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Anno II n° 13 - Settembre 2008
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno II n° 13 - Settembre 2008

Zoom immagine È profondo il solco
tra l’ambientalismo
e i suoi detrattori.
A chi dare credito?

di Andrea Vulpitta
In un testo Rubbettino gli ecologisti
e l’ambientalismo sotto un’altra luce


Meglio dirlo prima a scanso di equivoci: ci siamo avvicinati al libro da leggere con l’opposto sentimento di attrazione-repulsione. Già dal titolo, Perché l’ambientalismo fa male all’ambiente, di George Reisman (Rubbettino pp. 66, € 10,00) e dalla quarta di copertina viene spiegato dall’autore come l’intero movimento ambientalista rappresenti una condanna per il genere umano. Essendo convinti difensori dell’ambiente da preservare per le generazioni che verranno, la curiosità ci ha spinto a intraprendere questa lettura e alla fine si resta perplessi ma nascono dubbi e riflessioni. L’autore è professore di Economia presso la Pepperdine University della California e mostra sin dalle prime righe un pensiero prevenuto sulle politiche ambientaliste. Il lavoro è diviso in due capitoli, il primo ha come titolo: La tossicità dell’ambientalismo. Il punto di partenza dell’esposizione di Reisman è la messa in discussione della concezione filosofica dell’ambientalismo, per cui la natura possiede un valore intrinseco, preziosa di per sé, indipendentemente dal contributo che può dare alla vita e al benessere degli uomini. Tutto questo per l’autore causa la negazione dei valori umani intesi come la libertà da parte dell’uomo di soddisfare i propri desideri. Inoltre a riprova del fatto che la natura in senso lato spesso provoca più danni dell’uomo l’autore cita la rivista americana Forbes, secondo cui negli Stati Uniti il numero di morti  accertate per amianto sarebbe inferiore di un terzo rispetto alle morti causate da calamità naturali.

È vero, però, che alcuni allarmismi spesso sono ingiustificati o gonfiati a dismisura, o che gli esperimenti scientifici sui ratti, come sostiene l’autore, hanno poca rilevanza perché gli effetti dei test sono diversi se effettuati sugli uomini, ma che a questo debba corrispondere la libertà di poter disporre del bene ambientale in modo indiscriminato pare leggermente eccessivo. In questo modo il concetto di ambiente viene rovesciato e l’habitat dell’uomo deve essere migliorato continuamente per il suo uso e la sua comodità. «Si ha un miglioramento dell’ambiente quando l’uomo costruisce ponti, scava canali, scava miniere, elimina terreni, costruisce fabbriche o case, o fa qualunque altra cosa che rappresenti un miglioramento delle condizioni esterne e materiali della sua vita [...]. Di conseguenza tutta l’attività economica ha come solo scopo il miglioramento dell’ambiente». Di contro l’ambientalismo persegue solo «lo smantellamento della rivoluzione industriale» e non deve stupire che gli Stati Uniti abbiano il livello di vita più elevato, perché questo è conseguenza del fatto che registrano il consumo più alto al mondo di energia pro capite. Non poteva mancare nel testo il riferimento ai comunisti. Infatti l’autore sostiene che il movimento verde altro non sia che il vecchio movimento rosso. L’evoluzione consiste nel fatto che i “rossi” sostenevano che l’uomo, lasciato libero di agire, sarebbe andato verso lo sfruttamento del prossimo e verso il monopolio, mentre per i “verdi” l’uomo lasciato libero produce: buco dell’ozono, riscaldamento globale, inquinamento generale.

 

La scuola di pensiero contro l’ambiente

Il secondo capitolo del libro dal titolo L’ambientalismo alla luce di Menger e Mises è un omaggio alla figura di Ludwig von Mises, che Reisman candidamente ammette di rappresentare: «La principale influenza intellettuale sulla mia vita e sul mio lavoro».

Si ribadisce tutto il peso negativo del pensiero socialista che, sposato dalla maggior parte degli intellettuali nel mondo, ha causato la distorta visione dell’andamento dell’economia e addossato le maggiori responsabilità delle negatività sociali proprio al capitalismo. Questo pensiero oggi trasla verso il mondo ambientalista promuovendo una politica di laissez faire intesa non come mercato regolatore delle controversie economiche, ma come intoccabile valore dei cosiddetti ecosistemi.

L’autore racconta poi come altro faro per la sua formazione sia stata la lettura della Teoria dei beni di Carl Menger, secondo il quale: «Definiamo utilità quelle cose che hanno la capacità di essere poste in rapporto casuale con la soddisfazione dei bisogni umani, mentre se oltre a riconoscere questo nesso casuale abbiamo anche il potere impiegare di fatto le stesse cose per soddisfare i nostri bisogni li chiamiamo beni». È una teoria che vede la natura come un inesauribile contenitore di utilità e sostiene come l’uomo fino ad oggi sia riuscito a trasformarne in bene solo una piccola parte e che tutto questo è avvenuto grazie ai progressi tecnologici, che hanno permesso l’estrazione del greggio, lo scavo di gallerie e di eseguire lavori con sempre meno sforzo sia in termini di risorse umane che di tempo e costi.

In conclusione crediamo che sia difficile far coesistere le teorie ambientaliste e le teorie contrarie, perché, come sostenuto nel testo, per gli ecologisti l’ambiente non è l’habitat dell’uomo ma la natura in quanto tale, mentre per le teorie del moderno capitalismo tutto ciò che in natura può essere trasformato a beneficio del benessere e dell’utilità dell’uomo non solo è lecito, ma deve essere perseguito.

Conclude lo scritto, la Postfazione di Carlo Stagnaro che in parte condivide le tesi esposte nel testo, specie sulle critiche ad un certo ecologismo militante, ma pone qualche interrogativo sulla proposta dell’autore che ribaltando il concetto di laissez faire, forse annienta una scuola di pensiero che ha diritto ad esprimere il timore per l’eccessivo sfruttamento dell’ambiente.

 

Andrea Vulpitta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 13, settembre 2008)

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