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Storia (a cura di La Redazione) . A. XVI, n.177, giugno 2022

Zoom immagine Molti volti
della destra

di Giacomo Gaiotti
Una raccolta sulla
Prima repubblica.
Per Rubbettino


Lo scopo che si pone il volume Le destre nell'Italia del secondo dopoguerra. Dal qualunquismo ad Alleanza nazionale (Rubbettino, pp. 288, € 19,00) composto da una raccolta di saggi di Andrea Ungari e Giuseppe Parlato, è quello di analizzare lo sviluppo delle destre in Italia in una periodizzazione compresa tra la fine del secondo dopoguerra fino alla metà degli anni Novanta, più precisamente all’indomani del congresso di Fiuggi del 1995: in poche parole, l’intero arco della così detta Prima repubblica. Di quali destre? Soprattutto, perché indicare al plurale uno schieramento politico appellato solitamente al singolare?
In primo luogo, si parla di destre e non di destra, dal momento che il fascismo aveva funto da contenitore di realtà politiche che all’indomani della guerra diedero vita a una realtà variegata e prolifera nell’area politica di appartenenza. In secondo luogo, all’interno di queste, possiamo distinguere quelle che cercarono e riuscirono a gravitare nella zona di governo (prime su tutte Partito liberale italiano e la destra della Democrazia cristiana) e quelle che invece rimasero ai margini del sistema politico della Prima repubblica (Fronte dell’uomo qualunque, Partito monarchico e Movimento sociale italiano). I saggi raccolti nel volume si occupano esclusivamente di queste ultime realtà.

Una realtà marginale: l’uomo qualunque
Al termine del conflitto fu l’esperienza del Fronte dell’uomo qualunque a costituire la prima realtà marginale. Il qualunquismo viene collocato, nel ragionamento di Parlato, nello spettro delle destre dal momento che viene considerato come frutto del fascismo, un risultato di una sottocultura reazionaria e conservatrice che sarà il primo terreno fertile sul quale si svilupperà il neofascismo nell’immediato dopoguerra. A facilitare questa interpretazione interviene l’atteggiamento del fondatore del movimento, Guglielmo Giannini, controverso drammaturgo e giornalista, il quale esasperava una certa insofferenza nei confronti dei partiti antifascisti dalla quale discendeva una complicata visione politica basata principalmente sull’idea di uno stato burocratico – non politico – e sul ruolo della folla come cuore della società. Fu facile per gli avversari politici appellare il movimento come neofascista. Dal punto di vista culturale, in realtà, le distanze dal fascismo erano evidenti, come del resto dall’idea di totalitarismo; tuttavia, con la nascita del governo centrista democristiano il Fronte non si istituzionalizzò e si sciolse come neve al sole.
Monarchia nonostante tutto
La realtà monarchica, per quanto in antitesi rispetto al futuro assetto dello stato repubblicano e democratico, costituì durante i primi anni di vita dello stesso una dimensione ben più folta di quanto si possa immaginare. In effetti, secondo quanto riportato da Ungari, in questi primi anni si poteva immaginare un contributo importante d’area nella raccolta di voti dei cristiani anticomunisti (grazie alla nascita del Partito nazionale cristiano) che vennero però assorbiti dalla “balena bianca” democristiana, più trasversale e capace di convogliare nel proprio elettorato queste realtà. Ciò, tuttavia, non impedì la nascita nel 1946 del Partito nazionale monarchico, a opera di Alfredo Covelli. Ciò che spinse alla marginalità del sistema questa realtà fu la scelta di molti monarchici cattolici di vedere nella Dc una reale difesa contro il comunismo alle elezioni del 1948. Ciò spinse il Pnm a cercare accordi con l’altro grande escluso, il Msi, e dal 1950 al 1952 la collaborazione portò a un’intesa per le elezioni amministrative in un unico blocco nazionale grazie anche al lavoro dell’armatore Achille Lauro. La rottura con il Msi e le fratture interne acuite dalla strategia della Dc del recupero dei voti moderati portò all’esclusione dall’area governativa dei monarchici.

Il grande escluso
Per quanto riguarda il grande escluso dal sistema, ovvero il Msi, l’analisi di Ungari e Parlato mette in evidenza le vicende che portarono il partito ai margini del sistema. La storia del Msi accompagna tutto il percorso della Prima repubblica. All’interno di questa analisi, spicca la figura di uno dei segretari di partito più illustri: Giorgio Almirante. Il saggio, inedito, al contrario degli altri, dedicato da Parlato al segretario mette in luce una delle caratteristiche più contraddittorie e al tempo stesso indicative della storia del Movimento: l’incapacità, o meglio, la scelta consapevole nel non voler seguire una linea solo legalitaria e “pulita” di rappresentanza. Al contrario, l’anima più verace e spontaneista del partito, neofascista, che però al tempo stesso costituiva una solida base di consenso dal momento che il partito era nato su iniziativa di fascisti sopravvissuti al conflitto (Pino Romualdi su tutti), compromise anche l’unica vera opportunità di incidere sulle sorti del paese che si manifestò con il governo Tambroni nel luglio del 1960.
L’analisi di Ungari e Parlato indica come momento di stagnazione politica il periodo che comprende gli anni Settanta e Ottanta, caratterizzato da una marginalità dovuta alle implicazioni della destra nel mondo del terrorismo armato e delle stragi di Stato nonostante il risultato elettorale da record del 1972 (8,8%) e il passaggio a Msi-Destra Nazionale. Una eclissi che verrà interrotta, paradossalmente, dalla fine della Prima repubblica e, dopo Tangentopoli, dalla nascita della nuova destra. L’ultimo segretario del Msi, l’allora giovane Gianfranco Fini, delfino di Giorgio Almirante, fondò infatti Alleanza nazionale nel 1995. Culturalmente parlando la sfida di Fini prevedeva l’accompagnamento dei vecchi modelli culturali che erano stati parte fondamentale del Msi, quali Evola, Gentile, Spirito e D’Annunzio, ai più moderati don Sturzo, Gobetti e Croce, imponendo l’antifascismo come valore fondamentale. Una sfida che per più di 50 anni il Msi non si era mai sentito di fare fino in fondo, preferendo galleggiare nella nostalgia del fascismo per non fare apertamente i conti con il proprio passato e per non aprirsi a un progetto culturale e politico più rischioso che ambizioso.

Giacomo Gaiotti

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 177, giugno 2022)

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