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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
La Roma imperiale
sfondo di una cupa
tragedia dinastica
di Guglielmo Colombero
Da Città del sole un romanzo storico
che narra una sfida tra donne di potere
Snodandosi in un arco di tempo trentennale (dal
Dalle conversazioni conviviali si delinea subito l’implacabile ostilità che contrappone Giulia, vedova del grande ammiraglio Agrippa e madre dei due eredi designati alla successione di Augusto, Lucio e Gaio, alla matrigna Livia, che sta tentando in tutti i modi di far riottenere dal figlio Tiberio, esule a Rodi, i favori del patrigno. Le due donne si odiano a morte, perché Giulia, costretta ad un matrimonio politico con lo stesso Tiberio, non aveva mai celato il proprio disprezzo per il tetro e, a sentire lei, debosciato consorte. In aperto contrasto con la brillante e mondana Giulia, amante del lusso e della cultura greca, Livia appare subito come una fredda calcolatrice, che prepara a tavolino, parola per parola, i discorsi con cui irretire il marito. In una struttura narrativa quasi teatrale, da melodramma, i vari personaggi si muovono sullo sfondo di un immenso palcoscenico, quello di Roma caput mundi, cuore pulsante dell’Impero, che, attraverso un’iconografia che ricorda il Satyricon felliniano, sprigiona suggestivi riflessi cangianti dalla sua immensa carcassa ormai putrescente. Risulta infatti impietosa anche la descrizione del decadimento fisico dello stesso Augusto, emblematico di quello della società romana, così irrimediabilmente viziata e corrotta sotto una patina di mal sopportata austerità morale imposta per decreto, ma assente dalla mentalità dei patrizi come dei plebei dell’Urbe. E la solitudine del princeps è quella kafkiana del Potere medesimo, prigioniero degli stessi meccanismi che lo tengono in vita: non a caso il personaggio del prefetto Sallustio Crispo, esecutore materiale dei disegni di Livia, appare sempre nervoso e sudaticcio, più preoccupato di mantenere la testa attaccata al collo che della salus rei publicae, alla pari dell’ambizioso e intrigante Elio Seiano, futura anima nera del successore Tiberio. L’arresto di Giulia, in una livida mattinata autunnale, è il primo fremito di una vera e propria ondata di terrore che si abbatte su Roma, come accadrà secoli dopo nella Parigi della notte di san Bartolomeo. L’ipocrita solennità delle pene proposte da Augusto ad un Senato asservito e intimidito, nella certezza che proprio la sua assenza li spaventa ancora di più della sua presenza, facendoli sentire tutti osservati dall’occhio invisibile di un tiranno sempre più diffidente e sospettoso, è un quadro efficace del degrado di una casta dominante intossicata dal servilismo e dalla delazione. Certi passaggi narrativi di De Angelis non mancano di suggestione: il suicidio quasi ieratico e rituale di Iullo, che ricorda l’harakiri dei samurai; l’amaro flusso di ricordi di Scribonia, madre di Giulia, durante il viaggio verso l’esilio; la brutale esecuzione di Cornelio Scipione, descritta con poche terribili pennellate espressioniste.
L’incubo di una dinastia che come Saturno divora i propri figli
Il dramma di Giulia e Scribonia, figlia e moglie ripudiate dal tiranno per la “ragion di stato”, e poi delle altre due nipoti, Giulia Minore e Agrippina, si dipana in una progressione drammaturgica che stritola implacabilmente le esistenze di vari personaggi, principali o secondari che siano. Ritroviamo echi dello Shakespeare di Riccardo III o di Tito Andronico in questa orgia di crudeltà, infamie e tradimenti: nessuno è innocente, si può passare disinvoltamente dal ruolo di carnefici a quello di vittime (come succederà a Seiano, per esempio) e mai viceversa. Ed è proprio la sobria efficacia da cronista che serpeggia nel modo di narrare dell’autore che rende il quadro ancora più agghiacciante. De Angelis non insiste mai su dettagli macabri o raccapriccianti, riservando alle morti violente lo spazio minimo necessario: è l’angoscia delle vite in bilico che gli interessa, il senso di soffocamento provato dai personaggi in un labirinto senza uscite, in cui basta una parola fraintesa dal despota per finire rinchiusi nell’orrido carcere Mamertino, il mattatoio di stato della Roma augustea. Pretoriani e liberti, veri e propri sicari con licenza di uccidere, finiscono per diventare indispensabili al vecchio e logoro autocrate risucchiandone il carisma fino a farlo degenerare nella più odiosa tirannide: Augusto è ormai la pallida ombra del grande condottiero e riformatore che aveva riportato la pace a Roma e fondato un impero destinato a durare altri quattro secoli. Saltando avanti di due anni a metà del percorso narrativo, De Angelis opera una cesura fondamentale descrivendo la morte di Gaio Cesare in Armenia, che spiana la strada definitivamente agli intrighi di Livia. Augusto appare come un burattino manovrato da lei e finisce per accettare ogni suo suggerimento come se provenisse da un oracolo: una sudditanza psicologica che affiora sempre più nitida di pagina in pagina. Il moralismo dell’imperatore, sempre più cupo e collerico, degrada ormai in patologica sessuofobia, prefigurando il delitto di lesa maestà anche nelle più lievi manifestazioni di insofferenza verso il suo paternalismo dispotico e oppressivo. Ne fanno le spese via via i nipoti Giulia Minore e Agrippa Postumo, il poeta Ovidio, l’amico Fabio Massimo. Ormai il vecchio autocrate sta creando il vuoto attorno a sé ...
Il cerchio si chiude: Tiberio liquida quel che rimane della Gens Iulia
La fatidica estate dell’anno 14 culmina con la morte di Augusto e Livia realizza finalmente il suo sogno: la corona imperiale è rotolata lungo un sentiero lastricato di sangue, finendo sulla testa di suo figlio Tiberio. La spietata eliminazione di Agrippa Postumo, l’ultimo dei tre figli di Giulia Maggiore, giustiziato in virtù di una sentenza contraffatta su cui il prefetto Sallustio Crispo appone il sigillo imperiale, ne rappresenta l’inevitabile corollario. Quando apprende che anche il suo amante Sempronio Gracco è stato soppresso, Giulia Maggiore si lascia morire di inedia. Unica antagonista della trionfante Livia resta Agrippina, sorella di Giulia Minore e moglie dell’affascinante Gaio Germanico, che alla testa delle legioni ha vendicato la disfatta di Varo nella selva di Teutoburgo, debellando le tribù barbare ribelli oltre il Reno. Ma ci penserà il veleno a eliminare Germanico, la cui popolarità è temutissima da Tiberio e poco dopo la morte in esilio della sorella Giulia Minore, anche Agrippina verrà accusata di cospirazione e relegata sulla stessa isola in cui era stata deportata la madre Giulia Maggiore. Nel frattempo, la morte ha colto anche Livia, ma la sua maestria nell’intrigo rivive nell’indole machiavellica e vendicativa del figlio Tiberio, ormai saldamente al potere. Siamo nell’anno 30, all’ultimo atto di questa interminabile mattanza dinastica: per sbarazzarsi del troppo ambizioso prefetto Seiano, Tiberio gli fa pervenire l’ordine verbale di giustiziare i due figli maggiori di Agrippina, mentre subito dopo lo accusa di complotto di fronte al Senato facendolo condannare a morte. Solo il più giovane dei figli di Agrippina, Caligola, il futuro imperatore pazzo, viene risparmiato: Tiberio non ha figli e la successione va comunque garantita. Schiantata dalla notizia dell’esecuzione dei figli, Agrippina finirà per morire di crepacuore. È l’anno 33, lo stesso in cui un certo Gesù di Nazareth finisce sulla croce in Palestina... Concludendo la sua narrazione con uno sprazzo di intenso lirismo, De Angelis fa calare sullo scenario un cupio dissolvi denso di oscuri presentimenti. Il pregio più significativo di questa cronaca dei primi Cesari, che scorre via senza intoppi fino all’epilogo, è l’amalgama impeccabile fra il rigore storiografico e gli indispensabili risvolti romanzeschi. De Angelis tratteggia personaggi e situazioni con plastica efficacia, senza mai indulgere in descrizioni troppo particolareggiate, che spesso rendono la lettura di questo genere di romanzi piuttosto ardua per chi non ha una passione sviscerata per l’antichità classica. La sostanza del pathos emerge soprattutto dai dialoghi, fitti e costanti lungo l’arco della trama, e la presenza di molti personaggi secondari è sempre funzionale a questo snello e incalzante impianto narrativo. Rinunciando a scenografie pompose da kolossal, l’autore ricorre invece a una sequenza di vivaci tableaux vivants che arieggiano il testo e lo rendono gradevolmente fruibile anche per un lettore non particolarmente ferrato in Storia romana.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi