Società di prodotti editoriali, comunicazione e giornalismo.
Iscrizione al Roc n. 21969.
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza
n. 817 del 22/11/2007.
Issn 2035-7370.
Direttore editoriale: Mario Saccomanno
A. XVIII, n. 203, sett. 2024
Quando la tecnologia tradisce:
il blackout del cloud del 2024
di Alessandro Milito
Cosa succede se il mondo digitale a cui abbiamo
delegato le nostre vite smette di funzionare?
Per scrivere questo articolo ho acceso il mio Pc portatile che si è immediatamente connesso alla rete. Ho utilizzato, come sempre, un programma di scrittura che è collegato a un cloud in cui sono salvati tutti i miei precedenti articoli, assieme a bozze, appunti e note: niente di tutto questo è archiviato nella memoria “fisica” del mio computer, viaggia tutto comodamente lassù, sulla nuvola virtuale; una comodità non da poco che mi permette, per esempio, di poter riprendere tutto ciò che stavo scrivendo da qualsiasi altro mio dispositivo, cellulare o tablet.
Non ho bisogno di una singola e ben definita postazione per scrivere: posso farlo ovunque, purché abbia un modo per collegarmi al servizio di cloud.
Tutto ciò che scrivo non è fisicamente nella mia disponibilità: sono a conoscenza, più o meno, che si trova da qualche parte, archiviato in qualche remoto server chissà dove. L’importante è che io possa raggiungerlo e utilizzarlo su mia richiesta. Ma cosa succede se questa catena improvvisamente si spezza?
Questa è solo una delle domande nate un venerdì qualsiasi che in poche ore è diventato il venerdì 19 luglio 2024: la data del più grande disastro informatico di sempre. Per ora.
Il grande bug
Il venerdì nero o forse blu – il colore della schermata di “errore di sistema” diventata protagonista – è iniziato con un micidiale “uno-due”: un’interruzione dei servizi di Azure, la piattaforma cloud di Microsoft, seguita da un aggiornamento difettoso di un software dell’azienda di sicurezza informatica CrowdStrike. Falcon sensor, questo il nome del programma, aveva il compito di garantire la sicurezza informatica dei server e del cloud di Microsoft: si è trasformato in un boomerang in grado di colpire, stando alle stime del colosso fondato da Bill Gates, circa 8,5 milioni di computer in tutto il mondo con conseguenze devastanti. Un blackout che ha messo in ginocchio tutto ciò che sembrava etereo, immediato ed efficiente.
4.300 voli cancellati, banche in tilt, supermercati e negozi chiusi per l’impossibilità di leggere e registrare i pagamenti, l’emittente Sky news che non riesce ad andare in onda, il 911 (il “118” degli Stati Uniti) fuori uso. Sono solo alcune delle immagini di quel pazzo venerdì 19 luglio. Una ferita alla società digitale che scotta ancora e che non dovrebbe essere liquidata con superficialità o come un semplice errore di percorso.
La dirompente diffusione di chatbot, come ChatGpt, con Intelligenze artificiali sempre più sofisticate ha monopolizzato il dibattito sullo sviluppo delle tecnologie digitali. Impegnati a discutere su scenari fantascientifici di Intelligenze artificiali dispotiche e del progressivo superamento dell’umanità, abbiamo dimenticato un aspetto molto più concreto e perciò molto più pericoloso: che cosa succede se l’impalcatura a cui abbiamo delegato le nostre vite smette di funzionare?
Cosa succede se tutto si blocca per un aggiornamento difettoso, per un errore umano, per un qualsiasi – e profano – “guasto”? Una domanda primaria, che precede anche il tema della cybersicurezza nazionale minacciata da nemici ben più agguerriti e pericolosi. Una domanda alla quale è difficile trovare una risposta individuale, prima che necessariamente collettiva, ma che tuttavia bisogna porsi.
Fragilità digitali
Aver delegato buona parte della propria vita a servizi digitali significa prima di tutto aver fatto un voto di fede a soggetti privati quasi sicuramente stranieri. Ciò non deve essere necessariamente considerato un fatto negativo ma è bene tenerlo presente. Chi ha acquistato in passato prodotti della cinese Huawei sa bene quanto è facile venire travolti dalle guerre commerciali tra colossi digitali e relative bandiere: nel 2019 l’amministrazione Trump vietò la vendita e l’utilizzo all’azienda cinese di tecnologia statunitense. E così gli smartphone e i tablet Huawei si ritrovarono senza i servizi di Google utilizzati da tutti, ogni giorno: un danno enorme per i consumatori europei finiti in mezzo alla guerra fredda cino-americana.
Un paradosso: per gli europei è più facile immaginare un’uscita indolore dalla Nato che una diaspora dall’universo digitale fondato principalmente su aziende, prodotti e servizi sviluppati e gestiti negli Stati Uniti d’America. È questo il legame più forte che rende il mondo occidentale – e non solo – radicalmente interconnesso e, allo stesso tempo, dipendente. Difficile immaginare che un cittadino occidentale possa rinunciare, se non duramente costretto, a servizi che fanno parte del suo quotidiano.
Nel mio caso farei molta fatica, dovrei ricostruire gran parte della mia produttività e del mio tempo libero, lo stesso mio lavoro in un ufficio pubblico andrebbe radicalmente rivisto. Ed i pagamenti? Non giro quasi mai con contanti in tasca, ormai non uso più nemmeno la carta di credito fisica ma solo in forma digitalizzata, ricorrendo al pagamento con lo smartphone. Ogni volta che vado in stazione o in aeroporto non mi preoccupo più di stampare e avere con me il biglietto: è tutto digitale ed è scontato che sia così.
Aver dematerializzato miliardi di file di testo e immagini non significa averli fatti evaporare nel vuoto: anche il concetto di dematerializzazione, volutamente richiamato dal candore leggero della “nuvola” (cloud), è illusorio. L’intera rete globale si basa su concretissimi e lunghissimi cavi che si inabissano negli oceani e risalgono fino a raggiungere immensi data center: la componente fisica della società digitale, il magazzino dei terabyte di tutto il mondo. Una struttura dall’impatto ambientale crescente che, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, consuma l’1–1.5% del fabbisogno mondiale di elettricità e che dovrebbe toccare il 2% nel 2026. Si tratta di un’impalcatura digitale sempre più essenziale ma potenzialmente fragile, la cui manutenzione è in grado di condizionare le vite di miliardi di persone in tutto il mondo.
Nuove strategie in attesa del prossimo crash di sistema
Integrare così a fondo le nostre vite con le tecnologie digitali comporta vantaggi innegabili ma parallelamente ci espone a dipendenze e debolezze con le quali bisogna fare i conti. Non serve richiamare i grandi maestri della fantascienza, o immaginare drammi fantapolitici, per capire che qualcosa può andare storto come un venerdì 19 luglio.
Immaginando i potenziali pericoli di questo ecosistema digitale si rischia di ricadere in un meccanismo di autodifesa reazionario e respingente. Sarebbe un errore: alle novità, e ai nuovi problemi che queste comportano, si reagisce con nuove strategie. Ciò che è necessario è essere consapevoli della fragilità delle nostre vite delegate al digitale e, subito dopo, re-inventare un piano b e un piano c. A parole può sembrare semplice, e persino affascinante, riscoprire il fascino ormai quasi vintage della scrittura a mano e dei meccanismi di archiviazione “fisici”. Nella realtà non sarà così facile rinunciare alle molte comodità che ormai diamo per scontate ma che, appunto, non lo sono.
Il contest è aperto: si dia voce alla storica – e analogica – creatività. Oppure, in mancanza di soluzioni, c’è sempre il solito e rassicurante “spegni e riavvia”.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 203, settembre 2024)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi