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A. XVIII, n. 201, giugno 2024
Elogio delle preferenze
sulla scheda elettorale
di Alessandro Milito
Perché il voto di preferenza è più democratico
e dovrebbe essere ristabilito a ogni livello
Strano ma vero: alle elezioni europee è possibile scegliere i propri rappresentanti al Parlamento di Bruxelles e Strasburgo. L’elettore, oltre a barrare il simbolo della lista che preferisce, può persino scrivere fino a tre nominativi sulle linee tratteggiate della scheda elettorale. Una possibilità ormai da anni definitivamente esclusa per l’elezione dei rappresentanti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, ma che resiste ancora a livello locale e, appunto, a livello europeo.
Questo perché a regolare ancora oggi il sistema elettorale per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo è la legge 24 gennaio 1979, n. 18, la più vecchia normativa elettorale ancora in vigore in Italia. Una legge che ha resistito imperterrita allo scorrere del tempo, a mani pulite e ai più disparati esperimenti elettorali uniti tutti da un piacere perverso per i latinismi: Mattarellum, Porcellum, Italicum, Consultellum, Rosatellum.
C’era una volta la Repubblica delle preferenze
Una legge che mantiene intatto il fascino della Prima Repubblica delle tribune politiche, degli abiti grigio-democristiano e degli occhiali dalle montature spesse. Una legge elettorale proporzionale pura con voto di preferenza: una vera macchina del tempo in grado di far viaggiare l’elettore verso lidi sconosciuti ed epoche dimenticate.
La legge n. 18/1979 è ovviamente figlia del suo tempo, caratterizzato dalla presenza di partiti forti ed economicamente prosperi, vere e proprie macchine burocratiche e organizzative in grado di mobilitare milioni di iscritti e volontari. Partiti dall’architettura complessa, articolati in correnti strutturate e agguerrite. La selezione della classe dirigente di certo non seguiva sempre criteri meritocratici ma, di sicuro, un elemento fondamentale faceva da padrone: quante preferenze era in grado di ottenere il singolo.
«Quanti voti porto?». Questa era la domanda principale, l’obiettivo che ogni esponente politico di rilievo doveva porsi se intendeva veramente puntare a scalare le gerarchie del proprio partito. Il metodo proporzionale di assegnazione dei seggi, poi, permetteva a sua volta al partito stesso di contare sull’arena politica in base all’entità della sua rappresentatività.
La Repubblica di nominati e liste bloccate
Si tratta di concetti oggi rimpiazzati da un sistema basato sulla personalizzazione dei partiti e su liste bloccate preconfezionate dalle loro segreterie. Partiti che il più delle volte altro non sono che l’emanazione di un personaggio e che si esauriscono con esso. Liste il cui criterio di selezione predominante è la fedeltà al leader o al gruppo dirigente attualmente al comando del partito o movimento. Con la conseguenza finale che l’elettore si ritrova a dover scegliere se accettare in toto una lista già preimpostata, anche se al suo interno contiene qualche candidato poco gradito o se, al contrario, il candidato prediletto è in ultima posizione con possibilità di elezioni quasi nulle. Prendere o lasciare: ci ha già pensato il partito.
A nulla sono serviti gli esperimenti vari di “primarie” o “parlamentarie” ormai falliti e dismessi completamente, riesumati solo quando il gruppo dirigente al comando non riesce a imporre la sua linea e ricorre alla “base” per una resa dei conti.
Il risultato finale sono dei rappresentanti di fatto nominati e non eletti, la cui fedeltà va prima di tutto all’artefice della loro designazione. Lo stesso si può dire dei candidati ai collegi uninominali la cui selezione si basa sulle medesime logiche.
I difetti del voto di preferenza
Non bisogna cadere nella trappola della nostalgia facile. Il sistema delle preferenze presenta numerosi problemi, venuti a galla in maniera dirompente sul finire degli anni Ottanta e rigettati dall’elettorato con il referendum sulla preferenza unica del 1991: la prima vera picconata alla Repubblica dei partiti.
L’uso distorto delle preferenze, infatti, portava a cordate troppo spesso torbide: il politico chiedeva il voto per sé ma collegato alla preferenza per un altro e per un altro ancora con i quali aveva stretto un accordo. Questa trafila produceva di fatto una distorsione della scelta dell’elettore.
La critica principale, poi sempre riproposta contro le preferenze, sosteneva che quest’ultime favoriscono la corruzione, producendo una classe dirigente portatrice di micro-interessi e lobbies in contrasto con l’interesse generale. Il politico si trasformerebbe di fatto in un delegato dei suoi sostenitori spesso motivati da personalismi, localismi se non da fini illeciti o legati alla criminalità organizzata: la storia della Repubblica è piena di tristi esempi. Un altro argomento, di tipo comparatistico, punta alla mancanza del voto di preferenza nelle principali e più mature democrazia occidentali: da questo punto di vista l’Italia rappresentava un caso peculiare.
Una questione di scelte
Fermo restando che non esiste un sistema politico ed elettorale perfetto e che ognuno di essi presenta inevitabilmente dei pro e dei contro, si tratta di scegliere quali valori si intende presidiare e quali sacrificare. Le critiche agli effetti distorsivi sul voto di preferenza sono tutte meritevoli di attenzione e spesso toccano alcuni punti molto sensibili e pericolosi per la qualità della democrazia. Viene da chiedersi però se sia da preferire, a una classe dirigente potenzialmente guidata e/o ricattata da piccoli gruppi di interesse, un altro ceto politico espressione delle segreterie di partito.
Partiti che, nel frattempo, hanno perso molta della loro rappresentatività e della loro tenuta sul territorio, riducendosi il più delle volte a meri comitati elettorali o a camere stagne sensibili alle loro dinamiche interne. Non è di per sé sbagliato votare una lista bloccata predisposta da un partito se questo si incarica effettivamente di selezionare una classe dirigente frutto del rapporto con il territorio che dovrebbe rappresentare. È ormai risaputo che questo, anche per la scarsità di risorse di cui dispone la politica rispetto a un tempo, non avviene più se non in casi straordinari.
Le preferenze invece possono rappresentare una sfida per i gruppi dirigenti dei partiti e possono mettere in moto un meccanismo che collega la legittimazione politica all’effettivo risultato ottenuto alle urne. Senza contare il fatto che dalle preferenze possono nascere personalità che magari non otterrebbero risalto sulla base delle dinamiche interne ai partiti stessi: persino l’ultimo in lista, se ottiene voti, può imporsi come il “nuovo” anche se non immediatamente eletto.
Si parla tanto di elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, una riforma che potenzialmente potrebbe far deflagrare l’intera architettura costituzionale. In attesa di capire la fattibilità di questa impresa, forse è il caso di puntare a un obiettivo più piccolo ma più realizzabile e non meno importante: tornare a eleggere direttamente i propri rappresentanti in Parlamento.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 201, giugno 2024)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi