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Anno I, n° 1 - Settembre 2007
Il tema della garanzia
dei diritti alle coppie
di fatto. Ma nessuno
parla dei loro doveri
di Emanuela Catania
Alfredo Mantovano e le sue riflessioni
a riguardo in un libro della Rubbettino
All’inizio erano Pacs. Ora sono Dico. Comunque la si voglia chiamare, si tratta della battaglia per il riconoscimento delle coppie di fatto. E parliamo di “guerra” perché queste unioni fattuali si pongono sempre più in atteggiamento antitetico rispetto alla famiglia tradizionale quale istituzione socialmente, civilmente e giuridicamente riconosciuta. Ed ecco che la famiglia scende in campo a sua volta ed ecco che nasce il Family day che, attenzione, non è sempre esistito così come è sempre esistita
È proprio di questo tema caldo e di queste contrapposizioni che parla il libro di Alfredo Mantovano, La guerra dei “dico” (Rubbettino, pp. 116, € 10,00), che mira a inquadrare il problema in una prospettiva completamente laica, discutendolo sulla base di un’ oggettiva analisi del d.d.l. sui Dicoe delle leggi già vigenti e contemplate dalla Costituzione per la tutela delle famiglie di fatto.
La domanda di fondo è: sono davvero indispensabili i Dico perché le coppie conviventi possano godere di determinate tutele da parte del sistema?
E inevitabile è una seconda domanda: quali possono essere le conseguenze dell’applicazione di un decreto legge dai contorni forse un po’ troppo vaghi e sfuggenti?
Dico e anagrafe. Quali differenze?
Formalmente il d.d.l. sui Dico si aggancia alla disciplina dell’anagrafe, il cui obiettivo è quello di individuare il luogo di dimora di ciascun cittadino attraverso la compilazione della scheda anagrafica. Proprio quest’ultimo procedimento risulta un po’ diverso ai fini dei Dico.
Nel comma I dell’articolo I del d.d.l. del Governo si legge: «Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, non legate da vincoli di matrimonio, parentela in linea retta entro il primo grado, affinità in linea retta entro il secondo grado, adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno, sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge».
Partendo dall’analisi di quanto citato, l’autore mette in risalto tre punti:
1- mentre nell’ottica del regolamento anagrafico non hanno alcuna importanza le ragioni di una coabitazione, ma ciò che conta è soltanto l’attestazione del suo essere in vigore, nel caso dei Dico vengono descritte, quali imprescindibili, alcune caratteristiche che i conviventi devono avere;
2- «è la prima volta che nell’ordinamento l’affetto, cioè un dato emozionale e soggettivo, diventa giuridicamente rilevante e produttivo di effetti»;
3- resta da stabilire cosa si intenda per “vincoli affettivi” e se in tale definizione siano inglobati i rapporti sessuali, il che renderebbe le premesse del d.d.l. sui Dico ancora più irragionevoli, ponendone quale condizione determinante un qualcosa che appartiene per natura alla sfera più intima e privata.
Caro convivente ti scrivo… i Dico postali
Un altro punto caldo trattato da Mantovano è il riconoscimento della possibilità di contrarre un Dico tramite una dichiarazione individuale (sottoscritta da uno solo dei conviventi) seguita dalla «comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente». Ciò, inutile dirlo, potrebbe generare una lunga serie di abusi, potendo un convivente stipulare autonomamente un Dico e poi fare in modo di ricevere egli stesso la raccomandata, celando il tutto all’altro interessato che, in nessun momento, sarà stato chiamato ad esprimere il proprio consenso. Peggio ancora, «una dinamica simile» – fa notare l’autore – «può realizzarsi nel caso di una giovane badante e di un anziano non ben consapevole…». In secondo luogo, requisito fondamentale per poter contrarre un Dico è il non essere sposati. Nulla vieta però esplicitamente ai contraenti di avere in corso altre convivenze, il che potrebbe apparire come una sorta di “legalizzazione” di una forma di poligamia, quella che l’autore definisce “poli-dico”.
Se non Dico, quali diritti per le coppie di fatto?
Dopo queste premesse che ci hanno consentito di inquadrare la vicenda, veniamo ora alla domanda saliente del testo in questione: davvero senza i Dico c’è così poca tutela per le famiglie di fatto?
L’autore passa in rassegna quei diritti che i Dico andrebbero a sancire per i conviventi e poi li confronta con gli articoli della Costituzione che sembrerebbero già contemplare i medesimi diritti, grazie alla formula more uxorio che in molti casi riconosce al convivente i medesimi diritti (o molto simili) di un coniuge.
Ci sono due aspetti che il nostro autore prende in esame.
Il primo riguarda la natura stessa dei Dico che prevedrebbero, per i conviventi che li stipulassero, un pubblico riconoscimento del loro essere coppia.
Questo è uno degli elementi fondamentali per i quali il d.d.l. è atteso con impazienza.
In base a quanto detto prima, infatti, nulla impedirebbe ad una coppia di fatto di stipulare, laddove la legge non dovesse garantire sufficiente tutela, un atto privato tramite il quale mettere al sicuro i propri diritti di fronte all’altro.
Mancherebbe tuttavia il tanto agognato aspetto pubblico, grazie al quale vi sarebbe una sorta di riconoscimento sociale, oltre che civile, dell’unione in corso.
Il secondo aspetto riguarda, invece, delle effettive carenze del sistema legislativo, laddove esso non garantisce ai conviventi diritti importanti quali la riserva di legittima nella successione o, e qui il punto più dolente e dibattuto, la possibilità di adottare dei figli.
E dunque, posto che ci siano dei punti deboli nell’attuale legislazione, «non sarebbe più semplice colmare gli eventuali vuoti di tutela con interventi per materia, mirati al riconoscimento caso per caso dei diritti non tutelati […]?»
Omosessuali e Dico: un’unione di fatto
Proprio l’aspetto pubblico dei Dico, del quale parlavamo, aiuta Mantovano a porsi e a porre una domanda importante: perché una coppia di fatto che rifiuta il matrimonio quale istituzione pubblica, dovrebbe poi sentire questo grande bisogno di un atto pubblico che regolamenti il rapporto? Difatti, riflette l’autore, anche dopo l’approvazione del d.d.l., sarebbero certamente molte le coppie conviventi che non sceglierebbero comunque di legalizzare la convivenza.
Da qui la conclusione: «La pressione per i “dico”-pacs è tutta costruita sulla coppia gay».
E su questo punto, particolarmente caldo e delicato, preferiamo non esprimere giudizi. Ciascuno avrà senz’altro la propria opinione.
Certamente sono sagge le riflessioni dell’autore che teme per la famiglia tradizionale quale base della società e quale elemento garante dell’«ordine delle generazioni».
Il d.d.l. sui “dico” lascia il sospetto che si voglia minare la famiglia alla base, una base che, prima ancora che di diritti, è fatta di doveri.
Così leggiamo in conclusione: «lo scopo è demolire il paradigma della famiglia naturale fondata sul matrimonio di persone di sesso diverso, e collocare al suo posto un diverso paradigma, fondato sulla libertà senza responsabilità».
Emanuela Catania