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A. XIV, n. 153, giugno 2020
Una storia immersa nei monti
con un enigmatico vecchietto
di Maria Chiara Paone
Per Rubbettino Fabio Andina e il suo romanzo
sul rapporto tra l'uomo e la natura di paese
«In paese si mormora da una vita che il Felice ogni mattino s’incammina mentre il gallo ancora dorme e va, solo il diavolo lo sa dove, a immergersi tutto nudo come un verme in una pozza d’acqua gelida. Alcuni dicono che ci è sempre andato. Altri che ha attaccato ad andarci dopo il suo viaggio in Russia negli anni sessanta. E poi c’è chi sostiene che invece ci va solo dalla pensione. Per alcuni la pozza è lungo il torrente Gurundin, dalle parti della pineta Selvaccia. Per altri nel torrente Altaniga, tra la cascina del Celso e le cascine Tognola. E per altri ancora addirittura in cima all’Alpe del Gualdo, a milleseicento metri di quota».
Fabio Andina fin dalle primissime pagine entra subito nel vivo della storia, intitolata appunto La pozza del Felice (Rubbettino Editore, pp. 210, € 16,00). Il romanzo, insignito nel 2019 del Premio Terra Nova della Fondazione Schiller e del Premio Gambrinus “Giuseppe Mazzotti” nella sezione “Montagna: cultura e civiltà”, fa parte della collana di Rubbettino Velvet, dedicata alle opere di narrativa considerate più meritevoli.
La quotidianità oltre i monti
In effetti quella di Andina è una bella prova di scrittura, che si contraddistingue per molti fattori. Prima di tutto nella struttura, composta solo da nove capitoli ma oltremodo densi, permeati da un ritmo lento e incalzante. La storia sembra non avere una temporalità ben definita, perché immersa completamente nel vivere quotidiano di Leontica, una frazione del Canton Ticino: protagonisti sono un giovane narratore senza nome – una sorta di alter ego dell’autore – e appunto il Felice, suo vicino di casa e compagno di “scorribande” tra le montagne. Qui si fa la conoscenza di tutto il paese, dalla Paolina, che baratta volentieri i suoi formaggini, al Brenno, suo cognato, intenditore di galline (e di volpi) che riconoscerebbe a occhi chiusi il genere di ogni animale. Storie assolutamente normali, anche nel dolore, come quella della maestra Sabina, ritrovatasi ad accudire da sola le figlie Duska e Priska (portando addirittura la prima in ospedale a Zurigo) perché in crisi con il marito Giovanni che, depresso dalla malattia della figlia si spingerà all’alcolismo, venendo perciò licenziato; oppure quella di Evelina, la sorella del Felice, malata ormai da tempo di Alzhaimer che la racchiude nell’oblio.
Sarebbe un cliché scrivere che la routine viene spazzata via da un elemento singolare (una lettera misteriosa – «dalla Cina» secondo alcuni – inviata proprio al Felice), infatti nel romanzo non succede questo: l’autore fa passare la novità quasi in sordina, perché è il Felice stesso a non renderla una notizia sensazionale, portando quindi a pettegolezzi e ipotesi che saranno solo sussurrati di tanto in tanto dai vari personaggi. Pittoreschi e ben caratterizzati, questi ultimi, nonostante il loro ruolo di comparse, delineano perfettamente l’atmosfera unica di questi luoghi, così vicini all’Italia eppure così lontani. Andina riesce a rendere reale l’ambientazione anche grazie all’aiuto del linguaggio, con termini tipici della valle, come mèrsi – storpiatura dal francese per dire “grazie” – o Natel con cui si definisce invece il cellulare.
L’importanza dell’ascolto
Anche la vita del Felice non si esime dall’essere pittoresca e ben caratterizzata. Grazie agli occhi e alle orecchie del narratore anonimo riusciamo a seguirlo nelle sue passeggiate, ad ascoltare le sue riflessioni e a conoscerlo, nei limiti del possibile. Infatti il personaggio del Felice sembra incarnare una figura a metà tra il saggio e l’eremita. Dalle sue opinioni emergono serenità e pacatezza unite a un’intelligenza sopraffina e mai banale, ma non sempre l’anziano è intenzionato a rivelare tutto di sé e si chiude a volte nella propria riservatezza: da quella sembra trasparire malinconia e nostalgia di cose che più non sono, senza però il rammarico che accompagnerebbe le giovani generazioni, ma con la consapevolezza di chi ha vissuto tanti anni e sembra non rimpiangere nulla. L’esperienza che si fa nella lettura sembra simile a quella che potremmo compiere stando a stretto contatto anche nella realtà con un nonno o un vecchio zio, stimolandolo a raccontare la propria storia, per poterla portare avanti come testimonianza negli anni a venire.
L’eterno ciclo del ritorno
Molto forte è la presenza della natura, che sembra essere in piena armonia con l’uomo che qui non la disturba – a meno che non ci siano degli attacchi da parte di essa nei confronti degli abitanti della valle, volti a rompere l’equilibrio creatosi – anzi, la utilizza compiendo operazioni di scambio continuo, volto a far prosperare il legame.
Lo si denota dalla presenza in casa del Felice di tutte quelle piccole direttive che, soprattutto di questi tempi, leggiamo in argomento di salvaguardia dell’ambiente; il vegetarianismo e gli allevamenti non intensivi; la colazione quasi a chilometro zero («In quattro e quattr’otto mi ha preparato la colazione. Una tisana di erbe secche, uno yogurt alle nocciole, cioccolato nero, pane e una manciata di castagne arrostite, fredde e dure come sassi»), i pasti cucinati in risparmio di acqua, spesso utilizzata per più scopi; la presenza del compostaggio, utilizzatissimo per arricchire la terra e che viene formato in maniera spontanea: persino le bambine sono educate a buttare lì i resti della loro cena. Tramite le parole del contadino questo prezioso metodo di riciclo diventa anche una metafora per quello che ci aspetta dopo la vita, in cui si può leggere una sorta di omaggio alla livella di Totò: «Quando crepiamo diventiamo tutti del compostaggio, tutti uguale, che il sangue è rosso per tutti, servi e padroni, belli e brutti, cretini dottori contadini e preti, tutti dentro un buco, due metri sotto terra e amen, e questa qui è una gran bella verità che è sempre esistita e mai cambierà».
E, ovviamente, le immersioni quotidiane nella pozza: il rito, nonostante sia sempre uguale – «Va sotto tutto, poi si mette in piedi e s’insapona e poi s’immerge di nuovo e vi rimane dentro a lungo, immobile» – contiene ogni volta una sua unicità, sicuramente grazie al narratore che, nel suo ruolo di spettatore, si lancia in riflessioni sempre inedite. Potente è quella che conferma ancora una volta la simbiosi tra l’uomo e l’acqua, sua prima fonte di vita, e che lega tutti, nessuno escluso:
«Penso che l’acqua di questo torrente bisbiglia qualcosa d’indecifrabile […] immergersi nella sua pozza è un po’ come viaggiare lungo i fiumi e attraverso laghi e mari e oceani, e anche nella pioggia. Ed è anche come sentirsi unito a qualcuno immerso nell’acqua in giro per il mondo. […] E poi penso anche che quest’acqua è la stessa con la quale sua mamma faceva bollire le patate per fare gli gnocchi le domeniche di ottant’anni fa e questo pensiero mi dà un brivido. Chissà se il Felice ci pensa a queste cose».
Una lettura che noi consigliamo, almeno per questa volta, di non leggere tutta d’un fiato, in modo che lasci un sedimento che difficilmente si scuoterà.
Maria Chiara Paone
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 153, giugno 2020)
Letizia Lamorea, Ilenia Marrapodi, Rosita Mazzei, Maria Chiara Paone