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A. XVIII, n. 200, maggio 2024
Sharenting:
motivi, dati e
conseguenze
di Ivana Ferraro
I problemi legati all’abitudine
di condividere sul Web
le foto dei propri figli
Il sostantivo sharenting è un termine urticante che rimanda a un fenomeno dannoso e per certi aspetti inconsapevole, ossia l’abitudine, ormai radicata e reiterata, dei genitori di condividere le foto dei propri figli, anche molto piccoli, sui social network, senza considerarne le ripercussioni dannose. Tra queste, ricordiamo il reato di violazione dei diritti dei minori, l’adescamento online, il cyberbullismo, la pedopornofilia e diversi disturbi psicologici.
L’Accademia della Crusca non ha ancora dedicato una scheda di approfondimento sul sito a questo termine (di conseguenza, rifiutandone l’uso, almeno al momento), nonostante alcune sue ultime significative decisioni molto più consone. Sharenting, però, è stato introdotto a partire dal 2022 nell’Enciclopedia della lingua inglese Oxford english dictionary come la fusione del verbo to share, condividere, e parenting, genitorialità.
Per ciò che attiene alla posizione dell’Accademia della Crusca in merito ai neologismi, il linguista Marco Biffi ha affermato quanto sia difficile definire in modo esatto un neologico, sottolineando pure come non si voglia incitare a un uso smodato, ma, al contrario, a un inserimento adeguato di questi termini nel sistema lingua [1].
Nascita del fenomeno
Il nome sharenting fa la sua prima apparizione nel 2021 ed è pubblicato su un articolo del Wall Street Journal mentre attualmente esso è ripreso molto spesso e ha avuto in tutto il globo una diffusione a macchia d’olio.
Con una netta superiorità delle mamme, che distaccano i papà per frequenza e quantità di foto pubblicate, uno studio europeo del 2021 indica che l’80% dei bambini ha una considerevole presenza online dall’età di due anni se non addirittura dalla nascita, prevalentemente su Facebook, non solo sulla bacheca della propria pagina personale, in teoria riservata agli “amici”, ma anche in gruppi aperti e pubblici: Instagram, Twitter, TikTok e tanti altri.
Il fenomeno dello sharenting è prevalentemente diffuso per i bambini dai 0 ai 3 anni, ma oltre il 64% dei genitori pubblica foto dei figli anche dopo il quarto anno di vita. Questo vuol dire che al raggiungimento dell’età per il consenso digitale – in Italia fissato ai 14 anni, ma su quasi tutti i social, l’età minima richiesta per iscriversi è di 13 anni, anche se il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (Gdpr) parla di 16 anni – un adolescente medio, quindi, avrà una presenza social pari a migliaia di scatti già presenti e divulgati in rete.
Per questo motivo si dovrebbe probabilmente parlare di over-sharenting, ovvero sia di eccessiva, massiccia e costante sovraesposizione online di bambine e bambini, non solo ma anche perché nella maggior parte dei casi questa esposizione avviene senza il loro consenso, perché troppo piccoli o non ancora così grandi da comprenderne le molteplici conseguenze, oppure perché il consenso non viene loro richiesto o, ancora, perché alcuni genitori ne ignorano la completa esistenza e le sottaciute coesistenze con forti e dannose implicazioni. Partendo da questo angolo prospettico, cerchiamo di delinearne le motivazioni del fenomeno.
Perché nasce l’esigenza di sovraesposizione di foto di bambine e bambini diffuse nel Web?
La divulgazione spropositata di tutti gli ambienti digitali, creati per scopi non sempre molto “nobili”, ha permesso a tutti gli utenti della rete di connettersi con un mondo parallelo in cui facilmente si perde il senso autentico e tangibile della realtà che li circonda.
Potrebbe essere una retorica e misera considerazione ridurre l’uso delle piattaforme sociali a mera rappresentazione di un Sé inverosimile o nel migliore dei casi di una personalità perfetta ed edulcorata che tende essenzialmente ad accogliere consensi da e versus un’altra entità di cui si sappia poco o vada di rimando in un immaginario falsato e/o autentico, ma, ahinoi, si verifica precisamente tutto ciò.
Per quanto si faccia lo sforzo di doverle regolamentare, molto poco, di fatto, si è riusciti a ottenere, anche perché il fenomeno dello sharenting ha avuto inizio attraverso chi con la Rete (vedi il caso Ferragni-Fedez) ne fa un uso vergognosamente spropositato per lerci guadagni milionari, accanto ai quali si “inzuppano bene il pane” altri loschi e famigerati affaristi di mala sorte.
Pertanto, per restare nella nostra argomentazione specifica, la motivazione del fenomeno nasce dal fatto che per molti genitori postare le foto dei propri figli è quasi un gesto molto “naturale”, perché essi considerano la vita sempre più “onlife”, non apportando alcuna distinzione netta e chiara tra le esperienze offline ed online.
L’occasione allettante di condividere con familiari, amici veri e amici virtuali dei momenti importanti, compresi quelli che attengono alle proprie figlie e ai propri figli, si verifica sempre più spesso e volentieri attraverso le tecnologie digitali, in alcuni casi quasi in maniera esclusiva, per esempio dei componenti della famiglia o di amici che risiedono lontani.
La sovrabbondante diffusione di informazioni non interessa solo i genitori, ma anche parenti e amici, rinforzando l’impatto della stessa e la perdita anche nel tempo di controllo sui contenuti, caratteristiche intrinseche delle piattaforme sociali: si tratta di tracce digitali, su cui i bambini non hanno controllo, ma che vanno a stratificarsi in rete diventando parte dell’identità digitale dei futuri ragazzi.
Una questione di riguardo, tutela, incolumità e sicurezza
Qual è, quindi, la pulsione che spinge molti genitori a pubblicare senza tregua le foto dei loro piccoli? Se per le star è solo un modo di rimanere sempre al centro dell’attenzione e mantenere alta la loro visibilità, per le persone “normali” la principale motivazione è la vanagloriosa e boriosa alterigia, seguita dalla sciatta consuetudine. Vedere che le foto della propria prole sono apprezzate, ricevono like e “cuoricini” vari e commenti positivi esalta molte persone, e le spinge ulteriormente a pubblicarne sempre di più.
Un meccanismo simile a quello che porta tante persone “comuni” – intese come persone che di mestiere non fanno l’influencer – a pubblicare selfie o altre immagini, nel tentativo di prendere più like possibili e sentirsi “grandiosi e miracolosamente unici”. Probabilmente non ci sarebbe nulla di male in tutto questo (ma è sempre opinabile) mentre coinvolgendo piccoli, bambini e giovanissimi ragazzi, la questione diventa molto più delicata. È una questione di riguardo e di tutela della propria prole, prima di tutto, ma anche di incolumità e di sicurezza: condividere senza freno foto di minorenni non è scevro da rischi.
Tra quest’ultimi, è bene ricordare: la summenzionata violazione della privacy, così come sancito dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nonché il più recente Regolamento generale sulla protezione dei dati; l’assente tutela dell’immagine dei bambini e con essa i contenuti che veicola e la possibilità di essere a disposizione di chiunque; ripercussioni psicologiche sui soggetti che potrebbero essere oggetti di vessazioni e violenze subdole e penose – i cosiddetti casi di cyberbullismo – verso cui i protagonisti non sono stati implicati con atti di effettivi e palesi consensi; diffusione di contenuti utili ad alimentare materiali pedopornografici; messe in atto di situazioni di adescamento, cioè la divulgazioni degli interessi, degli hobby, degli studi dei propri figli, danno la possibilità di reperire materiali per l’avvicinamento e l’adescamento online.
Come tutelare i propri figli dallo sharenting?
Va da sé che la responsabilità dei genitori nell’accudimento, nel percorso di crescita educativa e nello sviluppo sano e organico di personalità ben strutturate, abbisogna costantemente di azioni di revisioni e aggiustamenti. Si sa che “genitori non si nasce” ed è proprio in funzione di questa affermazione che gli obblighi intrinseci a tale funzione, debbano costantemente rapportarsi e confrontarsi con altre istituzioni. Una tra tutte, la scuola. A tal proposito si aprirebbe un dibattito molto lungo e penoso, considerata la situazione socio-politico-economico in cui tale istituzione versa orma da troppo lungo tempo.
Ciò nonostante, le indicazioni rivolte alla genitorialità perché ci possa essere una emarginazione del fenomeno dello sharenting, potrebbero essere così individuate:
• Essere a conoscenza delle politiche sulla privacy degli ambienti digitali in cui si condividono immagini e contenuti; verificare e aggiornare spesso le impostazioni di privacy dei propri profili social e scegliere con chi condividere le immagini;
• Proteggere e tutelare l’immagine online delle/i proprie/i figlie/i, operando una netta distinzione tra immagini private e immagini rese pubbliche, cercando per esempio di condividere online foto che non ritraggano direttamente il volto o che lo oscurino ed evitare di pubblicare online le immagini intime;
• Non mostrare costantemente le passioni, gli hobby, la scuola, e altre abitudini quotidiane e informazioni personali delle/i proprie/i figlie/i;
• Discuterne e rapportarsi costantemente con genitori, amici e parenti al fine di concordare insieme che uso si possa fare delle immagini che ritraggono bambine e bambini, sia quando vengono condivise, sia quando vengono realizzate in momenti di convivialità;
• Se le foto ritraggono preadolescenti chiedere sempre il consenso alle/i proprie/i figlie/i, mettendo in piedi occasioni di comunicazione, relazione ed educazione digitale.
Ed è proprio di questi ultimi giorni la proposta di legge che tenderebbe ad arginare il problema. Approdata alla Camera dei deputati, essa va sotto il nome di “Disposizioni in materia di diritto all’immagine dei minorenni”, ed è stata presentata da un gruppo parlamentare di sinistra. Il testo riguarda i pericoli impliciti allo sharenting che vanno dal rischio di sfruttamento commerciale alla pedopornografia. I tre articoli di cui si compone la Pdl mirano a tutelare maggiormente la privacy dei piccoli: non vietano la loro esposizione mediatica ma la limitano, introducendo per esempio l’obbligo di informare Agcom con una dichiarazione che dev’essere sottoscritta da entrambi i genitori.
Nel caso di profitti conseguiti dall’esposizione dei bimbi, si suggerisce di vincolare i genitori a depositare gli eventuali ricavi in un conto bancario intestato al minore, a cui solo lui potrà accedere una volta compiuta la maggiore età. Infine, si richiede che al raggiungimento del quattordicesimo anno il minore possa ottenere l’oblio digitale, ovvero sia, che lo stesso abbia il diritto di rimozione di tutti i contenuti digitali a lui afferenti.
Per il momento si è in fase propositiva, con i moltissimi difetti in essa contenuta, ma da qui a diventare legge “di acqua sotto i ponti” ne passerà tanta.
Ivana Ferraro
[1] Cfr. https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/che-cosa-intendiamo-per-neologismo/7287 in cui si legge: «È sempre difficile definire esattamente un neologismo, distinguerlo da quelle realizzazioni effimere legate a un particolare momento contingente o frutto di una creazione estemporanea (o magari anche giustificata dal particolare periodo storico o culturale) basata sulle regole della morfologia derivazionale della nostra lingua; quel processo che ci permette di coniare “al volo” parole trasparenti attraverso prefissi e suffissi, senza per questo renderne necessaria una stabilizzazione nel repertorio lessicale italiano con la registrazione sul vocabolario. Lo scopo del nostro servizio di consulenza è quello di spiegare parole nuove, ma anche parole che trovano solo in tempi recenti un maggiore impiego nella lingua comune, magari provenendo da una lingua specialistica o settoriale (forse addirittura gergale), e di spiegarle in modo ragionato e articolato, per fornire un porto sicuro a chi si trovi immerso nella tempesta delle novità lessicali a cui il web e i mass media ci sottopongono continuamente.
Per questo abbiamo scelto la strada di una trattazione ragionata ed estesa nella forma di articoli che trovano posto in prima battuta nella sezione dedicata alle parole nuove nella nostra rivista «Italiano digitale» a partire dal numero 4 del 2018.
Gli articoli, relativi a parole che – dopo segnalazioni o ricerche sulle banche dati a cura della redazione, si sono conquistate lo statuto di potenziale neologismo della nostra lingua – sono pubblicati unicamente nella rivista; mentre sul sito web trova successivamente posto, a cadenza regolare, una scheda lessicografica sintetica, con una struttura articolata in specifici campi accuratamente definiti, a cui l’articolo rimane comunque di sfondo, raggiungibile con un collegamento. In questo modo chi incontra le parole attraverso le schede sintetiche, può anche approfondire il tema immergendosi nel piacere di una lettura distesa e argomentata.
Fra le parole scelte non deve stupire, né in negativo né in positivo, la presenza di prestiti non adattati dall’inglese: la trattazione degli anglismi, infatti, non ha il valore di un battesimo o di una certificazione. In attesa di un’eventuale stabilizzazione di queste parole nella forma in cui le presentiamo o in quella di possibili traducenti (a cui spesso accennano gli stessi autori), gli articoli e le schede del sito hanno lo scopo di lanciare una ciambella di salvataggio a chi voglia conoscere, in modo chiaro e con una trattazione scientifica, il significato di parole ormai largamente circolanti, la loro origine, la loro forza e tutto ciò che su di esse c’è da sapere».
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 200, maggio 2024)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi