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A. XVII, n.193, ottobre 2023
La vita da emigrato
tra il dover restare
e il voler ritornare
di Bianca De Peppo Cocco
Rubbettino divulga Saverio Strati:
le vicende di un italiano espatriato
In un periodo storico in cui le immigrazioni di massa rappresentano un fenomeno così discusso e dibattuto, le vecchie storie di emigrazione degli italiani ci ricordano come lo spostamento in terra straniera in cerca di fortuna sia sempre frutto di scelte obbligate e urgenti che vanno oltre il volere e le possibilità dei singoli, spesso in balìa di condizioni esterne ingovernabili e soffocanti.
In questo romanzo, edito nel 1972 da Mondadori e poi, di nuovo, da Rubettino nel 2022, lo scrittore italiano Saverio Strati, che appoggia la narrazione alla sua personale esperienza, ripercorrendo i luoghi della sua vita, ci racconta l’emigrazione da dentro attraverso il punto di vista di mastro Turi, un muratore calabrese espatriato in Svizzera, che dopo essersi guadagnato la sopravvivenza e la dignità in paese straniero ritorna per pochi giorni nel suo paese natale, riavvolgendo continuamente il nastro della sua esistenza fra sacrifici, lotte, sofferenza e rabbia. Con schiettezza, Noi lazzaroni (Rubbettino, pp. 236, € 16,00) mette in luce le ombre della storia novecentesca italiana, dando voce a un Meridione abbandonato a se stesso e spesso dimenticato.
Gli oppressi e gli oppressori
Nel ripercorrere i momenti salienti della giovinezza, mastro Turi fa avanti e indietro fra i ricordi sovrapponendo fra loro le immagini della sua vita in un continuum denso e rapido, attraverso una lingua «priva di fronzoli, concreta come la storia che narra, mai stonata, esibita, consolatoria», come le definisce Carmine Abate nella Prefazione al libro.
Il paesino di campagna dove il protagonista, allora solo Salvatore, nasce e cresce è sotto il controllo di un’antica famiglia di baroni in decadenza e i paesani, soggiogati e abbandonati alla miseria e alla fame, sono costretti a convivere con le proprie sofferenze, senza ideali e senza speranze. Pagine di intenso e coinvolgente racconto delle ore passate al fianco del padre severo a imparare “il mestiere”, unica fonte di speranza e liberazione a una schiavitù che è mentale oltre che reale, si sovrappongono alla narrazione delle tensioni e dei litigi con la madre dopo la morte del padre, alla disperazione di fronte alle responsabilità derivate dall’essere il primogenito.
Salvatore deve pregare per ottenere un lavoro duro e sfiancante pagato una miseria e patire le pene dell’inferno al soldo di imprenditori senza scrupoli e clemenza. L’unica possibilità è fuggire, andarsene da un ambiente soffocante e senza prospettive. Nonostante il viaggio verso la Svizzera sia traumatico e disumano, infatti, la speranza sembra finalmente riaccendersi e gli orizzonti sembrano a poco a poco ampliarsi.
Le false speranze della lotta di classe
Le vicissitudini del protagonista sono costantemente accompagnate dall’amara consapevolezza della propria solitudine e dell'indifferenza di chi avrebbe il potere di cambiare le cose. Durante gli anni dell’adolescenza, vissuti a cavallo della Seconda guerra mondiale, ad accendere gli entusiasmi dei giovani pieni d’animo, come il nostro protagonista, è il sistema valoriale fascista nella sua feticizzazione della giovinezza e del lavoro. Esso, però, affievolisce rapidamente e, al suo posto, prendono il sopravvento l’insoddisfazione della propria condizione e l’odio per una guerra sempre più disastrosa e incontrollata e per le forze politiche ormai in declino.
Accompagnato dallo spirito sovversivo del padre, Salvatore sviluppa la sua coscienza di classe e frequenta gli ambienti politicizzati dagli ideali socialisti e comunisti. Il desiderio di ribalta del proletariato oppresso infuoca il giovane protagonista che, pronto, aspetta solo il segnale di chi, dall’alto, ha promesso rivoluzione e libertà. Ma la verità è che il segnale non arriva mai e una domanda insiste sulle labbra di Salvatore: «Ma perché non ci avevano permesso di scendere in piazza e di rompere tutto, di mettere fuoco al mondo, per poi essere liberi di ricostruirlo a modo nostro?». La distanza con coloro che pretendono di fare le veci del popolo in veste politica continua ad aumentare e lo spirito rivoluzionario della classe contadina scema in disillusione e rabbia.
L’emigrazione contraddittoria dei “lazzaroni”
Mastro Turi, ritrovatosi in una “civilizzatissima” Svizzera, non abbandona la sua lotta politica, ma, anzi, ricerca ambienti fertili e stimolanti attraverso cui portare avanti i suoi ideali. Le nuove frequentazioni lo portano ad acculturarsi e a migliorare le proprie condizioni, ma la vita non è facile per chi, come lui, lascia la propria terra e, da uomo del Sud, risale la Penisola alla ricerca di nuove opportunità. I meridionali al Nord soffrono dei pregiudizi degli altri e li accompagna l’etichetta di sfaccendati e lazzaroni.
L’istinto è dunque, anche per mastro Turi, quello di rinchiudersi in piccole comunità di italiani espatriati che, disabituati alla freddezza e al distacco nordico, ritrovano nelle loro compagnie di connazionali un calore ormai perduto. La contraddizione è, dunque, massima fra il ricordo nostalgico di una patria che, ostile, ha rigettato i suoi stessi cittadini, ponendo loro solo l’alternativa fra una vita di stenti e l’esilio, e un nuovo paese dalle mille risorse e opportunità, ma viziato da un imprescindibile razzismo latente che tende a ghettizzare i nuovi arrivati.
Strati immerge il racconto in questo apparentemente surreale (ma purtroppo assai reale) paradosso e ci regala un crudo spaccato di un’epoca che ha ancora molto da insegnare alla nostra.
Bianca De Peppo Cocco
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVII, n. 193, ottobre 2023)
Ilaria Iacopino, Ilenia Marrapodi