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Anno II, n° 14 - Ottobre 2008
I nuovi States
targati Obama
di Annalice Furfari
Nel libro di Donzelli
i sogni, l’ambizione
del candidato nero
Il celeberrimo “sogno americano” sembrava un lontano ricordo ormai sbiadito quando, il 10 febbraio 2007, «uno spilungone con un nome buffo» (per riprendere le sue stesse parole) annunciò la propria candidatura alle primarie del Partito democratico per la nomination a presidente degli Stati Uniti. A partire da quel momento, una corrente di rinnovamento ha iniziato a investire e attraversare un paese allo sbando, incapace di guardare a un futuro più roseo, e ha preso lentamente terreno l’idea di un nuovo “sogno americano”. Colui che ha reso possibile questa metamorfosi è Barack Obama, primo uomo di colore a correre per la carica politica più ambita del mondo. Yes, we can – Il nuovo sogno americano (Donzelli editore, pp. 158, € 14,00) tenta di gettare luce sul “fenomeno Obama”, dando voce allo stesso candidato, alle sue istanze e ai suoi ambiziosi progetti per l’avvenire del popolo statunitense. Il libro, infatti, si presenta come una raccolta di saggi (tradotti da Bianca Lazzaro e Andrea Piccoli e introdotti da Empedocle Maffia) che riproducono i discorsi pronunciati dal democratico nel corso delle tappe fondamentali della sua ascesa politica, dal 2002 al 2008, soffermandosi prevalentemente sui punti programmatici grazie ai quali Obama ha superato la sua temibile rivale in seno ai democratici, Hillary Clinton. Inizialmente, pochi avrebbero scommesso sulle possibilità di riuscita del senatore dell’Illinois, ma il progredire delle primarie ha ribaltato ogni pronostico della vigilia, rivelando l’enorme e crescente stima di cui il candidato nero gode presso buona parte dei cittadini statunitensi. Chissà che questo politico, appena quarantasettenne, non riesca davvero nell’impresa di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America…
Aiutare il prossimo e coltivare sogni grandiosi
Vale la pena soffermare l’attenzione sulla biografia di Barack Obama, per comprendere a fondo le sue scelte e i suoi orientamenti politici. Egli nasce a Honolulu, il 4 agosto 1961, da madre americana (Kansas) e padre africano (Kenya). Ben presto i genitori divorziano e Obama trascorre l’infanzia accanto alla madre e vive un’adolescenza inquieta, divisa tra Kansas, Kenya e Indonesia (dove affondano le radici del secondo marito della madre). Dopo una prima laurea in Scienze politiche alla Columbia University, consegue un secondo titolo universitario in Giurisprudenza nella prestigiosa sede di Harvard. Nonostante ciò, anziché intraprendere una carriera legale presso i facoltosi uffici di Wall Street, decide di trasferirsi a Chicago per assecondare la sua indole altruista e idealista. Qui, infatti, Obama inizia a lavorare per conto di una chiesa come assistente della comunità nera locale, sviluppando programmi di sostegno ai poveri della città. Nel 1996 giunge la svolta: appena trentacinquenne, Barack si lancia nell’avventura politica, candidandosi a senatore nello stato dell’Illinois. La sua carica idealista e appassionata gli consente di vincere questa prima sfida, preludio di una carriera a dir poco brillante, che, dal 2004, prosegue conquistando un seggio al Congresso di Washington, sino alla candidatura del 10 febbraio 2007, che a molti appariva una scelta azzardata, ma rivelatasi, al contrario, più che riuscita.
Imperativo categorico: uscire dal pantano dell’Iraq
Il programma con cui Obama si propone come futuro leader del popolo statunitense può essere sintetizzato in una serie di punti fondamentali, illustrati chiaramente nel testo della Donzelli. In primo luogo, vi è il nodo della guerra in Iraq. A tal proposito, il candidato democratico non ha mai nutrito dubbi o mostrato atteggiamenti ambigui. Già nell’ottobre 2002, infatti, pronuncia a Chicago un discorso che non dà adito a fraintendimenti: non si comporta da pacifista «contrario a tutte le guerre» ma si oppone fermamente alla guerra in Iraq, avviata e condotta in maniera «ottusa e avventata», «una guerra decisa dall’istinto e non dalla ragione, da intrighi politici e non da principi morali».
L’intervento militare in Iraq non ha prodotto altro che distogliere l’attenzione degli States dai pericoli crescenti nel mondo (ad esempio, in Corea del Nord e Iran), costare lacrime e sangue a migliaia di americani, rafforzare la minaccia terroristica internazionale e rendere gli Usa e il mondo intero molto meno sicuri dell’11 settembre. Anche perché la guerra contro il regime di Saddam Hussein è stata condotta in maniera puramente ideologica, senza una strategia militare e politica precisa e vincente. Tuttavia, per Obama, rimediare agli errori dell’“amministrazione Bush” è ancora possibile. È, pertanto, fondamentale «uscire dal pantano iracheno», smobilitando le truppe presenti nel territorio, in modo tale da spingere i leader politici locali a promuovere finalmente un accordo risolutivo tra le fazioni in lotta, che possa creare un senso di stabilità nel paese. Per conseguire quest’obiettivo è necessario adoperare i mezzi della diplomazia, molto più efficaci di quelli militari.
Dalle considerazioni sulla guerra in Iraq all’illustrazione dei progetti di politica estera il passo è breve. I diretti ispiratori dell’ambizioso programma di Obama sono i presidenti più amati che gli States abbiano mai avuto: Franklin Roosevelt (che con le sue “Quattro libertà” diede senso alla lotta mondiale contro il nazifascismo), Harry Truman (che promosse la costruzione della Nato, una nuova audace struttura militare capace di far fronte alla minaccia sovietica e, al contempo, con il “Piano Marshall”, aiutò a garantire la pace e il benessere delle nazioni occidentali alleate degli Usa) e, infine, John Kennedy (che modernizzò la dottrina militare del paese e rafforzò l’esercito, pur creando i “Corpi della pace” e l’“Alleanza per il progresso”). Il punto focale della politica estera che il candidato democratico avvierebbe, nel caso in cui diventasse presidente, è il ritorno a una leadership energica e forte, «in grado di guardare lontano» e di sconfiggere le insidiose minacce del XXI secolo: le armi di distruzione di massa; i terroristi che operano su scala globale, contrassegnati da un anelito religioso di autodistruzione, il surriscaldamento del pianeta, che può causare nuove malattie, produrre disastri naturali devastanti e innescare sanguinosi conflitti; il progressivo esaurimento del petrolio, che costringe a individuare prontamente forme energetiche alternative e valide. Ma, per fronteggiare questi pericoli, gli Usa devono dimostrare di avere il coraggio della sfida e del cambiamento, oltre che la capacità di abbandonare l’egoismo e l’individualismo e sostenere grandi sacrifici con spirito di abnegazione e senso della comunità, con il pensiero costantemente rivolto alle condizioni di vita delle generazioni future. Inoltre, per vincere queste difficili battaglie, gli Stati Uniti hanno bisogno del mondo, così come il mondo ha bisogno degli Stati Uniti. «Non possiamo ritirarci dal mondo – sostiene Obama –, ma non possiamo nemmeno cercare di sottometterlo a noi. Dobbiamo guidare il mondo, con l’azione e con l’esempio». Per recuperare la credibilità che il governo statunitense ha perso agli occhi degli altri Stati a causa dei metodi dell’“amministrazione Bush”, è fondamentale: concentrarsi «sulla risoluzione dell’ormai incancrenito conflitto tra israeliani e palestinesi»; rinvigorire l’apparato militare, «necessario più di ogni altra cosa per mantenere la pace»; arrestare la crescita delle pericolose armi nucleari; combattere il terrorismo globale, investendo sul potenziamento del sistema di intelligence, della sicurezza interna e delle alleanze internazionali; contribuire ad accrescere le opportunità di istruzione, cura e benessere economico nei paesi poveri, facile terreno di coltura dell’estremismo; dare il buon esempio nella riduzione delle emissioni di gas serra e puntare sull’energia pulita; costruire società più giuste, libere, sicure e democratiche, in cui i diritti civili vengano riconosciuti a tutti e rispettati da tutti. Proprio per quest’ultima ragione, il senatore dell’Illinois sostiene l’importanza di chiudere immediatamente la prigione di Guantanamo, nella quale i valori tradizionali della cultura statunitense sono stati inesorabilmente calpestati, mettendo a tacere la consapevolezza coscienziosa che la tortura non può mai essere giustificata e tollerata.
La forza dell’unione come strumento di rinnovamento
Un altro caposaldo delle istanze politiche di Obama è la questione razziale. Le condizioni della popolazione di colore sono certamente migliorate rispetto ai tempi della schiavitù, grazie al sacrificio delle generazioni precedenti, ma vi sono problemi ancora aperti, in quanto «i principi di uguaglianza stabiliti e conquistati con fatica sono qualcosa per cui bisogna combattere tutti i giorni». Infatti, l’ingiustizia e la disparità di trattamento persistono nel sistema penale degli Usa e «ci sono ancora molti diritti economici da conquistare», nell’ambito dell’istruzione e della sanità. L’esortazione principale che il candidato alla presidenza rivolge al popolo con cui condivide il colore della pelle è quella di partecipare attivamente e in prima persona alla vita politica del paese, con l’obiettivo di contribuire a migliorarlo per sé e per gli altri.
In merito al complicato rapporto tra politica e religione, Obama nutre idee profondamente conciliatorie. A suo avviso, infatti, è giunto il momento di abbattere la reciproca diffidenza esistente negli Usa tra la cultura religiosa e quella secolare. L’unico modo per farlo è «riconoscere l’importanza della fede nella vita della gente» e armonizzarla con le legittime esigenze di una democrazia pluralista, in cui istanze molteplici vanno parimenti rispettate. Da qui deriva la funzione pregnante del dialogo, dell’arte del compromesso, del senso della misura e del confronto sempre civile e aperto (e mai estremizzante) tra culture, religioni e tradizioni differenti, così da promuovere una convivenza pacifica e tollerante, che «sappia conciliare il credo di ognuno con il bene di tutti».
Nel programma di Obama vi è grande spazio anche per le politiche sociali, che devono risollevare le sorti di una popolazione piegata dall’aumento esorbitante del costo della vita, causa predominante del lento sbiadire del tradizionale “sogno americano”: un lavoro con un salario che possa mantenere una famiglia, una sanità su cui contare e alla portata di tutti, una pensione dignitosa e garantita, un’istruzione valida e di elevata qualità, opportunità di formazione e crescita per tutti i ragazzi, non solo per i figli dei ricchi. Tali bisogni essenziali si sono trasformati in chimere irraggiungibili per buona parte dei cittadini statunitensi. Tuttavia, il candidato di colore è convinto di poter alimentare nuovamente queste speranze comuni, a patto che il paese ritrovi il senso di unità perduto e si ponga fine alla politica di polarizzazione e divisione che, ormai da troppo tempo, lo rende debole e incapace di agire in nome del bene comune. È proprio questo il segreto di Obama: la sua forza, la ventata di rinnovamento che ha apportato alla stagnante politica statunitense consistono nell’appello accorato, appassionato, idealista e concreto al contempo, all’azione e all’unità del popolo degli States, quella stessa unità che lo ha reso grande in passato. Appello che il candidato democratico ribadisce ne La promessa americana. Discorsi per la presidenza, il nuovo libro pubblicato da Donzelli editore. Anche qui Obama ricorda che i cambiamenti importanti e i miglioramenti consistenti di un paese necessitano del contributo diretto e attivo di tutti i membri della comunità, che devono dismettere l’atteggiamento apatico, rassegnato, rinunciatario e indifferente, essendo chiamati a prendere in mano le sorti del loro futuro e di quello delle generazioni che verranno. Solo così sarà possibile riaccendere il “sogno americano”, al grido di «Yes, we can». Noi possiamo.
Annalice Furfari
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 14, ottobre 2008)