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Anno I, n° 1 - Settembre 2007
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno I, n° 1 - Settembre 2007

Zoom immagine Autobiografia
del compagno

di Mirko Altimari
Vita di Pietro Ingrao
in un intenso libro.
Con qualche errore


Vi sono stilemi e termini che è difficile tradurre. Per presentare l’autore dell’autobiografia che oggi vi proponiamo, ve ne è uno in spagnolo che non sfugge alla regola dell’intraducibilità ma che, allo stesso tempo, è di immediata comprensione: stiamo parlando di Pietro Ingrao e l’espressione che da un po’ ci ronza in testa dopo aver letto la sua ultima e densa fatica letteraria Volevo la luna (Einaudi, pp. 382, € 18,50) è hombre vertical. Ciò non toglie (e nessuno lo nega) che nella sua lunga carriera politica Pietro Ingrao abbia commesso errori e sbagli anche clamorosi: infatti nel volume probabilmente la sezione più interessante e più attesa, soprattutto dopo l’uscita per la stessa casa editrice dell’autobiografia di Rossana Rossanda, è proprio quella che descrive il suo comportamento (vero e proprio «tradimento», come ammette lo stesso ex presidente della Camera e come analizzeremo tra poco) nei confronti dei compagni del gruppo de il manifesto, radiati nel 1969 dal Pci, i quali (giusto per sottolineare la portata di quel “voltafaccia”) basti pensare che erano definiti addirittura “ingraiani” all’interno del partito…

 

Il non impeccabile lavoro di editing dell’Einaudi

Però tra le pagine dell’autobiografia di Ingrao emerge un’eticità e una tensione morale di fondo nella sua azione politica che davvero, pensando inoltre ad altrettante grandi figure del suo tempo (non solo della sua stessa cultura e “parte” politica, ovviamente), ci fanno rimpiangere la Politica per come veniva intesa una volta: non vogliamo certo innalzare un peana al bel tempo che fu o alla cosiddetta Prima repubblica, ma davvero il confronto con l’attuale classe politica è imbarazzante.

Prima però di analizzare il volume ci si permetta un’introduzione, che fa il paio con quelle riflessioni già espresse nel presentare ai lettori il libro poc’anzi citato della Rossanda. Ci duole passare per pignoli, ma anche questa volta abbiamo delle rimostranze da fare nei confronti di chi “cura” l’editing di quella che è la più grande casa editrice italiana. Facciamo un esempio su tutti: a Pietro Ingrao (oggi ultranovantenne!) può anche scappare un refuso, ma che in stampa vada la definizione di Michele Bianchi come di «triumviro fascista» (a pagina 106) in luogo di quadrumviro, proprio in virtù della grande stima che abbiamo sempre nutrito nei confronti dell’Einaudi, va giudicato, francamente, come un errore molto grave, da matita blu insomma…

Pietro Ingrao nasce a Lenola, in provincia di Latina, nel 1915: la sua famiglia, agiata, è di origine siciliana e si è trasferita in Lazio a causa di alcuni avi dalla vita “turbolenta”, sia dal punto di vista politico che “personale”, e che lo stesso Ingrao descrive con grande forza letteraria rendendoli quasi personaggi da romanzo: «Scherzosamente si potrebbe dire che la mia famiglia è un frutto del processo unitario che nel secondo Ottocento rimescola l’Italia».

 

L’infanzia agiata e le esperienze ai Littorali

Come cresce il piccolo Pietro? «Noi bambini dei signori eravamo protetti e per molti versi anche educati dai nostri “parzenali” [come spiega qualche rigo prima si tratta dei contadini che stipulavano coi signori un contratto chiamato di «colonìa parziaria», Ndr]: ci insegnavano a salire sugli asini, a non finire nei pozzi, a salvarci dai morsi delle vipere, ad arrampicarci sugli alberi».

E però, sembra già suggerire il futuro leader comunista, anche in quel mondo in apparenza “pacificato” e nel quale i figli di signori e di contadini crescevano insieme, l’appartenenza a classi sociali differenti pesava come una cappa: «Rammento chiaramente di avere però avvertito, sin da fanciullo, come una insuperabile distanza. Più che un dominio dei miei padri sentivo una esclusione: la nozione vaga, sorda, che quei contadini erano un altro mondo […] Più tardi, molto più tardi capii che quella distanza sotterranea nasceva da un’oppressione: da un ordine che tagliava in due l’universo in cui crescevo».

Ragazzo dai multiformi interessi, che spaziavano dalla letteratura alla musica alla politica ovviamente, al cinema, tant’è che dopo la laurea in Giurisprudenza (presa alquanto svogliatamente, «gli studi giuridici non mi attiravano per nulla. Mi piacevano i versi e la musica») Ingrao si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia. Ma quegli anni furono fecondi anche per un’altra ragione: «Per incredibile che possa sembrare, fu ai Littoriali di Firenze che io incontrai quei miei coetanei con cui iniziai a discutere di lotta al regime e di cospirazione».

Può sembrare, a occhi “disattenti” e destoricizzando il periodo in questione, una scusa quella di Ingrao.

E invece un aneddoto che egli ci racconta (e che trascende dalla sua personale esperienza) forse serve a comprendere quel clima meglio di tante arzigogolati discorsi.

Addirittura ai Littorali del 1935 partecipò e vinse Antonio Amendola, figlio di Giovanni, insigne uomo politico e oppositore di matrice liberale del regime morto a seguito di un pestaggio squadrista: la sua partecipazione fece un certo clamore, «forse sorprese anche la giuria. E non so se ci fu da parte delle gerarchie fasciste un calcolo nel dare a quel giovane, che portava quel nome, il primo premio nella prova di critica letteraria».

Non prese certamente bene quel premio il fratello di Antonio, il futuro leader comunista Giorgio Amendola che all’epoca si trovava in confino a Ponza: ma quando Antonio andò a trovare il fratello «pose a lui la domanda stringente: che posso fare, come posso tentare di condurre una lotta, se non cerco, se non parlo con i miei coetanei? Se non mi interrogo con loro, se non verifico ciò che essi pensano, e che leggono? E se non frugo, sì, anche dentro le istituzioni fasciste per cercare possibili compagni?»

 

La militanza comunista e la clandestinità sulla Sila

Ma è grazie agli “echi” della Guerra di Spagna che Ingrao diventa organico al Partito comunista, divenendo membro attivo dell’organizzazione all’epoca clandestina.

Sono gli anni della militanza e della Resistenza quelli che nel testo sono evocati con maggior forza e intensità. Come riconosce lo stesso Ingrao, successivamente egli, nei confronti della guerra di Liberazione, fu «reduce che non aveva sparato un solo colpo».

Ma il suo ruolo nel biennio 1943-1945 fu altrettanto decisivo: tra le pagine più ricche di suggestione non possiamo non citare quelle dedicate alla sua clandestinità tra i boschi e i paesi della Sila cosentina. Ed è proprio nella soffitta di un compagno, a Spezzano, che il giovane Ingrao trovò un vero e proprio «tesoro di carte», ancora più prezioso se si considerano i tempi: «In quella soffitta lessi per la prima volta pagine di Gramsci, conobbi il nome di Terracini e di Nenni, e le vicende, il precipitare rovinoso dell’Italia verso la Marcia su Roma e la dittatura. Al di sopra di tutto, incontrai le vicende che rimandavano alla figura di Lenin: i favolosi – per me – resoconti o echi dei congressi della Terza Internazionale».

 

A capo dell’organo del partito

Dopo i mesi della clandestinità divisi tra l’altopiano della Sila e Milano, arriva però la Liberazione e il clima di quegli anni di “ricostruzione” della democrazia italiana è davvero descritto con grande forza da Ingrao: sono gli anni dell’impegno diviso tra partito e l’Unità di cui presto assumerà la direzione: e questa, in quegli anni, era davvero una posizione privilegiata e di gran rilievo per “osservare” le dinamiche politiche della neonata democrazia italiana.

Ecco come ricorda quegli anni, trascorsi insieme a una straordinaria redazione che comprendeva, tra gli altri, Maurizio Ferrara, Luigi Pintor, Alfredo Reichlin: «Il giornale si era consolidato. Ormai nei giorni feriali [...] raggiungeva le centinaia di migliaia di copie […] A dire il vero a noi, giovani reclute, non piaceva molto copiare lo schema dei giornali borghesi, nonostante spesso Togliatti [...] ci facesse l’elogio degli editoriali di Missiroli (insomma quel capo, quanto a scrittura e giornalismo, stava ancorato fortemente ai vecchi canoni). Ma noi non eravamo troppo obbedienti. Ci piaceva inventare nuove clausole. Intanto avevamo rotto la gerarchia dei fatti, che era in uso nei fogli borghesi. Portavamo clamorosamente in prima pagina le cronache del conflitto sociale».

E tale “eterodossia” non sempre era vista di buon occhio dall’Urss, tant’è che Ingrao ci descrive una conferenza del Cominform, nel quale il suo giornale sembra essere messo sul banco degli accusati da parte di quelli che possiamo considerare i “sacerdoti” dell’ortodossia sovietica.

 

I drammatici errori del 1956 e del 1969: una confessione senza alibi

Un anno di svolta drammatica fu il 1956, l’anno della famigerata invasione sovietica dell’Ungheria: Ingrao dimostra tutta la sua onestà intellettuale perché non cerca di attenuare il giudizio, severo, per il suo comportamento di allora, adducendo magari a sua parziale discolpa, come invece è stato fatto da tanti, il clima o la non completezza delle notizie che giungevano dall’Est. Ecco cosa scrive, tra l’altro, nelle pagine molto intense dedicate all’argomento: «Mentre si dispiegava quell’urto sanguinoso, io vissi l’errore più grave della mia vita politica. Scrissi un editoriale per “l’Unità” che condannava la rivolta ungherese e aveva un titolo roboante: Da una parte della barricata a difesa del socialismo. Purtroppo in quello scritto era gravemente falsa la rappresentazione dei fatti: in quei giorni il popolo ungherese difendeva la libertà del suo Paese dall’attacco armato di Mosca […] Perciò la descrizione della barricata, che io davo in quel mio articolo, più che sommaria era falsificante».

Stesso mea culpa, come anticipato all’inizio dell’articolo, Ingrao lo compie rispetto al comportamento da lui tenuto nel 1969 nei confronti del gruppo de il manifesto: sono poche righe, scritte en passant, quasi a non voler riaprire una ferita probabilmente mai cicatrizzata ma che Ingrao non tenta di edulcorare: «Sbagliai gravemente nello schierarmi: quando [...] votai a favore della radiazione del gruppo […] e fu davvero un’azione assurda perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta».

Ovviamente la vita di Ingrao fu anche tante altre cose: dai viaggi in giro per il mondo ai giri per la provincia italiana (particolare predilezione per quella Calabria che lo aveva visto “clandestino”), dall’impegno parlamentare fino ad essere eletto, primo comunista, presidente della Camera dei deputati agli eventi del 1968 che, a differenza di altri leader del Pci, guardò con attenzione e anche “trepidazione” personale visto che nella contestazione erano coinvolte le sue figlie. Ma abbiamo voluto offrirvi questa chiave di lettura del suo testo, partendo dalle “sconfitte” di Pietro Ingrao perché è proprio da queste che, a nostro avviso, emerge la sua statura politica e la sua coerenza di tutta una vita spesa per un ideale che, pur tra mille contraddizioni e critiche, continua a seguire. Non è un caso che il volume termini con la fine degli anni Settanta: «Pensavo che eravamo forti in Italia, ma troppo chiusi nei nostri confini: tanto più ora che la rottura con l’Urss procedeva veloce, e le commistioni, gli intrecci fra le vicende del pianeta divenivano sempre più stringenti. L’onda del movimento tornerà all’inizio del nuovo secolo. E sarà una nuova generazione in campo».

 

Mirko Altimari

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 1, settembre 2007)

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