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A. XVI, n. 175, aprile 2022
Ilda “la rossa”
si racconta
con sincerità
di Alessandro Milito
Anatomia di una Pm in prima linea
sui retroscena della procura
La magistratura italiana vive i suoi giorni peggiori; dallo scoppio del caso Palamara all’indagine sulla cosiddetta “loggia Ungheria”, dallo scontro tra Csm e Consiglio di Stato sulle nomine per la Corte di Cassazione ai referendum sulla giustizia presentati da Lega e radicali, fino al conflitto di attribuzione sollevato dal Senato per l’inchiesta sulla fondazione Open, con protagonista Matteo Renzi: sono lontani i giorni di Mani Pulite e degli striscioni inneggianti i magistrati del celebre “pool”. Il rapporto di fiducia tra magistratura e cittadinanza attraversa una crisi profonda, testimoniata anche dai sondaggi sugli indici di gradimento che vedono i magistrati raggiungere le vette negative dei partiti politici.
In questo contesto ostile alle toghe, e mentre si discute di una riforma del meccanismo di elezione del Csm stesso, in libreria spunta l’autobiografia di una donna inscindibilmente legata alla sua funzione inquirente. Trattasi de La stanza numero 30. Cronache di una vita (Feltrinelli, pp. 352, € 19,00), il racconto di Ilda Boccassini, storico pubblico ministero della Procura della Repubblica di Milano, protagonista di alcune delle più rilevanti ed incisive vicende giudiziarie nazionali.
Una donna in toga
La stanza numero 30 è l’ufficio del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano che Ilda Boccassini ha occupato quasi ininterrottamente per tutta la sua lunga carriera, dal 1979 al 2019. Una carriera alla quale la napoletana Boccassini sembra essere stata indirizzata sin dalla nascita. Figlia di magistrato, la giovane Ilda si trova catapultata nelle lotte femministe degli anni Settanta; madre neolaureata con un bambino appena nato e il proibitivo concorso per la magistratura da affrontare. Un percorso irto di ostacoli, che in seguito accompagneranno la giovane magistrata inserita in un contesto gerontocratico e tutto maschile. È proprio questa una delle chiavi di lettura più interessanti dell’autobiografia, interamente narrata in una prima persona dal sapore quasi confidenziale: Boccassini racconta quante insidie, maldicenze, angherie e difficoltà ha dovuto affrontare come donna togata. L’evoluzione dei costumi, e quindi della magistratura, hanno gradualmente modificato un contesto inizialmente inaccessibile e fortemente ostile alle donne, ma è chiaro che il percorso non può dirsi pienamente compiuto. In questo senso, l’opera rappresenta una testimonianza di qualità in grado di incoraggiare e ispirare le tante, e sempre più numerose, iscritte alle facoltà di Giurisprudenza e interessate a una futura carriera nei ranghi della magistratura.
E come spesso accade è proprio il corpo delle donne, specie quelle che ricoprono ruoli di potere e istituzionali, uno dei campi di battaglia più aspri. Una battaglia che l’autrice ha scelto di affrontare vestendo i panni di Ilda “la rossa”: «la donna dura dal viso perennemente corrucciato, sempre pronta a graffiare, mai un sorriso», accompagnata da gioielli vistosi e appariscenti e, ovviamente, con quella folta chioma di ricci rossi e sgargianti. Una divisa che si è impressa nell’immaginario collettivo e di cui la stessa autrice è ben consapevole: «non nego di aver contribuito a dare di me un’immagine pubblica che so diversa a quella reale. È vero, ho fatto sì che si affermasse una Ilda che non sorride, dallo sguardo serio, a volte torvo, uno sguardo che non vuole blandire né rassicurare. Insomma, per difendermi ho indossato una maschera che con il tempo è diventata la mia faccia, ho lasciato che si ricamasse sul mio essere una donna severa, poco incline ai sentimenti, tutta Codice e tintinnio di manette. Sgradevole? Forse a volte, anche non volendo».
Proprio in frangenti come questo il libro si rivela un’autobiografia coraggiosa, in grado di offrire ampi spazi all’autocritica e a quella che sembra un’autentica sincerità dell’autrice nel raccontare se stessa. E anche gli aspetti più complessi e discutibili di una lunga vita personale e sentimentale.
I colleghi, Saverio e Giovanni
Grande spazio viene dedicato ai colleghi magistrati. Ne esce il ritratto di una magistratura umanamente molto eterogenea, per lo più maschilista, caratterizzata da varie professionalità non sempre impeccabili. Boccassini parla di uomini prima ancora che di funzionari dello Stato: nel farlo non le manda a dire di certo e, al contrario, spesso si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una confessione a lungo attesa. La magistrata, ormai in pensione, si toglie più di un sassolino dalle scarpe. Non mancano giudizi trancianti e spesso molto duri, fino ad arrivare a vere e proprie accuse. Da questo punto di vista, il libro si inserisce perfettamente nello stile della Serie Bianca, collana di saggistica di Feltrinelli che ospita libri carichi di retroscena delle stanze del potere (su tutti Io sono il potere – Confessioni di un capo gabinetto, recensito su Direfarescrivere: a questo link). Non è esente dai retroscena nemmeno il potere giudiziario, con tutte le sue contraddizioni: senza voler cadere nel tema, oggi abusato, dell’ordine che si fa “casta”, è corretto dire che la magistratura non ne esce benissimo.
Su tutti i colleghi giganteggiano le figure di due uomini fondamentali per Boccassini donna e magistrata. Due personaggi la cui importanza è evidente già nell’indice del libro stesso: a loro sono dedicati due lunghi capitoli, ciascuno intitolato con il loro nome di battesimo. Sono Saverio e Giovanni. Nel primo caso si tratta di Francesco Saverio Borrelli, Procuratore della Repubblica di Milano e a lungo “capo” dell’autrice; il secondo è Giovanni Falcone.
Il ritratto di Borrelli è particolarmente positivo, umanamente e professionalmente; tuttavia, a volte sembra che la sua figura venga messa in risalto proprio per confrontarla con altri colleghi, duramente criticati. La Procura di Milano dei primi anni Novanta, e cioè uno dei principali motori del radicale cambiamento che investì il paese in quel periodo, se dall’esterno poteva sembrare granitica e indivisibile, nel libro viene descritta in tutti i suoi limiti e le sue incomprensioni. L’autrice riesce a rappresentare il clima che si respirava in quei corridoi e rende giustizia alla figura di Borrelli, magistrato di alto livello.
Eppure, la figura più potente del libro, e sicuramente più importante per Boccassini, è senza dubbio quella di Giovanni Falcone. E sono proprio le pagine dedicate al giudice palermitano ad aver fatto più discutere e ad aver, non senza eccessive morbosità ed esagerazione, catalizzato l’attenzione a discapito di tutto il resto. Quello provato per Falcone è un vero e proprio amore travolgente che accompagnerà Boccassini per tutta la vita: «Me ne innamorai. È molto complicato, per me, ancora oggi, parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero innamorato della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante per tutto il resto».
Pagine di questo tenore, assai numerose, hanno fatto storcere il naso a molti ma spesso ci si è limitati al mero gossip, senza andare oltre. Si tratta di un errore: il libro non può essere ridotto a questo e, anzi, è apprezzabile il coraggio dimostrato dall’autrice nello svelarsi a tal punto anche in un argomento così intimo. Una sincerità che, pur mediata dalla letteratura quindi difficile da verificare fino in fondo, è apprezzabile e rende la lettura più piacevole.
Una autobiografia imperfetta
La stanza n. 30 è anche un accurato compendio sulla storia giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni. Dalla lotta alla Mafia al terrorismo islamico, da Mani pulite alle innumerevoli inchieste su Berlusconi, ostacolate da altrettante numerose leggi ad personam appositamente approvate da un Parlamento compiacente. Ilda Boccassini è stata a più riprese protagonista di queste pagini difficili della recente storia italiana. Lo ha fatto sacrificando inevitabilmente ampi aspetti della sua vita privata, pressoché ridotta al lumicino.
Nelle sue 352 pagine, l’opera alterna momenti intimi di Ilda “la rossa” ad ampi stralci delle indagini e dei processi sostenuti nel corso di decenni di lavoro. Il libro non è esente da difetti: probabilmente con un centinaio di pagine in meno sarebbe riuscito perfettamente nel compito prefissato e comunque ben raggiunto. L’ulteriore lunghezza si deve ad un ricorso, a volte eccessivo, delle lettere ricevute dalla Pm da parte di comuni cittadini che negli anni l’hanno sostenuta ed incoraggiata ad andare avanti nei momenti più difficili; lo stesso si può dire sulla scelta di replicare integralmente interi interrogatori o atti processuali: se a beneficiarne è l’approfondimento dei temi trattati, a perderne è il ritmo complessivo dell’opera. Poco male: il lettore potrà agevolmente saltare a qualche pagina più in là e non perdere il filo della storia.
Un filo che vale la pena seguire, per addentrarsi in un’autobiografia imperfetta: a volte troppo autocompiacente e con qualche pizzico di retorica, con un’idealizzazione di alcuni personaggi a tratti eccessiva. Ma sono proprio questi difetti a rendere l’autobiografia autentica e credibile: un’autobiografia senza sbavature avrebbe suscitato più di un sospetto. Se anche i difetti riescono a venir fuori, significa che il lavoro svolto merita attenzione.
Così come merita attenzione e rispetto la lunga attività professionale di Ilda Boccassini. Un’autentica magistrata.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 174, marzo 2022)