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A. XVIII, n. 202, 07/08_2024
I disagi di una
adolescenza
sofferente
di Ivana Ferraro
L’hikikomori: la scelta
consapevole di non avere
contatti col mondo esterno
Il termine hikikomori è la forma contratta di due parole: hiku (indietro) e komoru (isolarsi, chiudersi, nascondersi) e indica la volontaria “clausura” di alcuni soggetti che decidono di non avere alcun contatto con il mondo esterno, diffuso su tutto il pianeta.
Questo fenomeno sociale nasce e si sviluppa dapprima in Giappone, successivamente in Corea e in Cina e negli ultimi anni fa la sua comparsa negli Stati Uniti d’America, in Australia e in Europa.
La manifestazione più evidente è conclamata nel momento in cui il soggetto si ritira a vita privata e da essa non riesce a distaccarsene per almeno sei mesi. Questa fase potrebbe essere preceduta da altre pregresse fobie, distorsioni comportamentali – quali estrema timidezza, mancato senso di affettività, paura, ansia, eccessivo controllo sistemico delle situazioni o atti di violenza sui propri cari – o condotte di vita deregolamentate – inversione dei ritmi circadiani – probabilmente con forti carichi di stress, vissuti in ambito scolastico, familiare e/o dei pari.
Nascita nipponica dell’hikikomori
Il fenomeno hikikomori è stato rilevato In Giappone alla fine degli anni Novanta. Ne sono affetti più di un milione e mezzo di giovani e, prevalentemente, sono giovani di genere maschile di un’età media compresa tra i 18 e i 27 anni, figli unici o primogeniti, di ceto sociale medio-alto appartenenti a famiglie apparentemente “normali”.
I dati più recenti danno dei risultati ancora più sorprendenti: tra gli hikikomori sono da annoverare anche gli ultraquarantenni e il numero si attesta sul milione e mezzo di casi. La causa di ciò è rintracciabile nel fatto che gli adolescenti e i giovani adulti uomini, generalmente, si allontanano da un sistema sociale e scolastico troppo rigido e pressante a cui devono necessariamente conformarsi. Le donne hikikomori, circa il 10%, al contrario, si autorecludono poiché risentono un forte senso di solitudine e isolamento derivante da una società che le disconosce se non in subalternità rispetto agli uomini.
L’hikikomori non è una vera e propria patologia, anche se in Giappone viene considerata tale perché risulta inconcepibile e inaccettabile che un soggetto in buona salute rifiuti la comunicazione con l’altro e, quindi, una relazione di interazione con il sociale, in tutte le sue espressioni. Viene, pertanto, definita “patologia sociale”. È come se i giapponesi rifiutassero tutto ciò che mina l’armonia del gruppo, per cui il ritiro in hikikomori è un qualcosa che deve essere eluso ed evitato a tutti i costi.
Tale radicato sistema di credenze porta molte famiglie a vivere la problematica del figlio come qualcosa di cui vergognarsi; quindi, a meno che non si presentino condizioni estreme, i genitori non chiedono aiuto e supporto.
Come nasce e si evolve il fenomeno
Il termine hikikomori è stato creato agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki che, con tale espressione, voleva segnalare un fenomeno socialmente preoccupante e inquietante emerso in Giappone circa dieci anni prima. I primi casi di autoreclusione risalgono, probabilmente, agli inizi degli anni Settanta.
L’hikikomori nasce come forma di ribellione e di contrasto nei confronti della società giapponese: ovvero, i giovani nipponici, spesso, quando si trovano ad affrontare specifiche pressanti e limitanti richieste provenienti dalla società, dalla famiglia e/o dalla scuola non sempre riescono a trovare altro modo di reagire se non isolandosi. E più queste aspettative sono costanti e stringenti, più la reclusione diventa automatica, restringendo il numero di eventuali alternative possibili.
Gli hikikomori, di fatto, troncano qualsiasi forma di comunicazione, anche quella con i propri familiari. Il volontario e personale ritiro assume, quindi, un grande valore simbolico poiché si manifesta come oggetto e mezzo di espressione di conflitti, di problematiche non risolte, di disagi sociali, familiari, scolastici, psicologici ed emotivo-affettivi.
Rischi scatenanti da situazioni di esclusione sociale
Gli studi in questo settore hanno rilevato che l’hikikomori è un fenomeno multidimensionale derivante dall’interazione di molteplici variabili individuali e contestuali che interagiscono in tempi diversi e a livelli differenti. Per ciò che attiene ai fattori contestuali, società, famiglia e scuola sembrano avere un ruolo preponderante poiché essi rappresentano i principali contesti in cui nasce e si consolida per la maggior parte delle condotte adattive o disadattive.
Per quanto concerne la società, quella giapponese è un classico esempio di organizzazione sociale collettivista in cui si esaspera l’interdipendenza di ogni essere umano all’interno di un gruppo collettivo e la priorità delle finalità di gruppo su quelle individuali.
I giapponesi si preoccupano molto di come gli altri li vedono e li giudicano. Pertanto, l’affermazione del sé si manifesta soltanto quando si viene accettati dalla collettività e solo in un secondo momento vengono palesate le proprie aspirazioni e i propri desideri personali. A tutto ciò, si aggiunge un processo di categorizzazione sociale molto forte.
La decisione di ritirarsi in hikikomori
Dinanzi a una comunità con queste caratteristiche, rintracciabili anche per l’adesione smodata al confucianesimo, è facile capire e dedurre perché alcuni soggetti non riescano a conformarsi e decidano di ritirarsi in hikikomori.
Il motivo di fondo dimora, quindi, nel fatto che essi vorrebbero far parte della società e appartenere a una specifica categoria sociale che li aiuterebbe a non ritirarsi dalla vita sociale, ma non possono farlo perché pensano di non avere le competenze necessarie per fare quello che gli è socialmente richiesto.
Per ciò che riguarda la famiglia, questa è, generalmente, costituita da un marito esclusivamente devoto al proprio lavoro e da una moglie/ madre, che assolve a tutti i compiti: dal ricevere lo stipendio che il marito integralmente le elargisce, alla gestione della casa, dei figli e delle relazioni sociali.
In Giappone, il rapporto materno-filiale viene definito amae: un rapporto di completa dipendenza amorevole per la prole. Il comportamento materno è di completa devozione nei confronti del figlio, iperprotettivo e particolarmente indulgente. Si tratta, però, di peculiarità che indeboliscono la crescita e lo sviluppo funzionale del figlio poiché, crescendo, assorbirà la consapevolezza della bontà della madre, del suo sacrificio e maturerà un sentimento di obbligo nei suoi riguardi.
Anche la scuola prevede una rigida stratificazione verticale e gerarchica: la severità e la rigidità della scuola giapponese giocano un ruolo chiave nel ritiro in hikikomori perché un soggetto potrebbe non sentirsi in grado di soddisfare tutte le performance richieste nei vari ambiti della vita scolastica. Di conseguenza, le frequenti esperienze di fallimento (scarso rendimento scolastico, bocciatura, ecc.) creerebbero le condizioni affinché il soggetto pensi di non avere le competenze necessarie per fronteggiare i vari compiti scolastici e creda che qualsiasi tentativo di far fronte agli eventi sia inutile e inadeguato.
L’hikikomori nei paesi occidentali, in particolare in Italia
Attualmente diversi studi stanno ipotizzando la possibilità che il fenomeno hikikomori non sia legato esclusivamente alla cultura giapponese, ma si possano osservare casi di questo tipo anche in paesi diversi.
Comprendere la rilevanza del fenomeno potrebbe essere importante nella gestione e nel trattamento di questi soggetti, per evitare che una volta raggiunta la piena età adulta manifestino notevoli difficoltà di reinserimento, soprattutto in seguito all’impossibilità dei genitori ormai divenuti anziani di occuparsi pienamente di loro.
Il disinteresse dei giovani verso la vita sociale e lavorativa, anche se non esattamente analogo all’hikikomori, è stato riscontrato anche in alcuni paesi occidentali. In Inghilterra, per esempio, si utilizza la sigla Neet (Not in employment, education or training) per designare i giovani non impegnati in attività lavorative o educative. Negli Usa si utilizza il termine adultoscelent per indicare i giovani adulti che ancora vivono con i loro genitori e che non sembrano avviarsi verso una vita propria, indipendente dalla famiglia.
I casi di hikikomori in Italia
In Italia i primi casi di hikikomori sono stati registrati intorno al 2007/2008. Indicare una data di comparsa del fenomeno non significa che il problema sia sorto all’improvviso, anzi è possibile ipotizzare che esistesse da tempo, ma che le famiglie e i professionisti non gli avessero prestato particolare attenzione. Le famiglie perché lo consideravano come manifestazione di una transitoria crisi giovanile e perché si vergognavano di parlare con qualcuno del comportamento anomalo del figlio; i professionisti perché, non conoscendo la realtà giapponese, non potevano mai immaginare che un inizio di autoreclusione si potesse trasformare in un lungo e complesso isolamento che pian piano distrugge l’individuo. Non vi è, dunque, un problema di competenze, ma di motivazione.
Attualmente, in Italia gli hikikomori sono quai 70.000 e, generalmente, sono maschi e iniziano la reclusione intorno ai 18 anni per protrarla per circa quattro/cinque anni, al contrario del Giappone il cui record di isolamento è stato di quindici anni.
Gli hikikomori italiani possono essere definiti come quei soggetti che non rifiutano a priori la società, anzi fanno di tutto per poterne fare parte, ma, a causa sia di specifici fattori individuali e contestuali sia di stati emotivi negativi, non vi riescono e consapevolizzano l’idea di non essere idonei per stare nella società e che, quindi, l’unica soluzione possibile sia quella di rinchiudersi nella propria stanza. A ciò si aggiunge anche la convinzione che tramite l’isolamento si diventi autonomi e liberi poiché non si è più costretti a fare ciò che gli altri si aspettano.
Come quelli giapponesi, anche gli autoreclusi italiani possono essere definiti tali solo nel momento in cui manifestano un ritiro sociale da almeno sei mesi, precedente alla fobia scolare, dipendenza da Internet e inversione del ritmo circadiano. Sono da escludere, invece, le caratteristiche tipiche delle condizioni giapponesi, inerenti all’eccessiva timidezza e alla violenza fisica verso i genitori. Inoltre, al contrario del Giappone, in Italia si manifestano forme di isolamento meno rigide e durevoli nel tempo così come esso si palesa non solo nei primogeniti come condizione di isolamento che è indipendente dall’ordine di filiazione.
Bisogna, tuttavia, procedere con estrema prudenza nell’affermare che i segnali presenti in giovani provenienti da altro tipo di società e culture siano effettivamente comparabili con il fenomeno descritto in Giappone; ancor più perché è stata rimarcata una mancanza di criteri clinici specifici nella descrizione del disturbo e gli studi condotti finora hanno spesso utilizzato campioni non rappresentativi di una certa popolazione, in termini statistici, e le ricerche realizzate a tal riguardo sono state poco accurate e rigorose da un punto di vista metodologico.
Ivana Ferraro
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 201, giugno 2024)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi