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A. XV, n. 160, gennaio 2021
La questione carceraria
tra indifferenza e Giustizia
di Alessandro Milito
L’appello di Stefano Natoli per Rubbettino contro
pregiudizi sui detenuti e l’universo carcerario
«Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni», sentenzia Dostoevskij nel suo monumentale Delitto e castigo. Verrebbe voglia di prenderlo alla lettera e di misurare il livello di progresso della società italiana avendo come parametro di riferimento lo stato delle sue carceri o meglio, la sua questione carceraria.
È ciò che fa l’appassionato saggio del giornalista Stefano Natoli Dei relitti e delle pene. Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione (Rubbettino, pp. 188, € 15,00), richiamando, già nel suo titolo, il contrasto tra la monumentale opera di Beccaria, pilastro del pensiero illuministico sulla funzione della pena, e la deliberata marginalità del carcere nella società italiana. Proprio il paese che diede gli albori a quel Dei delitti e delle pene che, con la sua rivoluzionaria riflessione sull’abolizione della pena di morte tanto influì sul successivo diritto penitenziario, si trova oggi a dover scontare gravi ritardi e mancanze sul trattamento dei detenuti.
Detenuti che, una volta varcata la soglia del penitenziario, cessano di essere cittadini con diritti costituzionali da tutelare, e vengono immediatamente rimossi dall’immaginario collettivo. Persone trasformate in relitti, lasciati alla deriva e senza una reale possibilità di recupero.
I veri nemici: l’indifferenza e il pregiudizio
Non è facile parlare della questione carceraria, da qualsiasi punto di vista la si analizzi. La difficoltà aumenta se l’intento è quello di sottolineare l’inefficienza e l’ingiustizia del trattamento carcerario; se si suggerisce di incentivare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, favorendo un sistema penitenziario meno «carcerecentrico»; se si cerca di immaginare un carcere costituzionalmente orientato, avendo come baricentro l’art. 27 della Costituzione e la funzione rieducativa della pena.
Chiunque volesse intraprendere un simile discorso, specie in una piazza pubblica o social o, ancora, su un piano politico, si troverebbe di fronte due nemici formidabili: l’indifferenza e il pregiudizio. Sono proprio questi ultimi a far da padrone in buona parte dei discorsi, più o meno consapevoli, sulla questione carceraria, nonché i migliori alleati di un giustizialismo dalla manetta facile sempre in voga. E sono proprio questi i bersagli principali del saggio di Natoli, la prima barriera da abbattere per impostare una seria riflessione sul futuro dell’ordinamento penitenziario italiano. Il carcere, e coloro che lo vivono, non interessa a nessuno. Dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria, dai volontari ai cappellani e da tutti coloro che, in un modo o nell’altro, ruotano attorno a questo “non luogo” che è anche istituzione totale per eccellenza: il mondo esterno si disinteressa dei loro destini, «chiude la cella e butta la chiave» il più lontano possibile. Accanto a questa indifferenza latente e pericolosa, si schiera un altro avversario formidabile: il pregiudizio. L’idea che il Paese sia perennemente soggetto a un’emergenza sicurezza e che le istituzioni non siano in grado di farvi fronte, men che meno l’Amministrazione penitenziaria. Non solo: la vulgata nazionale racconta di un Paese senza certezza della pena, in cui il condannato «prima o poi esce in qualche modo» e un ergastolo che, in realtà, «non lo fa nessuno». Dei relitti e delle pene non tratta con sufficienza queste tesi, al contrario si propone di superarle facendo ricorso a un ricco repertorio di dati, rapporti, manifesti e citazioni di altri testi sull’argomento. Il tutto ponendo una premessa fondamentale troppo spesso dimenticata: il detenuto, seppur privato del suo diritto alla libertà, continua a essere titolare di altri diritti fondamentali, quali il diritto alla salute e alle relazioni affettive e intime. Perché «blindo e sbarre non cancellano i diritti».
Una radiografia critica del sistema carcerario italiano»
Il rischio di essere tacciati di buonismo è sempre dietro l’angolo, specie in un dibattito pubblico inquinato da reazioni che fanno appello alla pancia, più che alla ragione.
Eppure non si può prescindere da quest’ultima se si vuole realmente riflettere sull’opportunità di mantenere un ordinamento penitenziario incentrato sul carcere. Sono tante le prime domande da porsi sul tema: questo sistema, funziona? Chi viene sottoposto alla pena, “impara la lezione”? Quanto è il rischio di recidiva del detenuto una volta tornato in libertà? Chi ha più probabilità di finire in galera e perché? Quali sono i reati che producono più detenzione?
Dei relitti e delle pene funziona proprio perché, mentre cerca di rispondere nella maniera più accurata possibile a queste domande, rilancia ponendone di altre e portando il livello di riflessione su piani ulteriori e più profondi.
La radiografia del sistema carcerario di Natoli è precisa e accurata, tesa a dimostrare che il nostro Paese è vittima di una «bulimia penitenziaria», con effetti collaterali pericolosi e contrari allo spirito della Costituzione. Se l’obiettivo prefissato da quest’ultima è la rieducazione del condannato, attraverso «trattamenti che non devono essere contrari al senso di umanità», e se la funzione della pena deve essere anche quella di prevenire la commissione di nuovi reati, non si può dire che il nostro sistema sia efficace, né efficiente. La «carcerite» di cui è affetto il nostro sistema, denuncia Natoli, comporta costi economici e sociali immani se paragonata agli effettivi benefici che essa produce.
Non solo: il carcere non solo è un «sistema decisamente costoso ed inefficace» ma tenderebbe alla progressiva deresponsabilizzazione del detenuto, non curante del «dopo», ovvero di tutto ciò che è successivo alla pena scontata. Ciò si deve al fatto che «nel corso del tempo […] le persone recluse fanno registrare un’erosione della loro individualità determinata dall’adattamento alla comunità carceraria che tende, appunto, a livellare gli individui, a spersonalizzarli, a infantilizzarli». Con conseguente potenzialmente disastrose.
Verso l’abolizione dell’ergastolo: un’utopia?
Dei relitti e delle pene non si limita a criticare l’esistente, propone anche una sua visione alternativa di ordinamento penitenziario e, più in generale, un diverso modo di intendere la funzione della pena.
Tra le suggestioni più potenti lanciate da Natoli vi è quella dell’abolizione dell’ergastolo, ritenuto come «il carcere del carcere», la negazione stessa dell’art. 27 della Costituzione. In particolare, l’autore si sofferma sulle iniziative legislative e referendarie che hanno tentato di modificare tale pena, oltre che sulla numerosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale. Quest’ultima ritiene che «la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso; essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione».
Il tema è ovviamente molto vasto e complesso e nell’affrontarlo non si possono negare alcuni dubbi e reazioni istintive atte a reagire con diffidenza a qualsiasi disegno di abolizione del carcere a vita. L’autore ne è ben consapevole, né sottovaluta tali argomentazioni. Nonostante ciò, la linea tracciata dal suo saggio è chiara: la nostra società potrà definirsi realmente civile quando si lascerà alle spalle l’ergastolo e, in futuro, anche la stessa idea di carcere. Le modalità per arrivare a ciò sono ancora da individuare e costruire ma l’orizzonte è tracciato. Natoli si chiede, quasi provocatoriamente: non sembrava assurdo all’epoca in cui erano in vigore, abolire la schiavitù o la pena di morte? Non siamo riusciti comunque a superarle? E quindi, perché non osare ancora una volta.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 160, gennaio 2021)