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Anno II, n° 11 - Luglio 2008
Una profonda
analisi dell’arte
di Philip Dick
di Alessandro Tacconi
Un saggio molto affascinante,
denso, pubblicato da Meltemi
sul maggiore scrittore di sci-fi
Pratica della sintesi e della mistificazione. Critica della ragione applicata alla sintetica ricognizione di una serie di volumi del più importante e complesso narratore del XX secolo. Il fu Philip K. Dick è il narratore del possibile nelle sue imprescindibili e inafferrabili contorsioni spazio-temporali. Gabriele Frasca, nel suo saggio L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (pp. 264, € 20,50), pubblicato da Meltemi editore, traccia i contorni di una mente affascinante, disturbante e complessa, grazie a un sorvegliatissimo lavoro di analisi e traduzione, in senso letterale e lato, dal momento che il nostro autore ha tradotto anche il testo dello scrittore americano, poi pubblicato presso i tipi di Fanucci, Un oscuro scrutare, nella collana Collezione immaginario Dick.
Frasca, nato a Napoli nel 1957, è poeta, narratore, saggista, autore teatrale e traduttore. Ha collaborato con Radio Rai, insegna Letteratura Comparata all’università per stranieri di Siena. Si è occupato di Medioevo, Barocco, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Fra i suoi saggi: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett, La furia della sintassi. La sestina in Italia e La scimmia di Dio. Per la poesia ha pubblicato le raccolte Rame, Lime e Rive. Ha curato e tradotto anche opere di Samuel Beckett oltre a quella sopraccitata di Dick.
Le storie dello scrittore americano non hanno, a detta dell’autore stesso, un «senso perfettamente compiuto». Elementi tra i più distanti si coniugano, infatti, per dare vita a racconti indimenticabili e vorticosamente inquietanti: comicità, religione, orrore, psicosi, piaghe sociali e “scienze complesse”.
A capofitto nell’assurdo mondo contemporaneo
Dick nel suo «oscuro scrutare» attraversò tutti i nodi cruciali del presente: la sua scrittura assimilò le frontiere del sapere umano, ponendosi sempre e comunque con un atteggiamento critico rispetto ad esso. Per Dick, scrivere è sempre stato un atto di riscrittura del mondo stesso.
Il concetto di pace perpetua necessaria al buon funzionamento del mercato prelude, quindi, sin dal suo apparire, ai più intensi sforzi bellici della cultura occidentale. Vi sono realtà che (non) esistono dietro realtà che (non) esistono; una superficie, insomma, esiste e l’altra insiste, su una struttura così vuota da garantire ogni forma di intercambiabilità.
La realtà che insiste in trasparenza, impercepita se non viene fatta altrimenti riaffiorare, dona statuto di esistenza anche alle realtà, superficiali e appariscenti, che di volta in volta scopriamo dissolversi. Allestire un mondo possibile in un’epoca in cui da tempo avevano preso a contrapporsi due flussi informativi, e dunque due possibili riformulazioni di mondo, è interpolare ciò che dovrebbe essere, o avrebbe dovuto, o ha finito fra un flusso e l’altro addirittura col dirsi la realtà.
Lo studio di Frasca assimila gli elementi tipici dell’universo narrativo dickiano: la contrazione del senso comune al servizio di una formidabile visione allo specchio, cioè capovolta. Un mondo al contrario continuamente in movimento che mira a raggiungere e a sopprimere il proprio opposto. Se c’è un elemento che affascina in questo studio è proprio la densità del pensiero dello studioso e la sua affinità con quello dello scrittore statunitense.
In quale futuro è dato sperare con sufficiente fiducia?
Per un Dio che crea il creato, vi è sempre di poi una scimmia che dà origine a imitazioni inautentiche della creazione, con le quali riempire il vuoto. È l’inautentico che fa la storia, in quanto mette in moto il processo di verità che lo dichiarerà tale.
L’allestire mondi possibili è dunque per Philip Dick un’operazione dichiaratamente isotopa dell’alternarsi nel reale, per fallacia e dismisura dei sensi o per manipolazione sociale, di paesaggi veri e verosimili.
La scimmia di Dio, principio mistificante, interpola le sue false creazioni nel latente mondo dell’autentico, agisce direttamente sul mondo fenomenico. «Mondo zero e mondo uno sono immagini speculari.».
Ecco perché si assiste a una serie di scambi, continui e in qualche modo imbarazzanti, fra il mondo estraneo, cui è affidato il compito di portare un’altra coscienza, e la cultura che gli ha dato vita, fino alla nascita di una vera e propria immagine interiorizzata, dove le forze poste in essere nel sociale narrato si bilanciano perfettamente con quelle in opera nel tempo e nel luogo in cui il romanzo viene scritto.
Convivono a braccetto mondi possibili, in cui l’alternativa non è mai migliore, semmai è lo specchio più autentico e lucido di favole dell’orrore. Totalitarismi, identità mutanti, pervasività di sostanze stupefacenti, “androidizzazione” delle tecnologie sono solo confini labilissimi della nostra contemporaneità, che hanno questo di desolante: sembrano già oscure maschere del nostro recente passato.
Così, la profezia di Philip K. Dick ha avuto luogo ed egli, forse, sorride compiaciuto e un po’ preoccupato.
Alessandro Tacconi
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 11, luglio 2008)