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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Elezioni: vince il Centrosinistra
ma governa il Centrodestra
di Alessandro Milito
Fd’I realizza le alleanze. Il Pd no
e butta un milione e mezzo di voti
La coalizione di Giorgia Meloni ha conquistato molti più seggi di quelli ottenuti dal Centrosinistra a trazione Pd che, dopo aver a lungo sostenuto il “campo largo”, si è accontentato di un mero “campo stretto”.
Sia ben chiaro: non contestiamo la legittimità del governo Meloni. Diciamo solo che il risultato del Centrodestra si è tramutato in una vittoria solo perché Enrico Letta, Giuseppe Conte, Carlo Calenda e Matteo Renzi non sono riusciti a trovare un minimo comune denominatore, un compromesso credibile, competitivo e vincente. In definitiva, non sono riusciti a fare politica o forse non hanno proprio voluto.
Conte e Calenda (e, seppur più defilato, anche Renzi), è vero, ci hanno messo del loro, interessati più al loro narcisismo di facciata che alla sostanza. Ma l’onere di cucire un’alleanza (anche solo tecnico-elettorale) era principalmente del Pd e non dei partitini.
Andiamo ai numeri veri e crudi: vedremo che il Centrodestra ha avuto un milione e mezzo di voti in meno rispetto all’ipotetico Centrosinistra “largo”.
Elezione Camera dei deputati:
Coalizione Centrodestra: 12.300.244 voti, 43,79%
Coalizione Centrosinistra: 7.337.975 26,13%
Movimento 5 stelle: 4.333.972, 15,43%
Azione-Italia viva: 2.186.747, 7,79%
Totale somma Centrosinistra, M5s, Azione-Italia viva: 13.858.694 voti, 49,35%.
Considerando anche i voti della sinistra radicale (Unione popolare e diversi altri) si supera abbondantemente il 50%.
Elezione Senato della Repubblica:
Coalizione Centrodestra: 12.129.547 voti, 44,02%
Coalizione Centrosinistra: 7.161.688 voti, 25,99%
Movimento 5 stelle: 4.285.894 voti, 15,55%
Azione-Italia viva: 2.131.310 voti, 7,73%
Totale somma Centrosinistra, M5s, Azione-Italia viva: 13.578.892 voti, 49,27%
Anche in questo caso, considerando anche i voti della sinistra radicale (Unione popolare e diversi altri) si supera abbondantemente il 50%.
Da ciò si evince chiaramente che l’Italia non ha svoltato verso la Destra, ma solo che il Centrosinistra è andato frammentato facendo harakiri. Che il Centrodestra ha messo la sordina alle sue (notevoli) divisioni interne e che il Centrosinistra le ha evidenziate.
Il Pd avrebbe potuto andare incontro a qualche istanza mediatica di Giuseppe Conte e Carlo Calenda, per realizzare un’alleanza elettorale (e non necessariamente politica).
Alla Sinistra radicale (l’Unione popolare di De Magistis, Rifondazione comunista e Potere al popolo, per esempio) avrebbe poi potuto offrire un “diritto di tribuna” a una decina di loro autorevoli esponenti in cambio di una relativa rinuncia a presentare le loro liste, poco utili per il confronto finale con la Destra. E invece no. Nei collegi uninominali sono così scesi in lizza un candidato unitario del Centrodestra e un candidato del Pd, uno del M5s, uno del Centro di Calenda e Renzi e uno delle mille listarelle. Tenendo presente che avrebbe vinto chi avesse preso più voti, chi pensate che avrebbe potuto vincere?
Approfondiamo la problematica della vittoria trasformata in disfatta
L’analisi della sconfitta è un rito irrinunciabile per ogni elettore di Centrosinistra che si rispetti. Soprattutto gli elettori del Partito democratico hanno imparato a rispettare questo appuntamento, spesso preparandosi in largo anticipo ben prima di recarsi alle urne. Il risultato del 25 settembre, con il principale partito del Centrosinistra italiano sotto la soglia psicologica del 20% e una coalizione vincitrice soltanto in una manciata di collegi uninominali – e perdente in alcuni un tempo considerati “blindati” – ha aperto un ampio dibattito difficilmente distinguibile da una seduta psicanalitica di gruppo. Un richiamo a cui è impossibile sottrarsi, con Maloox e Prozac in mano.
Una campagna elettorale sbagliata
E dunque, perché il Centrosinistra ha perso, perché il Pd ha ottenuto un risultato così deludente? Sono due domande a cui si può provare a dare qualche risposta ma a una condizione: ricordarsi che parlare con in tasca “il senno di poi” è un’operazione inevitabilmente sterile, troppo comoda. Ogni analisi postvoto deve necessariamente sobbarcarsi una buona dose di umiltà e ragionevolezza, altrimenti si tratta di un valzer che non vale nemmeno la pena cominciare.
Con questa consapevolezza, si può indicare almeno una delle mancanze più grandi del Partito democratico nell’ultima campagna elettorale: l’assenza di un unico e chiaro messaggio da trasmettere agli elettori.
Ricapitolando: tra le cause della caduta del governo Draghi rientrava la necessità del Movimento 5 stelle, pena il suo definitivo prosciugamento, di differenziarsi dalle politiche di quell’esecutivo, principalmente ostile – presidente del Consiglio in primis – verso alcuni dei fiori all’occhiello pentastellati: il reddito di cittadinanza e il bonus 110%. Il Movimento registrava da mesi una perdita di consenso, schiacciato dal Pd da cui faticava a differenziarsi: il richiamo all’opposizione, al movimentismo delle origini e la speranza di risalire nei sondaggi hanno dato il via alla sfiducia di fatto al governo di unità nazionale, immediatamente cavalcata dal Centrodestra in odore di vittoria. Il Partito democratico aveva subito messo in guardia il M5s: una caduta del governo avrebbe coinciso con la fine dell’alleanza giallorossa.
Si deve partire da qui per capire la logica della sconfitta: questo avvertimento, politicamente opinabile ma comunque comprensibile e logico, avrebbe dovuto portare a una conseguenza: il Pd rompe con chi fa cadere Draghi e si presenta alle elezioni con chi ha sempre sostenuto e fatto propria la sua tanto citata agenda. Da qui sarebbe dovuta nascere un’alleanza in grado di presentarsi agli elettori con un messaggio chiaro e un programma omogeneo.
L’intera campagna elettorale, invece, è stata impostata quasi esclusivamente sull’allarme democratico rappresentato dall’avanzata delle destre. Una chiamata alle armi in difesa dei valori repubblicani contro il sovranismo antieuropeista e il trittico dio, patria e famiglia. Se, però, di vera emergenza democratica si trattava, allora come spiegare la rottura con l’altro principale partito, il Movimento 5 stelle, quella stessa forza con la quale si condivideva il governo da ben prima dell’esperimento Draghi? Se la Repubblica è minacciata allora l’appello va rivolto a tutti, ma proprio tutti quelli in grado di opporsi alla destra agguerrita; e pazienza se a quest’appello non avrebbero risposto tutti: almeno nessuno avrebbe potuto rimproverare il Pd di non averci provato. E invece ecco il risultato, inevitabilmente contraddittorio e perdente: non solo il Pd non è stato in grado di creare un vero “campo largo” contro la destra ma non è nemmeno riuscito a impostare una coalizione omogenea e credibile.
La contraddizione chiave: no a M5s perché hanno votato una volta contro Draghi e sì a Sinistra italiana e Verdi che hanno sempre votato contro
Il tentativo di alleanza con Azione è naufragato per il delirio narcisistico del suo leader, Carlo Calenda, ma anche per una contraddizione evidente: l’alleanza con Verdi e Sinistra italiana, con Nicola Fratoianni che aveva sempre votato contro la fiducia al governo Draghi. Quindi: nessuna alleanza con il M5s perché ha fatto cadere Draghi ma alleanza tecnica con chi gli ha sempre votato contro. In un solo colpo sono risultate poco credibili sia la campagna basata sui contenuti (che ha escluso a priori i 5 stelle ma ha accolto Sinistra e Verdi, senza Calenda) sia quella sull’allarme democratico (priva del M5s, e cioè l’unico partito numericamente consistente).
Divisioni e sconfitte annunciate troppo presto
Lo dicevamo in apertura: con un Centrosinistra così spezzettato, la logica maggioritaria della legge elettorale ha fatto il resto; la destra ha vinto perché di fatto ripropone dal 1994 la stessa identica coalizione: Berlusconi, un’ala legista e un’ala postfascista.
La campagna elettorale è di fatto finita il giorno in cui Carlo Calenda ha annunciato in diretta su Rai tre, davanti a Lucia Annunziata, la rottura del patto siglato appena qualche giorno prima con il Pd. Ed Enrico Letta non ha fatto altro che confermarlo, con fin troppa evidenza. L’ordine di scuderia si è subito convertito in un deprimente «impediamo che almeno non prendano i due terzi delle Camere e non possano modificare in autonomia la Costituzione». Un allarme democratico talmente fiacco che ha rotto l’unico argine rimasto al Pd: il richiamo al voto utile. Tantissimi elettori di Centrosinistra hanno capito che i giochi erano già chiusi: e allora perché andare a votare? Oppure, perché votare Pd turandosi per l’ennesima volta un naso ormai torturato a sufficienza? Meglio scegliere qualche altra sigla, magari più piccola, ma più vicina al proprio sentimento.
Annunciare con diverse settimane di anticipo di avere già perso, riducendo la campagna elettorale a un tentativo di limitare i danni, è stato il colpo di grazia a un progetto che già faticava a reggersi in piedi. Ancora una volta ci si è limitati ad annunciare i barbari alle porte, lasciando la scena esclusivamente a Giorgia Meloni: di fatto il Centrosinistra ha parlato solo di lei, confermando la sua scalata da favorita.
I voti assoluti confermano che il Centrodestra ha conseguito un risultato solo di poco superiore a quello delle ultime elezioni (12.300.244 voti ottenuti alla Camera contro i 12.152.345 del 2018) ma ha saputo mobilitare i propri elettori, a scapito di una sinistra divisa, tatticamente infantile e ossessionata dall’avversario. Una sinistra che non è riuscita a convincere i propri simpatizzanti a infliggersi l’ennesimo sacrificio.
Responsabilità politica, questa sconosciuta
Ferrara dal 1946 al 2019 ha avuto solo amministrazioni di sinistra: ininterrottamente governata dal Pci, poi dal Pds, dai Ds e infine dal Pd. Oggi la città è governata da un sindaco leghista e il Centrodestra vince in tutte le elezioni nel ferrarese: amministrative, europee, regionali e politiche. Quella che un tempo era una solida roccaforte rossa oggi è un territorio saldamente governato dalla destra. Dario Franceschini, ferrarese, venne candidato al collegio uninominale della sua città alle elezioni del 2018: perse, ma entrò in Parlamento grazie a un’altra candidatura in un collegio plurinominale “sicuro”. Franceschini è ancora oggi una figura di primo piano del Pd, elemento essenziale di quella complicata alchimia di correnti che sta alla base del partito. Tutto questo nonostante la sua città, il suo territorio, quello su cui ha costruito la sua fortuna politica, siano ormai un collegio sicuro per la destra. Il fatto che Franceschini non solo non abbia risposto politicamente di questo smacco ma che il problema non sia stato nemmeno posto in seno al partito, la dice lunga sulla selezione della sua classe dirigente e la sua scalabilità.
Dopotutto, forse il Pd è riuscito a trasmettere un chiaro messaggio in questa campagna elettorale: le logiche alla base delle candidature sono autonome e scollegate dai risultati ottenuti in passato. E se nessuno – a parte i segretari – risponde dei propri fallimenti o, addirittura, finge che questi non siano mai esistiti, prima o poi si è destinati a sbattere con la dura realtà delle urne.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 182, novembre 2022)