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Anno II, n° 14 - Ottobre 2008
L’uomo non è che un gatto che si morde la coda!
di Simona Corrente
Viaggio tra Italia e Polonia tentando di sfuggire agli schemi in un testo
pubblicato da Il Filo, che mette in relazione Letteratura, Musica e vita
«La parola all’inizio è vuota e qualche volta può capitare che il senso del quale un individuo la riempie non coincida con il senso che un secondo individuo ha utilizzato per riempire la medesima parola. Il risultato è che si fraintende. L’unico modo per capirsi fino in fondo è quello di staccarvi della vostra realtà e di entrare, per un attimo, nella mia..». Si chiude così l’introduzione del libro Il gatto che si mordeva la coda (Il Filo, pp. 160, € 13,00) di Emanuele Liaci – scrittore salentino e polonista (si chiamano così gli studiosi di lingua, letteratura e cultura polacca) –, originale romanzo letterario in cui l’autore affronta in maniera disinvolta, ma attenta il problema della forma, già oggetto di capolavori del Novecento.
Nel libro dal titolo tutt’altro che usuale, Liaci elabora un racconto completamente personale mettendo in relazione un personaggio della letteratura italiana del Novecento, il Mattia Pascal di Luigi Pirandello con Ferdydurke, protagonista dell’omonimo romanzo di Witold Gombrowicz, grande esponente della letteratura polacca dello stesso periodo.
Protagonista indiscussa dell’opera liaciana è la forma, filo conduttore tra i due scrittori del Novecento e il nostro contemporaneo salentino. Una forma che imprigiona l’essere umano e ne determina l’intera vita, «sentirmi appiccicata un’etichetta in un punto della schiena che non potrò mai raggiungere con le mani per strapparla», un’insofferenza che genera nell’autore domande socio-introspettive quali «chi sono stato fino a questo punto? Chi sono adesso? E chi diventerò nel futuro?».
Un viaggio autobiografico romanzato che ripercorre un dramma insito nell’uomo. Scenari polacchi che si intrecciano con quelli italiani, una perfetta integrazione tra culture, lingue e paesaggi che è evidente soprattutto nell’idioma utilizzato dall’autore, sicuramente italiano ma permeato di numerosi elementi della sibilante lingua polacca.
Le parole come chiavi di lettura dell’opera
All’interno del romanzo di Liaci si evidenziano parole che racchiudono il senso stesso dell’opera e che si caricano soprattutto di forti riferimenti letterari.
È la parola, in senso generale, a favorire la comunicazione tra gli individui e al tempo stesso a generare incomprensioni, non solo tra idiomi diversi ma anche all’interno della medesima lingua. I motivi sono di carattere socio-culturale, ovvero si crea incomprensione quando si attribuisce alle parole un senso che, al di là di quello meramente linguistico, non rispecchia il significato socialmente attribuitole.
La prima parola chiave del romanzo è sicuramente il verbo “cuculizzare” di invenzione gombrowicziana. Il concetto che essa esprime è ricorrente nel libro e determina lo svolgersi della trama stessa. Per “cuculizzare” si intende «far penetrare passivamente nelle menti regole, forme e ideali stabiliti da autorità superiori». Nell’opera di Liaci tutti i protagonisti vengono “cuculizzati”.
L’uomo è ciò che la società gli impone di essere, o meglio l’uomo, in quanto essere sociale, si riconosce nella forma che gli altri gli attribuiscono, per riprendere Liaci si tratta di quella già citata etichetta posta al centro della schiena.
Ecco allora che emerge la seconda parola chiave. Nell’intero arco della sua esistenza l’essere umano è racchiuso in una forma. Chi avverte questo stato di prigionia e tenta di sfuggirvi, spreca le sue energie invano poiché, come appunto ha dimostrato Pirandello nel suo Il Fu Mattia Pascal, abbandonare una forma vuol dire non esistere per il semplice fatto che la società non riesce a riconoscerlo. Assumerne una nuova diventa impossibile perché si è al di fuori dalle leggi comuni e altrettanto invano è il tentativo di tornare alla forma precedente poiché il contesto sociale risulta ormai mutato.
L’unico tentativo per sfuggire alla prigionia resta quello di cambiare costantemente in un moto continuo, in modo da non farsi imprigionare in nessuna forma, questo il suggerimento di Gombrowicz nel suo Ferdydurke. Alla fine però anche tale tentativo risulta poco producente, vivere al di fuori della forma che la società attribuisce equivale a non esistere e perciò alla morte.
Il libro di Liaci si può, pertanto, definire un romanzo analitico psicologico ma anche letterario musicale, non mancano difatti citazioni delle poesie-canzoni di Roger Waters, ex membro dei planetari Pink Floyd, disseminate per tutto il racconto creando una miscellanea tra le varie arti creative che rafforza, po prostu (semplicemente, in lingua polacca) quella insofferenza alla forma sociale propria solo degli spiriti veramente liberi, «Goodbye all you people / there’s nothing you can say / to make me change my mind».
Da autore a protagonista del racconto
Nel suo lavoro di interprete e traduttore, protagonista del romanzo liaciano è lo scrittore stesso che grazie ad una lingua chiara, semplice e sicuramente non banale riesce a trasmettere con immediatezza i sentimenti e le trepidazioni della storia che va via via narrando.
In un viaggio che non è solo introspettivo, si alternano scenari nostrani con luoghi e tradizioni di un Est che non è poi tanto lontano. Da Roma il protagonista si reca a Varsavia per svelare il mistero dell’omicidio-suicidio di Adriano Meis e scagionare il povero Mattia Pascal. Giunto, però, nella sua amata Polonia, il narratore da artefice di trame e salvatore si ritrova vittima.
Una storia fatta di colpi di scena e dall’epilogo assolutamente imprevisto. Un finale che per certi versi resta “aperto”, che si presta all’interpretazione del lettore, il quale a sua volta sceglierà per il protagonista la soluzione a lui più congeniale.
Simona Corrente
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 14, ottobre 2008)