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A. XVI, n. 175, aprile 2022
L’8 marzo è passato, ma la lotta
per i diritti delle donne continua
di Giulia Bassanello
Donne (ma anche uomini) ragionano partendo dalle
proposte dettagliate avanzate nello scorso numero
Dobbiamo essere sinceri: quasi mai, per un articolo pubblicato su una delle nostre riviste, si è creato un tale e vivo dibattito come è avvenuto in seguito alla pubblicazione dell’intervista a Fabiana Desogus, la “femminista storica”, pubblicata il mese scorso.
Infatti, nel numero di marzo, in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna (erroneamente chiamata e intesa da molti come la semplice “Festa della donna”) abbiamo dedicato un’intervista nella quale è emerso il ruolo della donna contemporanea, il suo rapporto nei confronti del maschilismo moderno e sul modo in cui questo giochi ancora un ruolo subdolamente da prepotente protagonista.
E, anche per riprendere uno dei concetti emersi nella pubblicazione di marzo, ribadiamo come si debba ostacolare il nocivo andazzo che vede la “Festa della donna” un giorno all’anno, mentre la “Festa dell’uomo” i restanti 364. Pertanto, poiché l’8 marzo è passato già da un po’, noi non demordiamo e continueremo a dimostrare la nostra idea, trovandoci ancora questo mese a dibattere il tema.
Abbiamo inoltre deciso di accompagnare la pubblicazione di questo articolo con la foto di una figura politica portavoce della lotta contro il patriarcato, Emma Bonino, un esempio di donna che si è sempre schierata, scendendo direttamente in campo, dalla parte dell’uguaglianza tra i generi. Il che, sia ben chiaro, non deve essere inteso come un tentativo di tirarla per la giacca e per prenderci un imprimatur abusivamente.
La donna come oggettiva complice del maschilismo
Partiamo nel ricordare il concetto base emerso sullo scorso numero: che la donna, inconsciamente, spesso si trovi ad avallare e a tramandare i dogmi del patriarcato, assoggettandosi da sola a una società che le rema instancabilmente contro.
Se ve lo foste perso, vi invitiamo a recuperare la lettura qui.
Da questa pubblicazione, sorprendentemente (o, in effetti, forse no…), un grande numero di lettori ci ha contattati e inviato il proprio punto di vista in merito al tema: a volte confermando le tesi che sono emerse, altre volte criticandole, ma con nostro stupore siamo riusciti a smuovere in alcune persone la voglia di alzare la voce, di prendere in mano la penna (o la tastiera), e scriverci i propri pensieri. E possiamo dirci molto fieri di questa piccola, ma potente, vittoria, perché ha soddisfatto in pieno il primo intento con cui il suddetto articolo è stato scritto: mantenere in vita l’argomento, che di frequente si cerca di insabbiare con comodità, relegandolo a discorsi vani e di pura retorica.
Data la grande importanza che per noi hanno significato, abbiamo deciso di pubblicare di seguito i commenti ricevuti che ci sono apparsi più interessanti sotto molteplici aspetti, sebbene, certi, non siano privi di punti controversi.
Alcuni lettori, per ovvie ragioni di privacy, hanno accettato di essere pubblicati a patto di rimanere anonimi, per tale motivo siamo sicuri che ci perdonerete se alcuni commenti riportano, anziché il nome di chi l’ha scritto, la dicitura indefinita di “Lettore”.
Ragion per cui, se anche voi che ci leggete in questo momento volete dire la vostra, farvi sentire in qualche modo, vi invitiamo, qualora lo desideraste, a farvi avanti inviandoci le vostre opinioni sul tema al seguente indirizzo direttore@bottegaeditoriale.it.
Ma adesso, terminate le presentazioni di rito, vi lasciamo alla lettura delle diverse testimonianze e punti di vista che ci hanno offerto i nostri lettori.
Giulia Bassanello
Il commento di Letizia: un “angelo” ancora prigioniero del proprio focolare
Il femminismo nasce, etimologicamente, come il movimento diretto per la conquista, da parte della donna, della parità dei diritti. Oggigiorno, però, viene spesso associato alla prevaricazione femminile, confondendolo, forse, con il matriarcato: si crede, infatti, che le donne siano già arrivate a pari merito con gli uomini, che abbiano raggiunto (senza sforzo alcuno, quasi fosse una concessione regalata) tutti i propri obiettivi e che, pertanto, non necessitino di ulteriori lotte.
Con un’attenta, puntuale e, a tratti, satirica retorica, Desogus spiega che non è necessario contestualizzare in grande: talvolta, è più che sufficiente analizzare il nucleo familiare, la disparità educativa impartita ai figli, per far evincere una netta e costante quotidianità maschilista.
Infatti, non è scontato né banale che, giunti al momento dello sparecchiare, siano sempre la figlia o la moglie, le donne di casa, le prime ad alzarsi. A ciò si aggiunge il fatto che spesso sono state proprio queste le ultime a sedersi a tavola, poiché sempre a loro viene designato l’arduo sforzo di portare in tavola un pasto caldo, a tutti consono. D’altronde, poco importa se, come il marito o il padre, siano appena tornate da una sfibrante giornata lavorativa: il loro lavoro sarà sempre duplice e poco considerato nel suo insieme.
Quant’è dura eliminare la raffigurazione della donna come angelo del focolare!
Senza spostarsi troppo dalle mura domestiche, altrettanto sdegnoso è il concetto di “mammo”: d’altronde, non è culturalmente pensabile che un padre possa prendersi cura dei figli e della casa senza essere “screditato” venendo associato alla figura materna, non considerando però che entrambi sono genitori e che, in quanto tali, entrambi devono assumersi le proprie responsabilità, in egual misura.
La vittoria del femminismo, il raggiungimento delle pari opportunità, è ancora distante e a renderlo tale, il più delle volte, sono proprio le donne, cresciute e abituate al ruolo di sottomissione, spesso indossato con onore e reso un vanto personale. Difatti, non è desueto che alcune donne pensino che il “giorno più bello della propria vita” sia quello del loro matrimonio, dunque senza considerare una realizzazione personale che verta su un piano accademico e professionale; anzi, spesso arrivano anche a deridere coloro che investono dapprima sul raggiungimento di un successo lavorativo e, poi, su una sistemazione sentimentale.
Non meno preoccupante è la prevedibilità con cui, in caso di una problematica gestione familiare, debba essere sempre la donna, madre, a ridurre gli orari o, addirittura, a mollare il proprio posto di lavoro. “È l’uomo colui che deve portare i soldi in casa”: questo è il motto con cui molti sono cresciuti, figli di una propaganda pubblicitaria sessista (e di cattivo gusto) che è diventata consuetudine e tradizione. Non solo è inusuale ma, quando succede che sia l’uomo a modificare i propri orari lavorativi, sconvolge, quasi stesse scombussolando l’ordine convenzionale delle cose, nonché “i canoni comportamentali che a oggi non hanno più alcun senso”. Stessa cosa dicasi per tutti quegli uomini che paragonano il proprio salario a quello della moglie/compagna, sentendosi sminuiti nel caso in cui sia quest’ultima a guadagnare di più.
Ciò che sostiene Desogus, nell’intervista Talvolta, troppo spesso, le donne sostengono il maschilismo di Giulia Bassanello, è la necessità di mettere in luce piccoli aspetti della vita quotidiana, i dettagli dei contesti in cui viviamo, esemplificando e ricordando che sono quelli a fare la differenza. Fintanto che continueremo a notare delle discrepanze, seppur apparentemente minime, e a vivere sotto “questa cappa di oscurantismo” vuol dire che il raggiungimento delle pari opportunità è ancora lontano.
Il commento di Guglielmo: l’evidenza che la riflessione sul tema non appartiene solo alle dirette interessate
È innegabile che, spesso e volentieri, il “fuoco amico” proveniente dalla metà del cielo femminile ha intralciato non poco il percorso dell’emancipazione della donna.
Il maschilismo, in quanto frutto avvelenato della visione patriarcale della società, trova spesso un terreno fertile fra le mura domestiche, si annida nei dettagli apparentemente secondari del costume sociale, scorre come un fiume carsico sotto l’involucro esterno di un’armonia solo superficiale della vita di coppia. Subdola e insidiosa come un virus, la sudditanza psicologica della donna nei confronti della persistente egemonia culturale (e di conseguenza anche politica, economica e sociale) del maschio è una radice dura da estirpare, consolidata da almeno duemila anni di fallocrazia tuttora apertamente sponsorizzata dalle tre grandi religioni monoteiste (ebraica, cristiana e islamica) e purtroppo latente anche nel mondo laico di orientamento sia liberale che socialdemocratico.
Non a caso Desogus cita una commedia all’italiana in cui la protagonista, brutalizzata dal partner, considera le botte come manifestazione affettiva. Per la serie “Fammi male e coprimi di violenza…”
Il commento di un Lettore anonimo: l’incomprensione di come sia possibile una tale disparità
L’intervista a Desogus permette di riflettere su aspetti di cui si parla, purtroppo, poco, e che ha risvegliato alcuni ricordi ormai un po’ lontani nel tempo.
Mi ha riportato a quando, in un momento della mia infanzia, ho pensato di utilizzare il cognome di mia madre in un’epoca in cui non si parlava per nulla di doppio cognome. Anni dopo ho scoperto che in Spagna viene utilizzato il doppio cognome, ma, se non si richiede di fare diversamente, automaticamente il cognome del padre precede quello della madre e si tramanda solo il primo di padre in figlio o figlia.
Ho avuto la fortuna di vedere tutta la mia famiglia impegnata nella preparazione dei pasti e altre mansioni domestiche, eppure, sapevo che non era così scontato. La pubblicità trasmessa dalla televisione, in cui le donne presentavano detersivi per i piatti e per il bucato e gli uomini prodotti per le auto, mi ha sempre provocato un effetto straniante.
Ho giocato con bambole e macchinine allo stesso tempo, anche se le foto pubblicitarie dei giornalini riportavano bambine con bambole e bambini con macchinine. E mi sembrava quindi di trasgredire le regole.
Più avanti nel tempo, ho ricevuto inviti di nozze in cui il nome della sposa compariva prima dello sposo: questa cosa mi ha colpita positivamente. Perché mi ha colpita? È questa la domanda che mi pongo.
In un mondo in cui la società e l’educazione hanno una determinata impostazione, ciò che facciamo quando si discosta da essa ci appare strano. Certamente positivo, ma provoca la sensazione di trasgressione e di voler essere diversi da ciò verso cui la società spinge. La società siamo noi, e abbiamo il potere di cambiarla attraverso le nostre azioni quotidiane e di amplificarle, cioè di trasmetterle ad altri.
Gli esempi che ho riportato appartengono a un periodo in cui internet non esisteva ancora. Oggi abbiamo a disposizione questo mezzo per apportare il nostro esempio virtuoso, nei commenti agli articoli pubblicati e sulle nostre pagine social, che permetterebbero di far riflettere i nostri “amici” o chi “ci segue”. Sarebbe tempo ben speso rispetto ai commenti polemici e fini a se stessi che congestionano il Web. Ciò varrebbe, in linea di principio, per donne e uomini allo stesso tempo, ma le donne dovrebbero essere le prime a portare avanti azioni contro la discriminazione.
Nei diversi ambiti lavorativi, come donne dovremmo riflettere, probabilmente in misura maggiore rispetto agli uomini, su quanto questa disparità potrebbe avere effetti sulla ripetizione e la diffusione di esempi di discriminazione di genere. Come riporta Desogus, in editoria è importante, per esempio, riflettere sui contenuti dei libri scolastici, ma, aggiungo, anche sui contenuti dei testi narrativi. Può essere naturale, in base al contenuto di questo tipo di testi, l’inserimento di termini o frasi legate a pregiudizi. Tuttavia, in questo caso, non si tratta di censurare, ma di riflettere se l’espressione stereotipata è stata scelta intenzionalmente oppure se si è di fronte a un inserimento involontario dovuto a un automatismo.
Concludo con un’ultima riflessione. Sembra che la donna sarebbe più incline alla mediazione, mentre l’atteggiamento dell’uomo sarebbe maggiormente predisposto all’aggressività. Ma è proprio così? E una donna, nel proprio lavoro, dovrebbe modificare il proprio carattere se non fosse sufficientemente aggressivo per far considerare il proprio punto di vista? Credo che ognuno dovrebbe utilizzare le proprie caratteristiche caratteriali – personali e non imposte dalla società – per trasformarle in punti di forza, donne e uomini in ugual modo.
Il commento di un altro Lettore anonimo: donne e uomini, due facce uguali ma diametralmente diverse
Alcune dichiarazioni di Fabiana Desogus mi hanno ricordato che il voto alle donne in Italia è stato introdotto alle soglie degli anni ’50. Ci sono buoni motivi per considerarlo un esempio di forte discriminazione, ma è talmente forte e lampante da chiedersi come sia stato possibile.
Il ruolo della donna nella vita sociale è in fondo qualcosa di molto recente, un’invenzione moderna. Ci sono degli ostacoli nel capire la donna e il suo intervento, in ambito sociale. Queste difficoltà nell’ultimo secolo sembrano così profonde che mi sembra doveroso chiedersi se non sia anche vero l’inverso, e occorra guardare come la donna interpreta il ruolo dell’uomo, il suo bisogno di affermazione. Credo che anche la donna abbia difficoltà in questa comprensione. Ciascuna delle parti valuta, riflette con se stessa, in un linguaggio che sembra misteriosamente diverso da quello dell’altro, e probabilmente lo è. Tuttavia le capacità sono simili, a volte complementari, a volte concorrenti; le intuizioni, il modus operandi potrebbe essere molto creativo, la collaborazione felicemente efficace per entrambi.
La donna, ma più spesso la società o gli intellettuali per lei, hanno sovente sottolineato come appianare le differenze: le hanno svuotate, talvolta ridicolizzate. Sopprimere le differenze in fondo rende l’altro ancora più sconosciuto e temibile, da qui ulteriori rivendicazioni fino al surreale (è stato proposto recentemente che, alla fine di una preghiera, dopo un A-men, occorra dire un A-woman).
Forse potrebbe essere il momento di riconoscere umilmente che l’altro sesso è un grande sconosciuto, lo abbiamo amato e vissuto in ambito familiare, ma nella società siamo stati colti di sorpresa dalle sfide di una convivenza che tra l’altro è intervenuta in un secolo di grandi difficoltà storiche, economiche, di trasformazione. Alcune giuste rivendicazioni, che la donna propone sul lavoro, forse potrebbero risolversi con una discussione neutra, affrontando il problema sul piano meritocratico, che penalizza entrambi i sessi e che è così diffuso da essere ormai silenziato, incomunicabile socialmente, persino in ambito medico. Con questo non voglio affermare che non esista il maschilismo, ma che la deviazione da un comportamento corretto ci sarà sempre, non può essere sradicata in nessun ambito.
Il commento di Alessandro: un altro caso in cui la voce maschile non rimane in silenzio
Gli spunti di riflessione sollevati dall’intervista a Fabiana Desogus sono molteplici ma tutti convergenti su un punto: la lunga e tortuosa strada per il raggiungimento dell’emancipazione femminile è ancora lontana dal dirsi compiuta. La discriminazione subdola e silenziosa verso le donne, che spesso si annida proprio nelle coscienze delle dirette interessate, dimostra che il femminismo non può essere limitato a una questione di (un solo) genere. Le logiche della disuguaglianza travalicano i sessi e allora diventa chiaro quale sia l’unica differenza che deve sussistere: non ci si può definire realmente democratici e repubblicani se non si crede, attivamente e concretamente, nella completa uguaglianza di diritti tra donne e uomini. Il femminismo deve definitivamente entrare a far parte dei valori fondanti la Repubblica italiana. Essa deve rimuovere tutti quegli ostacoli, di carattere sociale, economico, culturale, religioso, che si frappongono a questo obiettivo. Gli uomini, proprio perché parte privilegiata in questo tema, hanno il dovere di ascoltare due volte le analisi e le critiche pungenti delle studiose come Desogus, placando orgoglio e presunzione bambinesche e affidandosi alla logica dell’uguaglianza. Specie se intendono professarsi appartenenti alla tradizione della sinistra italiana ed internazionale.
Il commento di Barbara: una società convulsa in cui donne e uomini non hanno modo di giocare alla pari
Cimentarsi in questa lettura, in compagnia di una “storica femminista” quale Fabiana Desogus, ci pone inevitabilmente dinanzi alla reale situazione contemporanea sul ruolo che effettivamente ricoprono l’uomo e la donna. Il ticchettio del tempo che scorre, quello che noi definiamo “tempi moderni”, è lo stesso che ci dà l’illusione di ritenere che il femminismo possa deporre scudo e forcone e riposare tranquillo.
Ove vi è libertà non serve più scervellarsi in associazioni femministe, non serve più pretendere di non veder circolare attraverso i media immagini repellenti, di cui ci siamo finalmente liberati. Ammettiamo anche che il maschilismo sia stato avvilente, insidioso, snaturante per la donna stessa. Ma non abbiamo più nulla da temere, ormai è stato sconfitto in questi tempi evoluti e moderni. Giusto? O forse no!
Ebbene, la dottoressa Desogus, nonostante ammetta il progresso che vi è stato tra il 1985 a oggi, ci rammenta che non è ancora finita, che forse il femminismo ha perso il suo calore dinanzi a questo modello patriarcale ancora presente all’interno del nucleo familiare; sicuramente si potrebbe fare ancora di più per ottenere la libertà da ogni stereotipo, la parità.
Ancora non ci riusciamo e forse questo accade perché la donna ha imparato a scendere a compromessi, o meglio, ha imparato a credere di pattuire dei compromessi accettando di per sé situazioni di chiaro svantaggio individuale, personale, relazionale.
Ma andiamo per gradi, raccogliamo ciò che è stato impiantato dall’intervista redatta da Giulia Bassanello.
È vero che delle differenze tra uomo e donna all’interno della società ce ne si rende conto da adulti; quando semplicemente sfogli gli annunci online e inaspettatamente sono loro stessi a prendere una decisione per te: “Cerco una segretaria in ambito amministrativo contabile donna” oppure “Cercasi fattorino”, facendoti capire che potresti essere scartata non solo per le competenze ma per il genere (e questo vale anche per gli uomini).
Ma è anche vero che tutto comincia durante i primi passi, nei giochini che si ricevono per il compleanno, nella scelta delle scuole, delle amicizie. Forse il “facciamo maschi contro femmine” ce lo siamo portati all’interno non solo di un contesto giocoso ma anche di quello lavorativo e relazionale.
Ma soprattutto, queste differenze emergono dall’educazione che si riceve a casa, dall’importanza dello svolgere le faccende domestiche per il rispetto di tutti, le stesse che serviranno ad approcciarsi alla vita adulta con più sicurezza sia alla donna quanto all’uomo, una volta che si varcherà la porta di casa in cerca dell’indipendenza.
Questa intervista mette in luce, in tutta la sua sincerità, una problematica che deve affrontare la donna ma anche l’uomo. Il volersi per forza dare un unico ruolo diventa nocivo per entrambi, con l’unico risultato: la solitudine che poi sfocerà in diversità.
Questo perché entrambi non si sentiranno mai compresi l’uno dall’altra; la donna vivrebbe freneticamente le sue giornate pensando a due o a più persone (qualora decidesse mai di diventare madre), pensando di non potersi permettere il lusso di arretrare un attimo, di creare quel disordine che in qualche modo rimbalzerebbe su tutta la famiglia e continuando a districarsi tra il ruolo di madre e moglie, avanzandole poco tempo per quello di donna e persona; e l’uomo crederebbe di avere delle responsabilità esclusive, che in realtà sono condivisibili, pensando di dover mostrare sempre la sua forza, o peggio, pensando di non doversi districare in ruoli diversi da quello di marito lavoratore.
La colpa di tale situazione stagnante che si è creata tra il femminismo e il maschilismo, che vuole seguire costantemente il modello patriarcale, non è esclusivamente dovuta alle scelte intraprese dagli uomini, ma anche dalle donne stesse. Sono ancora numerose le donne che accettano di ricoprire ruoli ben divisibili e che non vogliono abbandonare questo sistema; talvolta è la donna stessa a diventare l’antagonista del femminismo. Non vi è una motivazione in particolare che la spinga ad autosottomettersi a dei ruoli che in realtà spetterebbero a entrambi, semplicemente, quando si cresce, si portano avanti gli insegnamenti che sono stati impartiti da bambini.
Come ci ha raccontato Fabiana Desogus, bisogna cominciare dall’età infantile, dalle responsabilità che debbono essere insegnate in egual modo a entrambi i bambini, e così il rispetto altrui.
Tutti gli stereotipi che vengono imposti a scuola, cominciando dai colori, divisi a seconda del bambino o della bambina, e tutto ciò che viene spiegato e insegnato a casa, farà di loro degli adulti che a loro volta insegneranno lo stesso approccio ai loro figli, e così via.
Si pensa che insegnare ai bambini come stare all’interno dei classici connotati significhi in realtà costruirgli intorno una sorta di “comfort zone” quando invece gli si sta solo dicendo che chi percorre una strada intermedia, che chi non segue le linee ben indicate dall’azzurro o dal rosa, sarà etichettato come diverso, non idoneo, non abbastanza.
Il migliore insegnamento che possiamo dare ai bambini è quello della conoscenza, il confronto con diverse realtà, la lettura, la libertà di essere ciò che si vuole sin da piccoli. Ricordandogli l’importanza dell’uguaglianza. Ciò di cui si ha bisogno è sicuramente un insegnamento alla parità di genere; solo tale insegnamento aiuterà a sconfiggere tutte quelle discrepanze tra femminismo e maschilismo arrivando ad aver a che fare con un “parigenerismo”.
L’uomo e la donna meritano entrambi le stesse pari opportunità e la possibilità di considerarsi interscambiabili, condividendo tutto: il ruolo di genitore, il ruolo di ascoltatore, di lavoratore, il ruolo domestico; tutto ciò scioglierebbe i macigni presenti sulle spalle di entrambi, senza pregiudizi invalidanti.
Ulteriore problematica, affrontata nel colloquio tra Giulia Bassanello e Fabiana Desogus, ha riguardato l’immagine della donna proposta dai media: fragile e vittima. Ma non solo, alla violenza psicologica e fisica, sembra quasi gli si stia costruendo appositamente una cornice di scherno, dandogli poca enfasi, l’importanza seria e meticolosa che invece meriterebbero.
In realtà, questa intervista ha scoperchiato numerose questioni ancora irrisolte e tutte legate dallo stesso filo conduttore che inizia dall’infanzia, passa attraverso il femminismo e maschilismo, per poi sfociare nel modello patriarcale, ancora fin troppo presente.
Ma di questo modello si ritrovano a doverne pagare le conseguenze anche gli uomini stessi; basti pensare alla risata che scaturisce ogni qualvolta un uomo racconta di aver subito o rischiato delle molestie da parte di una donna: le stesse che accoglieranno la vicenda con una risata.
E invece, anche in questo caso tutto ciò che è violenza deve essere considerato intollerabile per entrambi, senza eccezioni.
Le conseguenze di questo modello patriarcale che ancora persiste sono atroci. Viene da chiedersi quanto questo influisca nella scelta di crearsi una famiglia o meno, quanto influisca nella paura di affrontare un matrimonio, nella scelta della scuola, del lavoro ma anche quante problematiche psicologiche può causare: l’ansia che vive chi non si vuole adattare, chi si sente diverso solamente perché affronta la propria vita seguendo il principio della libertà e della parità; concedendosi la possibilità di tralasciare ciò che non si vuole fare, ciò che gli era stato imposto, seguendo una nuova linea di pensiero.
È bene confrontarsi con tematiche che purtroppo fanno ancora parte della nostra quotidianità, ma che passo per passo affronteremo; partendo proprio da questa lettura!
Il commento di un altro Lettore anonimo: riferimenti culturali che poco si addicono a una società dai pari diritti
Mi sono trovato d’accordo con quanto da voi scritto ma nonostante mi renda conto che non si poteva dire tutto, sono dell’idea che forse qualche altro esempio dell’autolesionismo femminile e della discriminazione nei confronti della donna è bene aggiungerlo.
Inizio con il ricordare l’amaro messaggio contro la liberazione femminile che vede protagonista l’attuale presidente del Senato della Repubblica italiana, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che continua a farsi appellare facendo seguire sempre il cognome del marito a quello proprio, al punto che è quasi più conosciuta con il cognome del consorte, Casellati, che con il suo, Alberti.
Passando alla “cultura popolare”, e alla sua quint’essenza, la musica, notiamo che anche le canzoni più rivoluzionarie, quelle che hanno costituito la “colonna sonora” degli intellettuali di sinistra, che il patriarcato tentavano di combatterlo, sono pervase di influssi dell’ideologia maschilista. In merito, voglio citare la canzone rivoluzionaria “Fischia il vento” che recita, fra l’altro, così: “Ogni contrada è patria del ribelle, ogni donna a lui dona un sospir”. Parafrasando, nel momento di battaglia, di rivolta, che l’unica cosa che la donna è capace di fare è quella di donare un sospiro amoroso all’uomo che è evidentemente l’unico protagonista.
Un altro caso analogo riguarda la canzone, sempre sullo stesso sfondo politico, “Bella Ciao”: anche qui, con il verso “Oh partigiano, portami via…” si riduce il ruolo della donna al solo desiderio di essere portata via da un uomo, come sempre l’unico protagonista. In questi casi ci si sarebbe aspettata una sorta di rivolta intellettuale da parte delle donne (e degli uomini) che cantavano tali canzoni, e invece non è avvenuta.
Concludo ricordando una serie di slogan antifemminili che sono entrati nel gergo comune e che, in modo evidentemente subdolo, rappresentano e perpetuano il cliché maschilista. Inizio con il citare quello che ripete “Dietro a un grande uomo c’è una grande donna”, spudorato riconoscimento che, nonostante la grandezza della donna, questa è sempre subalterna all’uomo, viene sempre nascosta dalle spalle di quest’ultimo.
Simile è il detto “La donna, l’altra metà del cielo” che vorrebbe quindi dire che l’uomo è la metà del cielo principale, mentre alla donna appartiene la rimanente metà, che se c’è o non c’è è quasi uguale, perché tanto è un’“altra”. Da segnalare inoltre il paradosso che vede due parti identiche rappresentate come differenti.
L’ultimo esempio di questi miei appunti lo voglio dedicare a quel modo di dire che vale per qualsiasi situazione: “Donne e bambini”. Il concetto è che bisogna tutelare i soggetti deboli, come se fossero portatori di handicap. Ove ci è giusto inserire certamente i bambini; ma le donne, altrettanto certamente, no! Perché mai le donne dovrebbero essere, per esempio, esenti o privilegiate in qualcosa solo perché donne? In caso di pericolo, hanno le stesse possibilità e facoltà degli uomini, come noi uomini abbiamo le stesse possibilità e facoltà delle donne. Non cambia nulla, se non l’ottica con cui siamo abituati a vedere le cose.
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 175, aprile 2022)