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Anno II, n° 11 - Luglio 2008
In scena la condizione mortale dell’artista umano
di Ennio Masneri
Il teatro d’avanguardia, che mette a nudo la guerra interna di un uomo,
racchiuso in un breve componimento pubblicato da inEdition editrice
Il teatro nacque nell’antica Grecia e si è evoluto nel corso dei secoli fino a noi lasciando capolavori di Eschilo, Euripide, Sofocle fino a Shakespeare, Goldoni e fino ai più recenti De Filippo e Pirandello, solo per fare alcuni nomi. Il teatro ha sempre rappresentato la condizione dell’uomo esterna, cioè nei confronti della società, che interna cioè attraverso l’indagine psicologica dell’animo umano. Sul palco si rappresenta la storia o il carattere del personaggio in base a ciò che l’artista vede, studia e osserva la realtà che lo circonda. Attraverso i secoli si sono evolute tante cose, parecchie cose e così pure l’arte e con essa il teatro che si immergeva verso forme via via più diverse. Ma queste cose si sono evolute grazie al passato. È il passato stesso che determinando il presente lo proietta verso il futuro. Ma a volte, e non ce ne accorgiamo mai, è il presente stesso che ritorna, per capriccio o per un’idea chiara, nel passato. Si usa il passato per spiegare il presente, oseremmo dire.
Compare, è il caso di dirlo, sulla scena, in questo frangente, l’opera dell’attore e regista Alfonso Benadduce dal titolo, che è tutto un gioco di parole, Agogno la gogna pubblicato dalla inEdition editrice/Collane di Lucidamente di Bologna nell'ambito della collana di poesia Le costellazioni sonore (pp. 50, € 8,00). Accenni di poesia tragica con elementi di poesia moderna, quasi futuristica, accompagnano la lettura di questo volumetto.
L’indagine dell’opera
Quello di Benadduce è un testo che di norma andrebbe rappresentato. Tutti i testi teatrali fanno di solito questa fine, ma l’opera Agogno la gogna si presenta al lettore come un’opera a sé. Infatti anche leggendo non le parole pronunciate dai vari personaggi ma il racconto dei vari gesti, dell’ambiente, dei movimenti da’ al lettore la sensazione di vedere il teatro “con la mente”. Infatti la prima pagina è un sublime assaggio di poesia dell’ambiente, di ciò che insomma si muove all’interno di quello stesso ambiente, una descrizione poetica, oseremmo dire, di quello che avviene sul palco proprio per far scaturire quel sentimento di passione a una rappresentazione che potrebbe rischiare (l’ultimo giudizio spetta sempre al pubblico) di essere spenta.
«Sullo sfondo di un paesaggio desolato vibra lontano una figura nera. Fremono le foglie, urlano gli uccelli e il triste sogno dell’acqua svanisce fra le terre. Si rivoltano i fiumi e col grondare delle tempie si macchiano le vesti, come di carta. Patire e mai morire. Crolla l’eterno, bruciano le notti». Come si può capire, il lettore viene imprigionato da queste parole. È come se ci vivesse lui stesso in questo «paesaggio desolato». È in pratica un esempio di poesia d’avanguardia con accenni al passato. «Il condannato avanza, trascina morendo la sua tragedia. L’orrore guadagna terreno. Dappertutto è rumore che gela, di muscoli, di ferraglie e di gemiti rabbiosi. L’odore pesto pesto delle membra si spande tra le erbacce». Ecco che si vede il pessimismo esistenziale che avanza insieme al «condannato», ma che eppure subito dopo questo pessimismo svanisce per lasciare posto a una forza e una speranza inaudite: «Ma la bellezza come da carcassa sussulta ancora, emana costante una fragranza feroce. […] Tremano gli alberi trema la terra. Ma lui è forte, di carne dura, quella che più di ogni altra puzza quando brucia. […] Barcolla e si dimena per conquistare il palco, quel punto del sublime dove la fine avrà il cominciamento». «Cominciamento» dunque e non “inizio”. L’autore usa quindi forme anticonvenzionali. Non segue nessuna regola. Sta molto attento a seguire solo la sua mente e il suo cuore per mostrare qualcosa a qualcuno. Che mondo si presenta in questi versi? Forse un mondo di acceso pessimismo? O un mondo dove la morte è bene accetta nella follia dei personaggi per risorgere?
Il personaggio principale è “l’artista” mentre i personaggi di contorno si presentano nella loro varietà come per esempio la “becchina”, l’“anonima”, l’“ombra”, ecc. L’attore principale si lancia in non troppo lunghi monologhi, crudi, ma soprattutto senza ampollosità. È come se in questo volumetto si unissero il passato dei teatri greci, la mimica, la filosofia, la fragilità dell’animo umano, la capacità di capire la società umana attuale, la danza e, ovviamente la poesia. In breve questo è teatro.
Passato e presente per il futuro
Non ci permettiamo di raccontare la trama. Sta al lettore come al pubblico scoprirlo e interpretarlo fino a farselo suo.
Il pessimismo attuale parla attraverso la penna di Alfonso Benadduce che fa pronunciare al suo protagonista principale (il suo alter-ego?) il diritto alla morte mentre viene “metaforicamente” sepolto: «Un malato che non può sanarsi chiede la morte / io che non posso guarire voglio morire. // Forze dei miei sospiri mollate la presa / e tu respiro tracolla senza fiato. / Fate di me malaria / avvelenatemi col sangue più sfiorito. / Appestate il campo appassito che porto nel petto – / fiori morenti dentro le vene / foglie avvizzite tra le mie cosce. / Puzza, puzza di merda dentro gli umani. / Io profumo come l’acqua che bagna i paradisi, / la fonte dove pianto le mie corna / per essere vapore, / dove porto il nero della scena, / il buio tendone aperto sulle reni. // Il teatro non va fatto e la vita non va vissuta». Sembra di scorgere in questi versi del sarcasmo (o dell’autoironia) da parte dell’autore. Con queste parole egli si fa rappresentante del pessimismo nascosto e silenzioso dell’umanità ma capace anche di aprirsi a nuove speranze della vita.
Un ritorno al passato è l’inserimento del coro rappresentato, in questo caso, dal “Corteo” che, sottoforma di una «folla lamentosa si muove come una nebbia e prende posizione» e subito dopo si scopre il loro compito, cioè quello di portare «a spalla la gogna» mentre «le prefiche oscillano ai lati coperte da capo a piedi con veli bianchi e veli neri» e infine «giunti sul ciglio di una fossa la folla cala la gogna». Il “Corteo” non entra in merito per tutto il corso dell’operetta che comunque non presenta atti. In mezzo ai pochi e caratteristici personaggi esso si comporta come l’unione di due caratteristiche del teatro greco: è un coro che parla a una voce sola e parla in un’unica occasione come il personaggio di Pilade della tragedia greca Coefore del noto drammaturgo Eschilo.
Quindi, in questa rappresentazione del male di vivere dell’artista, il coro, cioè il “Corteo”, si rivolge non al personaggio principale, come fanno di solito i cori greci, ma alla notte: «Oh candida notte che non sei più la mia, / deforme quanto una vile agonia / rabbuia il mio mal di gioia / e quel sole invidioso che scalda e invade. / Ah se l’universo tacesse e i corvi mancassero / se il nero rendesse omaggio / e sopra il volo calasse una tela, / quante carni vedrei placarsi, / niente più palpiti da ingorde fibre vive / porche, dannatamente porche e vive!». Un’opera unica all’interno dell’opera maggiore.
Teatro d’avanguardia
Come abbiamo notato l’autore è molto attento a non usare frasi comuni. Ha saputo, al di là del contenuto, unificare alcuni metodi della tragedia greca, il movimento, il pathos, ma anche l’ambiente, la scenografia, il comportamento dei protagonisti,ecc. In base c’è, in conclusione, un’idea, poi c’è l’altro che avanza. Ed è stata la penna di Alfonso Benadduce – che ha dietro di sé una lunga esperienza teatrale sia come attore che come regista e che quindi conosce il teatro – ad avanzare e a colpire, a tratteggiare le parole d’immortale poesia. In base quindi alla miscellanea di tutte queste caratteristiche possiamo dire che è un’opera di teatro d’avanguardia che va studiata a fondo, all’interno delle varie riflessioni psicologiche dell’autore, messa in scena e, in base al pubblico, applaudita nonché apprezzata dal lettore che vorrà farsi un’immersione di questo teatro rivoluzionario.
Ennio Masneri
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 11, luglio 2008)