo, placidamente nelle tiepide acque caraibiche. I coatti giungono di notte. Non visti dai futuri compagni di segregazione. Probabilmente anche quando furono prelevati dalle loro abitazioni era buio. I liberi, invece, arrivano di giorno, quando tutto sembra più lucente come Camp Delta, appunto, un intrico di lamiere che stordisce per i riflessi chi si sofferma a sufficienza a fissare una qualsiasi di quelle basse baracche.

Non è vero che i reclusi non vedono la luce. Quest’ultima diventa presenza costante, opprimente, snervante nelle celle in cui vengono rinchiusi i prigionieri appena arrivati. Anzi la speranza è che grazie alla costante illuminazione possano finalmente vederla. E come John Belushi, nel celebre indimenticato capolavoro di John Landis, The Blues Brothers, anche i reclusi iniziano finalmente a gridare in preda a un furore mistico: «La Banda! La Banda!» fornendo nomi, cognomi e soprannomi e tutto quanto potrà aiutare a riportare la democrazia in terre dimenticate da Dio.

Nella loro cella, 24 ore al giorno, c’è luce. Una sintetica, ma brillante luce al neon che non si brucia mai. E non si può neppure decidere di chiudere gli occhi per non vederla, perché è tale la sua intensità che non è possibile eluderla. Anche quando vengono meno le forze e il corpo cede le armi al sonno, ci pensano le guardie, prontamente, a risvegliare il prigioniero esausto e appisolato.

Il lavoro dei soldati sui prigionieri musulmani è proprio quello di spingerli a collaborare, a rispondere alle domande, a informare i propri carcerieri di tutto ciò che sanno grazie anche alla luce e a numerose altre pratiche non sempre ai limiti della legalità. Eppure di questo già giornali e tv hanno dato pienamente notizia. Ma non si è forse in guerra? Non siamo ai confini dell’impero democratico? Così vicini agli Usa eppure così lontani dal suo cuore a stelle e strisce?

E cosa dice il barbudo Fidel di questa base che da decenni è placidamente appostata su una parte della sua isola? Sembra, non molto, o non abbastanza da convincere i militari americani a lasciarla. La beffa della presenza della base statunitense starebbe in un accordo pre-era Fidel, siglato tra gli Usa e il collaborativo governo predittatorial comunista, quello dell’era Batista: qualche migliaio di dollari l’anno in cambio dell’affitto di una parte dell’isola agli statunitensi. Ovviamente, tale accordo è rimasto invariato con l’insediamento del governo revolucionario, anche se il lider maximo non ha mai ritirato neppure un dollaro di quanto depositato da quello di Washington.  

 

Quando si apriranno le porte del regno

A gestire tutte le pratiche per il processo dei detenuti sono le commissioni. Anche queste, come ogni minuto dell’esistenza passato a Guantanamo, vengono rigidamente conformate dalle indicazioni giunte direttamente dal Ministero della Difesa.

Vi si legge che per un pieno rilascio del detenuto si devono verificare tre condizioni: prima, il soggetto non deve più rappresentare una minaccia come individuo; seconda, egli deve avere definitivamente chiuso ogni rapporto con organizzazioni terroristiche; terza, la persona in questione non deve più essere una “risorsa” per l’intelligence statunitense.

In base alle testimonianze raccolte dal giornalista, gli enemy combatant rappresentano infatti delle “risorse”, delle fonti di informazioni. Quello che lascia perplessi è che questi uomini possano rivestire un simile ruolo per anni. Quante informazioni dovrà elargire agli ufficiali interlocutori il combattente nemico prima di accedere alla “terza condizione”?

Proprio sotto la luce intensa, spesso torrida, dei tropici, Bonini dipinge dei ritratti di carcerati e carcerieri assolutamente umani e contradditori, soprattutto se visti da occhi stranieri, da chi non ha vissuto fortunatamente né da una parte né dall’altra della barricata quel confronto militare e culturale.

I molti interventi letti sui giornali, i docureportage, le interviste a intellettuali, politologi e socioeconomisti sulla necessità del conflitto bellico tra Stati Uniti e “stati canaglia”, rendono opportuna una rinnovata riflessione sulla legittimità di simili luoghi di abiezione “legalmente” irreggimentati. Un luogo in cui ogni anno vi sono decine di tentati suicidi, che spesso hanno “buon fine”.

Viene da pensare che in un modo (la dura segregazione senza possibilità di appello) o nell’altro (la morte ricercata), le porte del regno (statunitense e celeste) siano davvero prossime ai reclusi di Guantanamo.

 

Alessandro Tacconi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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