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A. XVI, n. 179, agosto 2022
L’emigrazione
dall’Africa:
un dramma
di Giulia Bassanello
Sopravvissuto ai barconi,
Soumaila Diawara descrive
solidarietà e discriminazioni
Perché l’esigenza di raccontare? E la necessità di denunciare? Come si può dare la giusta voce al bisogno irreprimibile di tirare fuori da sé la propria storia, ciò che si è provato direttamente sulla pelle? Non si tratta di semplice retorica o desiderio di farsi compiangere, ma di una necessaria e autentica voglia di narrare per denunciare un’esperienza di vita atroce e, allo stesso tempo, purtroppo, reale e comune a tanti. Le parole di Soumaila Diawara hanno esattamente tale impellente bisogno: quello di denunciare, di farsi ascoltare e di rendersi testimoni di ciò che gli occhi di Soumaila hanno visto e vissuto. Stiamo parlando della storia in prima persona di un profugo e rifugiato politico, in uno dei tanti viaggi degli orrori dal Mali fino all’Italia.
La scrittura di Soumaila Diawara siamo stati soliti conoscerla nelle stesse tematiche, ma in veste di poesia, con le sue due precedenti raccolte poetiche Sogni di un uomo e La nostra civiltà. Questa volta però il suo tono cambia, e con Le cicatrici del porto sicuro. “Il diario di un sopravvissuto” (autopubblicato sulla piattaforma Youcanprint, pp. 138, € 21,00) diventa più tangibile e amaramente concreto.
La storia di una fuga
Classe 1988, Diawara è un attivista e rifugiato politico in Italia, laureato in Scienze giuridiche e specializzato in Diritto privato internazionale. Nato e cresciuto nel Mali, per salvare la propria incolumità è stato costretto a estirpare repentinamente le proprie radici e fuggire il più lontano possibile dalla sua terra di origine, abbandonando ogni certezza a soli ventiquattro anni. Giunto al suo terzo libro, Le cicatrici del porto sicuro, pubblicato dopo cinque anni dall’inizio della stesura, racconta proprio di questa esperienza: la sua diretta testimonianza di un viaggio attraverso l’inferno.
Mali, Burkina Faso, Algeria, Libia… e infine l’arrivo in Italia. Il testo riporta gli eventi della sua fuga attraverso un racconto intimo e senza fronzoli, accompagnato da un eloquente reportage fotografico raccolto con la fotocamera di un cellulare che Diawara portava nascosto dentro le scarpe.
Le tappe della sua epopea gli hanno inflitto sulla pelle e nei ricordi i segni di realtà vissute che non dimenticherà mai, ma il pensiero, la compassione e la pietà sono esattamente il contrario di ciò che Diawara vuole suscitare nel lettore. In lui vi è un intento totalmente differente.
Nel concreto, l’origine dell’urgente necessità dell’autore, di raccontare ciò che ha vissuto, parte dal desiderio di azione, di movimento e di unione contro quei mali storici dall’entità invisibile. Tra questi, troviamo in particolar modo il colonialismo e il capitalismo, i principali nemici che Diawara si augura di sconfiggere. Ma purtroppo la sua missione non è facile, queste due situazioni della Storia sono ancora troppo forti e ben salde all’interno della stessa struttura umana da cui tolgono solo, facendo finta di dare. Tant’è che risulta paradossale pensare al fatto che è proprio dall’Occidente, il primo artefice di questi mali, che provengono le maggiori ipocrisie e le più grandi finte solidarietà nei confronti delle proprie vittime.
Diawara vuole fare delle sue parole e delle sue testimonianze un mezzo con il quale sensibilizzare e incitare il lettore ad agire, a fare qualcosa, anche nel suo piccolo, per fermare tragedie che accadono solo a poche migliaia di chilometri da lui e che, per di più, inconsapevolmente finanzia.
Stiamo parlando, soprattutto, dell’infernale realtà dei lager libici. Luoghi disumani per la detenzione dei migranti, finanziati dallo Stato italiano con fior di proventi tirati fuori dalle tasche di noi (forse ignari) cittadini, assicurando in questo modo, alle persone che inseguono il semplice miraggio di poter conquistare i famosi diritti umani inalienabili, vitto e alloggio all’inferno.
La voce di Diawara in questo testo è dura, politicamente forte e senza censure, perché il suo intento è proprio quello di raccontare delle realtà incensurabili che necessitano di essere conosciute per quello che realmente sono: atroci atti contro l’umanità.
Una denuncia contro il male, in un giorno di male
Giovedì 24 febbraio 2022, Diawara ha tenuto la presentazione del suo libro Le cicatrici del porto sicuro presso lo storico centro di aggregazione sociale “Casa del Popolo” di Torpignattara, uno dei quartieri romani più famelici di vita e di diversità.
Dinnanzi a un pubblico particolarmente qualificato, dopo il saluto introduttivo di Giancarlo Iari, Segretario del locale circolo di Rifondazione comunista, il libro è stato presentato da Michela Becchis, Responsabile Cultura della Federazione romana di Rc, e Stefano Galieni, Responsabile Immigrazione della stessa struttura di Rc.
Ne è seguito un fitto dibattito che ha toccato i temi di come e del perché così tanti giovani africani sono costretti a emigrare, su quali canali avviene questo drammatico esodo e sul ruolo ambiguo svolto anche dal centrosinistra che dichiara alcune posizioni e poi ne attua altre. In questo senso è stato richiamato anche il comportamento di Marco Minniti, sia nella sua esperienza di governo, sia nel suo recente spostamento a capo dell’industria militare rappresentata dalla “Leonardo”. Un travaso incestuoso, visto che si è trovato fra i maggiori collaboratori l’ex esponente (ma, di fatto, molto poco “ex”) di Fratelli d’Italia Guido Crosetto nella veste di presidente delle aziende di produzione di armi.
Un certo assurdo caso, se colleghiamo i fili del tema dell’opera con questa tragica data che ricorderemo e che ci siamo appuntati amaramente nei nostri diari. L’invasione russa, arrivata come un fulmine in un cielo purtroppo già nuvoloso, non è che l’ennesima esemplificazione dell’ipocrisia e dell’insolenza di un sistema senza colore che deve morire, lo stesso sistema contro il quale Diawara chiede di agire insieme e nell’immediato.
di Giulia Bassanello
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 174, marzo 2022)