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A. XVI, n. 174, marzo 2022
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XVI, n. 174, marzo 2022

Zoom immagine Talvolta, troppo spesso, le donne
sostengono il maschilismo

di Giulia Bassanello
Intervista a Fabiana Desogus: il femminile
perpetua, inconsapevolmente, il patriarcato


Parleremo del maschilismo domestico, del patriarcato di tutti i giorni e delle responsabilità di diverse, troppe, donne usate come puntello oggettivo di tali strutture sociali obsolete e retrograde.
La “femminista storica”, Fabiana Desogus, ci aiuta a ragionare sulle tante forme di discriminazione antifemminista che si perpetuano ancora oggi, nella vita di tutti i giorni, in modo nascosto e subdolamente silenzioso.
E di come talvolta, troppo spesso, questa cappa di oscurantismo sia favorito da diversi atteggiamenti delle donne stesse.
Quindi talvolta, troppo spesso, le peggiori nemiche del femminismo risultano essere proprio le donne.
Anche, ma non solo, in previsione dell’8 marzo, abbiamo voluto dire la nostra sul maschilismo e su come combatterlo, su come snidare questo tarlo che rosicchia da dentro la società da che l’umanità ha memoria.
Anziché scegliere la retorica, più facile e meno rischiosa dei grandi paroloni che lasciano il tempo che trovano, siamo voluti entrare nel vivo della problematica, nel tentativo di capire quali sono effettivamente gli aspetti del maschilismo moderno, in quali forme questo si ripropone oggi, spesso tramite singhiozzi incontrollati tra le mura delle nostre case.
Per avere un’opinione più autorevole, affidabile e chiara in materia, abbiamo intervistato colei che possiamo senza dubbio considerare una “femminista storica”, Fabiana Desogus, in quanto protagonista, assieme a tante altre femministe degli anni Settanta e Ottanta, della svolta giuridica che ha portato alla riforma del diritto di famiglia, alla legge sul divorzio, sull’interruzione di gravidanza, ecc. Una femminista che non è stata colta dal riflusso degli anni successivi e che conduce tuttora la sua battaglia atta a far entrare nella coscienza collettiva i dettami della nuova legislazione e a richiamare l’attenzione sulle questioni che ancora urgono di risoluzione normativa. Abbiamo scelto di dialogare con lei anche per voler continuare un discorso avviato due anni fa (cfr. www.bottegaeditoriale.it/laculturaprobabilmente.asp?id=194).
In quella fase con Desogus parlammo dell’antifemminismo di Andrea Camilleri; della pessima abitudine di anteporre l’articolo dinnanzi ai cognomi delle donne; della scandalosa scelta delle donne dell’Anpi di aggiungere, in un loro recente libro, i cognomi del mariti ai cognomi delle “Madri costituenti”; dell’assoluta necessità di abrogare l’art. 29 della Costituzione ove, nella sostanza, si avallano le discriminazioni antifemminili; della necessità di una nuova legge sul doppio cognome familiare; dell’abitudine, anche delle coppie di sinistra, di anteporre, al citofono e sulla porta di casa, il cognome maschile prima di quello femminile a dispetto dell’ordine alfabetico. Come si vedrà, alcuni di tali argomenti verranno ripresi anche in questa intervista.
Un discorso ben avviato che deve proseguire, dunque. E quale migliore occasione per farlo, se non la ricorrenza dell’8 marzo?
Un discorso, però, che deve proseguire anche al di là della citata canonica festività, macchiatasi attraverso gli anni di un’eccessiva ipocrisia da ambo le parti, maschili e femminili. Tutto per smentire quell’adagio che vuole che «L’8 marzo è la Festa della Donna, ma tutti gli altri 364 giorni è la festa dell’Uomo». Proseguiremo il suddetto ragionamento sin dal prossimo numero di questa rivista.
Con Desogus discuteremo sul maschilismo, e di come questo sia ancora prepotentemente presente nelle nostre quotidianità, a volte esplicitamente visibile, altre volte annidato nei modi di fare, persino quelli delle famiglie più moderne e totalmente a favore della parità dei ruoli.
La nostra interlocutrice ci accoglie con quella gentilezza e ospitalità che contraddistingue la sua amata Sardegna.
Nel mentre ci sistemiamo per l’intervista, Desogus ci sintetizza il suo pensiero: «Ovviamente è l’uomo che schiaccia la donna, ma talvolta è la donna stessa che porge la testa facendosi schiacciare. E non mancano le volte che organizza lei stessa lo schiacciamento!»

Iniziamo subito con una domanda particolare e a bruciapelo: condivide con noi la convinzione che la prima forma di maschilismo domestico contemporaneo, avallato spesso proprio dalle madri, è quello che vede coinvolti i figli maschi già nei loro primi anni di vita, quando non gli viene insegnato che prima di fare pipì bisogna alzare la tavoletta del wc, a tutela soprattutto (ma non solo) di madre ed eventuali sorelle? Condivide anche lei che, così facendo, si enuclea nei bambini il concetto che il maschio può fare quel che vuole in quanto è il “padrone”?
Purtroppo sì. È così. Sono anche dell’idea che ciò sia legato maggiormente a una lacuna generale nell’educazione del figlio, ove le madri rivestono una particolare responsabilità.
Ci si dimentica piuttosto di insegnare al figlio che la ragione più importante per la quale si dovrebbe sempre alzare la tavoletta del bagno è quella del rispetto verso il prossimo, donna, uomo o quel che sia, tralasciando dunque un importante insegnamento di vita che gli varrà per sempre e in tutte le occasioni.

Sempre riguardo agli influssi del modello patriarcale e del maschilismo in tenera età, ha notato che nei testi scolastici, la figura della donna viene spesso raccontata attraverso i classici stereotipi di genere? Ovvero viene descritta sempre e solo come una mamma oppure, in alcune eccezioni, viene relegata a ruoli professionali cliché, come quelli della cameriera, della maestra, della hostess, dell’infermiera e della casalinga. Cosa ne pensa a riguardo?
Penso che si creano pericolosi messaggi subliminali capaci di “indirizzare” le inclinazioni e le ambizioni dei bambini così malleabili in quell’età.
È veramente difficile trovare nei libri di scuola un modello femminile che ricopra una mansione che sia al di fuori dell’ambito della cura alla persona o alla casa. È assai raro trovare una donna avvocato, magistrato, scienziata, militare, ingegnere, operaia o astronauta. Questo credo che sia uno dei lasciti più lampanti della società patriarcale all’interno dell’educazione scolastica, iniziando anche dall’esiguo numero dei maestri uomini presenti nei nidi, nelle materne e nelle scuole primarie. E ciò fa assolutamente da esempio a un bambino, che vede approcciarsi a sé, nella sua cura, solo donne, mentre gli uomini stanno chissà dove impegnati “a lavorare”.
Una bambina che nasce e cresce con figure di riferimento legate ancora a concezioni maschiliste, che vedono la donna esclusivamente nelle attività “accuditrici”, avrà una propensione a diventare un’altra persona condiscendente verso tale forma di patriarcato, sebbene non intenzionalmente. Subisce oltretutto un’influenza che le andrà a condizionare in maniera certa le scelte che prenderà in futuro, o forse ancora peggio, la farà sentire sbagliata se la sua ambizione la porterà a intraprendere strade differenti rispetto a quella di diventare madre, sposa, maestra o infermiera. Ma attenzione, ciò può essere nocivo non solo per le bambine, ma anche per i bambini. Se le prime crescono con ambizioni influenzate dalla società maschilista, che le accompagna verso una visione in cui la donna è personalmente realizzata solo e unicamente se vi è la presenza di una figura maschile accanto o se sperimenta l’esperienza della maternità, i bambini crescono con una pressione sociale altrettanto grande: quella di dover trovare un’ottima posizione lavorativa con il solo fine di mantenere, oltre che loro stessi, tutta una famiglia, vivendo quindi con un’enorme responsabilità sulle spalle che non sempre risulterà affine alle proprie inclinazioni personali.
Devo però dire, e ne sono contenta a farlo, che tre diversi studi che ho avuto modo di vedere – effettuati nel 1985, nel 1992 e quest’anno – segnalano un lento miglioramento. Il cliché non è ancora sconfitto, ma la tendenza va doverosamente evidenziata. In questo caso però, è evidente come non ci sia da rilevare una complicità femminile in chiave antifemminista. Anzi, viene spontaneo pensare che nelle case editrici lavorano molte donne che hanno – evidentemente – mostrato poca sensibilità femminista, e anche sottolineare come non si ricordano particolari prese di posizione, in tal senso, dell’associazionismo femminile.
In effetti qualche eccezione la si riscontra (citiamo per esempio la proficua attività dell’associazione Scosse e della casa editrice Settenove), ma ci si aspetterebbe un moto di protesta ben maggiore!

Sulla stessa linea: ritiene, come noi, che sia un atto di maschilismo implicito quello di scrivere i cognomi sui citofoni, non in ordine alfabetico, ma in ordine di genere? Non è raro infatti trovare il cognome del marito per primo, nonostante si chiami “Zanni”, e per secondo quello della moglie, che per cognome fa invece “Abati”.
Sì, sono dell’idea che questa, come tante altre usanze patriarcali, sia semplicemente una delle classiche consuetudini che sono state tramandate per abitudine fino a oggi, e che non abbia nulla a che vedere con l’ideologia che viene professata in famiglia.
E il tratto più paradossale di questa circostanza è che capita fuori il tetto di ogni famiglia, indipendentemente dall’ideologia più o meno progressista che questa professa. Né cambia quando si tratta di una coppia tradizionalmente sposata in chiesa o di una coppia alternativa. Il cognome del maschio è spesso prevalente, al di là dell’alfabeto. Come se il cognome dell’uomo, secondo una qualche etichetta, abbia sotto sotto la precedenza o un’importanza più rilevante.
Anche in questo caso la complice accondiscendenza della donna è un elemento (purtroppo) fondante.

Un altro episodio di maschilismo “casalingo” che capita di frequente, e che in qualche modo riteniamo che sia uno dei sintomi più emblematici del maschilismo latente che si annida nella stragrande maggioranza delle famiglie, avviene durante i momenti conviviali. Quando l’uomo mangia con tranquillità e si riposa, la donna mangia con nervosismo e si affatica ancor di più.
Concordo. Sono dell’idea che queste situazioni siano causate dalla connivenza di visioni maschiliste e patriarcali che sotto sotto vengono tramandate per comodità dai maschi.
Ogni qual volta che si finisce di mangiare, la prima persona a “scattare” sull’attenti per iniziare a ripulire la tavola è sempre la donna, anche quando questa si trova a essere l’unica ospite in casa altrui. Si avverte questa incombente pressione morale di dover riordinare e pulire altrimenti si rischia di venir prese come “scansafatiche” o, ancor peggio, maleducate. D’altro canto gli uomini nella migliore delle ipotesi si trovano a pretendere la corona d’alloro per il solo fatto di aver “aiutato” a far qualcosa.
Molto più spesso gli uomini si crogiolano a nicchiare contenti per questo autoservilismo delle donne: indubbiamente siamo dinnanzi a un ulteriore esempio di automaschilismo antifemminista portato avanti dalle donne stesse, in una totale connivenza nei confronti di questo male sociale.

E riguardo alla famosa cavalleria? In realtà si dice che sia un atto di rispetto verso la donna, ma noi crediamo invece che sottintenda il contrario: lo vediamo come un atto di potere esercitato dall’uomo perché si fa cosciente dello stato di inferiorità in cui si ritrova la donna e, quasi regalmente, decide di aiutare questi esseri inferiori.
Concorda?

Purtroppo sì. La cavalleria è una di quelle questioni che mi lascia ancora dell’amaro in bocca. Sarebbe l’ideale una cavalleria per entrambi i generi, nella quale si prevedono situazioni in cui è la donna che deve avere un occhio di riguardo per l’uomo e situazioni in cui è l’uomo a dovercelo avere per la donna. Tutto in una circostanza di parità assoluta, di un volersi “viziare” a vicenda.
Ma se deve invece seguire una direzione a senso unico: no, non vi è nulla di più sbagliato o addirittura nocivo per quello che l’emancipazione femminile e oserei dire anche quella maschile devono essere.
Includo l’emancipazione maschile perché anche l’uomo deve avere il diritto di poter vivere con libertà il rapporto che intrattiene con una donna, senza per forza dover rappresentare dei canoni comportamentali che a oggi non hanno più alcun senso.
Spesso avviene invece che le donne, al posto di avvertire questo atteggiamento con una sostanziale disistima, si sentono come poste su un piedistallo. Rafforzando, così, questo ulteriore cliché antifemminista, crogiolandosi.
E cosa dovremmo dire delle danze come quintessenza del maschilismo?

Delle danze? Lo immaginiamo. Ma ce lo dica!
Nel ballo è sempre l’uomo a “condurre” il passo…
Purtroppo sì. Anche questo è un modo di essere complici e acquiescenti al maschilismo, che prevede l’uomo in una situazione di primazia. Ricordo a tal proposito che feci tale domanda a una scuola di ballo latinoamericano, ospitata da un’associazione politica di sinistra, le cui esponenti – pur consce della gravità di quanto stavano perpetuando – non se la sentirono di infrangere la tradizione (per loro “Tradizione”) propugnando l’intercambiabilità dei due ruoli.

Come valuta l’azione dell’associazionismo di genere e di quello politico del mondo progressista?
La vedo male. Qualche esempio concreto abbiamo già avuto modo di criticarlo con forza quando abbiamo parlato, nella scorsa intervista, della retrograda scelta dell’Anpi per aver messo, in un libretto sulle “Madri Costituenti”, il cognome del marito accanto a quello della moglie. Una scelta oscurantista che, in risposta, non ha trovato nulla se non un assordante silenzio da parte del mondo femminista.

Siamo nell’epoca della comunicazione rapida ed efficace e, particolarmente, visiva. Come, a suo avviso, si è introdotto il movimento femminile in questo ambito?
Piuttosto male, direi.
Dobbiamo notare, sempre con criticità purtroppo, che quando il movimento femminile è andato a cercare delle immagini rappresentative, o è riuscito a convincere organismi politici a inserire un emblema di forza e orgoglio femminile, è andato a prendere delle immagini sbagliate. Se per mancanza di fantasia, di ricerca o di voglia di studiarci su, non lo sappiamo, però i risultati sono questi.
Facciamo due esempi. Il primo è quello del famoso quadro Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, nel quale, con la donna in primo piano, si intendeva rappresentare la vis battagliera delle donne, ove la giovane madre si pensava sostenesse apertamente il corteo degli operai (uomini e donne) che stavano facendo la manifestazione sindacale. Quindi questa donna irrompeva, secondo tale tesi, in prima fila per dare il suo contributo pro manifestazione. Ma così non è invece: guardando bene il quadro, si vede difatti che la donna non si immette sulla linea dei manifestanti per andare avanti, ma si mette di sbieco. La sua mano è implorante, il suo sguardo non è fiero come quello di una manifestante, ma è quello triste, forse anche disperato, di chi soffre qualcosa all’interno. Il bambino che tiene in braccio e la sua postura fanno intendere che questa donna sta richiamando i manifestanti come per dire: “attenzione, pensateci bene, andateci piano!”. Non si tratta ovviamente di una posizione deprecabile di per sé. Quando c’è una manifestazione c’è sempre chi la pensa in un modo, chi la pensa in un altro e chi la pensa in un altro ancora, ma certamente non è la donna, in prima fila, a trascinare le masse. In tal senso ho trovato molto interessante le considerazioni critiche della docente universitaria Gloria Bova, studiosa in Psicologia dell’arte [1].
Il secondo esempio lo traiamo da una tessera di un partito della sinistra storica alternativa di un paio di anni fa. Volendo immortalare una donna rivoluzionaria, una donna comunista, una donna battagliera, mette, a emblema di questo concetto, il famoso fotogramma di Roma città aperta, dove Anna Magnani irrompe nella scena gridando contro il sequestro del marito e sull’uccisione del figlio. Quindi anche qui un’azione bellissima, certamente, encomiabile senza dubbio, ma che in modo ancor più ovvio non rappresenta la donna attiva e rivoluzionaria. Cosa che, quando siamo andati qualche giorno fa a una manifestazione per il Kurdistan, abbiamo visto, impresse su diversi libri di donne curde, delle figure femminili orgogliose e fiere, non necessariamente con armi in mano, ma che rappresentavano dalla postura, dallo sguardo e dalle espressioni questa scelta quotidianamente rivoluzionaria della donna e del femminismo.

Cosa possono fare le famiglie per educare i figli all’uguaglianza di genere?
Possono fare quelle piccole ma fondamentali cose quotidiane delle quali abbiamo fatto cenno poc’anzi. Con un’aggiunta.

Quale?
Quella dei giocattoli. Regalando ai bambini le pistole, le automobiline, i trenini, ecc. e alle bambine le Barbie, le cucine, i ferri da stiro, ecc. si indicano loro una strada sessista che, man mano, porterà i primi a sentirsi prevalenti sulle seconde.

Ritorniamo sull’argomento “comunicazione” e parliamo degli old media
Chi mi conosce sa che sono un’appassionata di cinema e che rispetto le varie importazioni e strategie autoriali dei vari registi. Però non posso accettare e mi crea uno scandalo interiore pensare che le associazioni femminili lo accettino senza contestarlo: non posso accettare quelle scene di normale violenza contro le donne. Di normale violenza nel senso che non vengono messe come momenti apicali di grandi conflitti interpersonali; che non vengono poste come eccezioni particolari di casi particolari. Sarebbero disdicevoli anche se poste in queste logiche, ma almeno avrebbero una ratio accettabile. E invece, no. Tali scene di gratuita violenza antifemminile vengono trasposte nei film come avvenimenti logici e normali, come cose ovvie, quotidiane, naturali. In particolare, per fare un esempio classico: ricordo un film che ho rivisto poco tempo fa, nei giorni di commemorazione di Monica Vitti, dove Albero Sordi la picchia selvaggiamente e lei, quasi quasi, rimane contenta, o comunque l’accetta senza protestare per i suoi sensi di colpa. Questo stereotipo è pericolosissimo, ed è ancora più pericoloso per un bambino o adolescente che vede questa scena anziché tanti proclami e tanti ragionamenti dotti.
Ciò non varrebbe se gli schemi di scene simili fossero stati impostati come catartici: ma non lo sono quasi mai, degradano piuttosto nella morbosità complice se non addirittura nell’ancor più complice voyeurismo.

Benissimo (si fa per dire); e i new media?
È triste concludere questo ragionamento con un’invocazione alla censura…
Sono anche una persona aperta, una persona moderna, che sulla sessualità ha sempre sostenuto la tesi dell’apertura mentale, senza stereotipi. Ma mi domando: come facciamo ad accettare che il web sia pieno di violenza sanguinaria contro le donne in ambito sessuale? Come possiamo accettare le torture che si vedono su internet?
E tutto ciò è facilmente visibile, anche senza effettuare ricerche o abbonamenti particolari, ma semplicemente come tutto il resto, come qualsiasi nostro figlio, nipote o fratello adolescente può trovare. Cosa gli viene in mente a questi ragazzi quando vedono la tranquillità con la quale la donna viene violentata, viene picchiata, viene seviziata, così, come se nulla fosse? E noi dobbiamo accettare queste cose? Il movimento femminista deve accettare queste cose? Io direi di no.
La censura, in questo caso è necessaria, urgente e cogente.

Giulia Bassanello

[1] In tal senso, da noi interpellata, si è recentemente espressa la dottoressa Gloria Bova, docente in Comunicazione presso la Sdf dell’Università di Bergamo, studiosa ed esperta in Psicologia dell’arte e già docente in tale materia presso la Ucla del Venezuela in collaborazione con le Università di Granada e di Madrid. La docente ha in particolare evidenziato che: «attraverso una dettagliata lettura psicocorporea delle figure e del loro interagire nell’insieme visto come un sistema di comunicazione, soffermandosi in particolare sulla interpretazione della dinamica interazione tra due delle tre figure in primo piano.
Concetti di base:
-uomo in primo piano: procede risoluto, spavaldo e sicuro nella sua sfida. Un leader trascinante la massa che lo segue un passo indietro
-donna con bambino: figura plastica, aperta e dialogante. Senza scarpe, come a voler dire che lei è con i piedi nella realtà della vita. Cerca di richiamare l’uomo alla consapevolezza del suo agire, alla responsabilità di leader trascinante e alle conseguenze della sua sfida su tutte le persone e le oro famiglie. Le due figure sembrano riassumere in se stesse l’evidenza del dialogo mancante tra gli stereotipi del maschile e del femminile a esso culturalmente sottomesso, della diversa visione in essi del significato di lotta e dei valori della vita. L’uomo col petto irrigidito dalla sfida non la ascolta, lo sguardo resta fisso in avanti verso il suo obiettivo. La donna porta nel volto l’umanità e la bellezza, la sua figura tutta rivolta al maschio e leggermente indietro parla della sua sottomissione culturale che non la priva però della saggezza e del contatto con la realtà della vita, è lei che procrea, allatta e cresce gli uomini. Il braccio allungato e la mano aperta sembrano dire “ma guarda, guardati, non ti rendi conto? Ascoltami!».

Giulia Bassanello

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVI, n. 174, marzo 2022)

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