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Anno II, n° 9 - Maggio 2008
Paure e inquietudini spaziali nel cinema horror
di Alessandra Sirianni
Un interessante saggio sul “perturbante architettonico” indaga e svela
i perché delle scenografie del brivido, in un volume edito da Lindau
«Ecco la vecchia casa stagliarsi contro il cielo. La mano di Lila Crane spinge la porta d’ingresso aperta. [...] Entrando a piccoli passi si guarda attorno con cautela prima di avanzare. Poi chiude dietro di sé la porta, lentamente. [...] La cucina è in fondo all’atrio: la porta è spalancata e il vano appare scuro e silenzioso. La donna nota le scale che portano giù, nello scantinato, e per un istante il suo sguardo ne è come catturato. Ma alla fine passa poi a considerare la rampa di legno che porta di sopra, al secondo piano [...]».
È prendendo a prestito da Hitchcock tutta la suspense della scena di Psyco che Davide Manti ci introduce nel suo Ca(u)se perturbanti. Architetture horror dentro e fuori lo schermo. Fonti, figure, temi. (Lindau, pp. 432, € 29,00), un volume dedicato all’originale tema degli spazi, tanto reali quanto fittizi, capaci di incutere e generare sentimenti di inquietudine, ansia o vero e proprio panico.
L’unheimlich
Oggetto di studio del libro di Manti è una serie di analisi relative alle caratteristiche delle architetture dotate di capacità perturbanti: in modo particolare vengono presi in esame gli ambienti domestici che, nelle molte varianti “anomale” o “deviate”, hanno riscosso un enorme successo come location di film horror (basti pensare alla moltitudine di case “da paura” che hanno popolato il grande schermo).
L’interesse verso i luoghi abitati, così come la scelta del titolo, evidenzia il richiamo a uno dei principali riferimenti di questo lavoro, ovvero gli studi di Freud sull’unheimlich. Il termine tedesco (traducibile in italiano con l’espressione “perturbante”) contiene una serie di sfumature che nelle altre lingue possono essere rese solo in parte. Nasce, infatti, come negazione (un) della parola heimlich (attinente alla casa, familiare, domestico), la quale tuttavia possiede anche un altro significato, in parte opposto al primo, vale a dire ciò che è nascosto, intimo, che non si può vedere; la sua negazione (non sconosciuto) pertanto verrebbe a coincidere in parte con il primo significato della parola heimlich (familiare). L’ambiguità del termine, che potrebbe apparire come una sfumatura linguistica di poca importanza, è invece emblematica in relazione al particolare tipo di sensazione in oggetto, derivata proprio dall’improvvisa commistione fra noto e ignoto, fra intimo e alieno. «Freud giunse a considerare il perturbante come quell’emozione risultante dalla trasformazione impercettibile di ciò che è familiare in qualcosa di sinistro». L’unheimlich rappresenta un insieme di sensazioni che provengono dal riconoscere ciò che ci è noto sotto una veste distorta, aberrata e di conseguenza inquietante. Si tratta di un espediente particolarmente ricorrente nei film dell’orrore. Molto spesso l’incipit della narrazione ci presenta un luogo che facilmente riusciamo ad assumere come familiare, a “riconoscere”, ma che, solo in un secondo momento si manifesta nelle sue caratteristiche più sinistre; in alternativa la situazione angosciante può essere generata da un’improvvisa minaccia che incombe dall’esterno in un ambiente inizialmente assunto come sicuro e protettivo.
L’autore ci spiega inoltre, riprendendo ancora una volta gli insegnamenti di Freud, che le sensazioni in questione non sono completamente scisse da altre sensazioni più piacevoli e che esiste un legame molto forte fra il “perturbante” e il «ritorno del rimosso» ovvero la manifestazione di desideri inconsci. In qualche modo, quindi, ciò che ci appare “pauroso” non è da considerare come un elemento estraneo; al contrario si tratterebbe di qualcosa già presente nella nostra psiche ma che abbiamo messo a tacere. Proprio questo riaffiorare e riemergere dentro di noi costituirebbe la sensazione “perturbante”. La parola unheimlich si arricchisce, allora, di un altro significato, secondo una definizione di Freud: «Unheimlich è tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce».
Architetture e visioni dell’orrore
Nella seconda parte del libro, Dentro e fuori dallo schermo. Categorie della paura domestica, capitoli di carattere più generale sono intervallati da sette schede che prendono in analisi altrettanti film e che costituiscono, nel loro insieme, uno degli elementi più interessanti del libro.
I film, in gran parte celebri, vengono studiati soprattutto in termini di “perturbante architettonico”: sono definite le principali caratteristiche delle scenografie (naturali o artificiali) che li caratterizzano e indagate le cause e i dispositivi che ne fanno prototipi di spazi inquietanti.
Veniamo guidati, ad esempio, alla scoperta dell’Overlook Hotel di Shining, nel quale la simmetria e l’irregolarità esterna dell’edificio (così come quella del paesaggio montuoso che lo circonda) contrastano fortemente con la conformazione degli spazi interni, caratterizzati da una rigorosa simmetria e da una successione di percorsi lineari senza uscita (dell’hotel non vediamo quasi mai le stanze, ma sempre le interminabili fughe dei corridoi).
Il potere e la sopraffazione dell’edificio nei confronti degli abitanti (è come se l’hotel avesse una volontà propria che coincide, alla fine, con quella del protagonista) sono confermati dal rapporto anomalo fra abitanti e spazi, soprattutto in termini di proporzioni dimensionali: emblematiche in tal senso la scena del padre che scrive nel vestibolo immenso e la prima visita del bambino alla dispensa esageratamente stipata di merci di ogni tipo.
Anche due capolavori di Hitchcock, Psyco e Gli uccelli, sono analizzati con l’obiettivo di definire gli elementi principali del “perturbante” associato a spazi e architetture. È interessante il confronto fra i due motel di Psyco: nella scelta della location sembrerebbe verificarsi un episodio di «incombente topografico» attraverso il rapporto tra l’edificio più antico, in cima alla collina, dominante e opprimente, e il nuovo motel, orizzontale e anonimo, visivamente “schiacciato” dalla vecchia costruzione; questo rapporto architettonico mimerebbe quello, morboso, tra il protagonista e la vecchia madre, su cui si basa la trama del film.
Un capitolo a parte è dedicato alle vere e proprie fobie in qualche modo associate allo spazio come la claustrofobia, l’agorafobia, il senso di disorientamento o la paura dell’altezza, solo per citarne alcune, delle quali Manti non solo ci offre una
panoramica generale in termini cinematografici (ancora una volta è d’obbligo citare Hitchcock con Vertigo e Intrigo internazionale), ma ci svela tecniche e “trucchi” di regia.
Nel complesso un libro interessante che rivela alcuni “dietro le quinte” del cinema della paura e che pur non rendendoci immuni dagli effetti del “perturbante spaziale” ci aiuta a capirne i meccanismi e le cause. Ma in fondo, come l’autore ci spiega, il terrore cinematografico è un modo per venire a contatto con la paura stando “al sicuro” e con la certezza di poter interrompere la finzione in qualunque momento.
Alessandra Sirianni
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 9, maggio 2008)