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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
Un racconto magico
per tutti i bambini
che resistono
di Alessandro Milito
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 29 aprile 2020
Improvvisamente mi rendo conto di quale immenso privilegio sia avere due zii a Bologna. A partire da giorno 4 potrò andare a far loro visita e riscuotere il mio compenso in tortellini: un vero e proprio lusso. Da questo punto di vista devo ritenermi fortunato, non dovrò addentrarmi nell’intricata giungla interpretativa dell’oscuro Dpcm del 26 aprile, fatta di congiunti e affetti stabili, amicizie più o meno valide. Si tratta pur sempre di zii: uno dei fratelli di mia madre e sua moglie. Posso stare ragionevolmente tranquillo…ma sarà meglio compilare un’autodichiarazione a prova di controlli.
Mi piace immaginare un giorno in cui potrò e dovrò ridere di questi limiti, di questi adempimenti incomprensibili ai più.
A pensarci bene, è davvero incredibile come e quanto è stata limitata la nostra libertà di movimento. Un anno fa visitavo Bucarest con i miei amici grazie ad un volo low cost e munito solo di una semplice carta di identità. Oggi non posso farmi una passeggiata per raggiungere il centro della città in cui vivo. Siamo passati, nel giro di pochissimi giorni, dalla libertà totale e mai realmente apprezzata del Patto di Schengen alla reclusione nelle nostre case. Un cambiamento repentino, quasi crudele. Quando – si spera! – torneremo a spostarci nella nostra Unione Europea senza confini interni, sapremo davvero capire e apprezzare quale immenso privilegio questo rappresenti e come sia necessario difenderlo strenuamente?
Con questa domanda, e questa speranza in testa, vi lascio ad un altro dolce e piacevole racconto per tutti i bambini resistenti e resilienti in questa quarantena. La firma questa volta è di Eleonora Zaino, collaboratrice di Bottega Editoriale, ed è un piacere lasciare spazio a lei ed alle sue parole così ben scritte.
Una visita da… brivido!
Attraverso i vetri leggermente appannati filtrava un cono di luce pallida che, facendosi largo a fatica tra le ombre scure che danzavano tra i banchi e le sedie, rischiarava l’angolo dell’aula dove campeggiava massiccia la vecchia cattedra, ancora ingombra di cianfrusaglie colorate. È triste una scuola senza bambini. Di solito, da una parete all’altra, rimbalzano le loro voci festanti nel quarto d’ora di ricreazione, oppure si tende un silenzio carico di aspettative quando la maestra Elisa racconta una delle sue storie.
Francesco, in quella mattinata soleggiata di inizio marzo, pensava proprio alla maestra Elisa e alle sue storie. La sua compagna di banco, la piccola Chang con gli occhi a mandorla, preferiva invece le lezioni di scienze. Diceva che da grande sarebbe diventata un’importante scienziata e avrebbe svelato tutti i misteri ancora irrisolti della natura. I genitori di Chang erano nati in un paese lontano, la Cina, da cui quel virus tanto simile a un raffreddore, ma molto più pericoloso, si era propagato con la velocità di un fulmine nel mondo intero. I grandi, la maestra Elisa e la TV lo chiamavano Coronavirus.
«Che nome buffo!», esclamò tra sé Francesco mentre osservava distrattamente il grosso gatto rosso della nonna, Pigro, che si crogiolava al sole in giardino. «Com’è possibile che gli adulti siano così spaventati da un raffreddore che ha un nome così buffo?».
Chang, però, gli aveva raccontato che nel suo paese d’origine Coronavirus aveva avuto effetti catastrofici sulla popolazione e sull’economia. Chang sapeva sempre troppe cose. A Francesco, per esempio, non era molto chiaro cosa fosse l’“economia”. Eppure, dal giorno precedente, quando le scuole erano state chiuse, interrompendo sul più bello le storie della maestra Elisa, un pensiero gli frullava per la testa lasciandolo pensieroso e preoccupato. Aveva sentito dire che Coronavirus colpiva soprattutto gli anziani e le persone malate…
Lo distrasse nonna Colomba, la cui testa faceva capolino dall’entrata della veranda attirando anche l’attenzione di Pigro, sempre in cerca di coccole e crocchette.
«Tesoro, non ti andrebbe un po’ di torta al cioccolato?», propose la nonna a Francesco, con voce allegra e delicata come una carezza. Francesco si precipitò all’interno, preceduto da Pigro che diventava improvvisamente atletico e scattante quando sentiva parlare di cibo. Dopo aver assaporato l’ultimo delizioso boccone di torta, con Pigro che ronfava sornione sulle sue ginocchia, Francesco scivolò in un piacevole torpore. Mentre sonnecchiava beato, qualcuno batté alla porta due volte con la violenza di un cannone, facendolo trasalire. Si alzò di scatto e corse all’ingresso. La scena a cui assistette lo lasciò senza fiato, tanto che dovette ingoiare l’urlo che gli era montato in gola. Un grosso mostro peloso a forma di palla gigante minacciava la nonna con i suoi tanti tentacoli, terrificanti e più numerosi di quelli di un polipo. Nonna Colomba, terrorizzata, indietreggiava annaspando.
Pigro soffiò svogliatamente, forse tentando a modo suo di proteggere la nonna. Il mostro però non degnava di uno sguardo il grosso gatto rosso: tendeva uno dei suoi lunghi tentacoli verso la nonna, come per stringerle la mano.
«Co-... co-... coronavirus?!», chiese balbettando Francesco, rivolto al velenoso intruso.
«Sì, giovanotto», rispose lui con voce cavernosa. «Sono proprio io! E, sai, ho una gran voglia di farmi una bella vacanza nelle cellule comode e confortevoli di un corpo umano… Mi ero intrufolato nelle vie respiratorie del giovane edicolante che ieri, al chiosco dei giornali, ha starnutito a pochi centimetri dal volto di tua nonna. Il corpo del ragazzo è troppo forte e il suo sistema immunitario, con tutti quegli zelanti e agguerriti globuli bianchi, mi caccerà fuori in malo modo da un momento all’altro. Così, ho colto l’occasione di quel simpatico starnuto per traslocare in un nuovo ospite più debole! Ihihih… ».
L’agghiacciante risata di Coronavirus, sempre più vicino alla nonna che ormai era quasi in trappola, gettò Francesco nel panico. Improvvisamente, però, il coraggioso nipotino ebbe un’illuminazione:
«Sto sognando!», realizzò tra sé e sé. «Devo soltanto sforzarmi di svegliarmi e quest’incubo finirà», pronunciò poi ad alta voce.
A quel punto Coronavirus prese a ridere ancora più forte e lo apostrofò dicendo: «Sciocchino, questo non è un incubo come gli altri! Non puoi decidere tu di svegliarti. Dovrai prima sconfiggermi nel sogno e poi, tornato alla realtà, potrai affrontarmi davvero!».
Disperato, Francesco fece appello a tutte le sue risorse. Era un bambino di soli dieci anni e le cose che sapeva erano così poche… Come avrebbe potuto salvare la nonna?
Tutt’a un tratto, un’altra lampadina si accese nella sua testolina caparbia. La maestra Elisa! Le storie!
«Se questo è un sogno, allora la situazione in cui mi trovo è molto simile a quella delle fiabe di cui la maestra ci ha tanto parlato», rifletté. La maestra Elisa aveva spiegato a lui, a Chang e agli altri ventuno bambini della quinta B, che le fiabe hanno una struttura precisa, in cui ogni personaggio ha un ruolo specifico. Francesco si immedesimò subito in quello dell’eroe e identificò Coronavirus con l’antagonista. La nonna era un po’ come la principessa da salvare e… Ecco! Quel che gli mancava era l’aiutante, il personaggio dai poteri magici che nelle fiabe viene in soccorso all’eroe! Ma in casa non c’erano che lui, Coronavirus, la nonna e Pigro. Pigro?! No, di certo un gatto, per quanto furbo, non avrebbe potuto salvare la nonna. Francesco era perplesso e cominciava a sudare freddo, sforzandosi disperatamente di uscire dall’incubo che lo intrappolava.
Proprio in quel momento si sentì chiamare a gran voce dall’altro lato del cortile, dove vide Chang che indossava un curioso camice bianco e stringeva una strana pergamena luminosa tra le mani.
«Chang!», urlò a sua volta Francesco. «Chang, sono imprigionato in un bruttissimo sogno in cui un virus gigante attacca mia nonna! Aiuto, Chang!».
Chang strizzò furbescamente i suoi vispi occhietti a mandorla, raggiunse Coronavirus sorprendendolo alle spalle e brandì contro di lui la pergamena magica che teneva in mano come fosse una spada. All’istante, Coronavirus si fece sempre più piccolo fino a scomparire. Francesco, frastornato e col fiato corto, si accertò che la nonna, nonostante lo spavento, stesse bene. Poi si voltò per abbracciare Chang e ringraziarla, incuriosito anche dal contenuto della pergamena. Chang gli sorrise e gli fece leggere con aria complice il decalogo magico contenuto nella pergamena...
Improvvisamente, un driiiiin deciso lo fece balzare sulla sedia. Era il forno della nonna, che mentre lui dormiva aveva preparato un altro dolce! Era sveglio, finalmente! Francesco tirò un sospiro di sollievo. Il mostro era stato sconfitto! Poi però si ricordò che nella realtà le scuole erano ancora chiuse, i contagi aumentavano e il virus era tutt’altro che scomparso.
La nonna accese la TV. Una scienziata con gli occhiali e un camice bianco come quello che indossava Chang nel sogno parlava di Coronavirus. Dopo qualche secondo, su uno schermo alle spalle della scienziata comparvero delle scritte. Una lista in dieci punti: un decalogo!
Francesco rammentò all’istante di aver letto quelle stesse parole sulla pergamena di Chang nel sogno:
1. Lavati spesso le mani
2. Evita il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute.
3. Non toccarti occhi, naso e bocca con le mani.
4. Copri bocca e naso se starnutisci o tossisci.
5. Non prendere farmaci antivirali né antibiotici, a meno che siano prescritti dal medico.
6. Pulisci le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol.
7. Usa la mascherina solo se sospetti di essere malato o assisti persone malate.
8. I prodotti MADE IN CHINA e i pacchi ricevuti dalla Cina non sono pericolosi.
9. Se sospetti di essere malato, chiama i numeri disponibili senza andare inutilmente al Pronto Soccorso.
10. Gli animali da compagnia non diffondono il nuovo coronavirus.
Francesco sorrise. Nel mondo reale, forse, non c’è la magia. Ma c’è la scienza e ci sono le storie. Non vedeva l’ora di poter tornare a scuola per raccontare tutto a Chang, la piccola scienziata con gli occhi a mandorla, e ascoltare una delle storie della maestra Elisa, che l’avevano salvato nel sogno e – ne era sicuro – gli sarebbero state d’aiuto sempre.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Andrà tutto bene?
Forse è meglio
non chiederlo più
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 28 aprile 2020
Andrà tutto bene ormai suona come una macabra ironia. No, non andrà tutto bene, lo abbiamo capito tutti benissimo. Anzi, è già andata parecchio male: il numero di vittime lo conferma drammaticamente. Soprattutto non sappiamo ancora immaginare il nostro futuro, facciamo fatica a definire i nostri prossimi passi, figuriamoci abbozzare dei progetti.
Diventa sempre più chiaro che dovremmo tutti restare a casa per il maggior tempo possibile, di sicuro qualche mese ancora: questo sarebbe il metodo più sicuro ed efficace per ridurre fortemente il livello del contagio, non per sconfiggerlo definitivamente. Per quello confidiamo in cure e vaccini ancora in via di ricerca e sviluppo.
Allo stesso tempo è drammaticamente evidente che non possiamo resistere a lungo: la tenuta dell’intero sistema economico e sociale è al limite. Alla lunga il bilanciamento tra tutela della salute e tutela del lavoro e dell’economia nazionale cesserà di essere uno scontro dialettico: questo perché il crollo economico provocherà inevitabilmente seri danni alla salute di tutti.
Sono questi i pensieri dominanti nella settimana aperta dal maldestro annuncio sulla fase 2.
Ad essi si accompagnano notizie poco rassicuranti sull’aumento del tasso di contagio in Germania, prima delle grandi nazioni europee a tentare una riapertura più o meno marcata. Insomma: finora non una bella settimana, almeno dal punto di vista del morale. Ma non sarà di certo l’ultima settimana a tinte fosche e dai pensieri pesanti: che fare, quindi?
Forse sarebbe il caso di non utilizzare più quell’andrà tutto bene. Imparare, stavolta definitivamente, ad accettare che stiamo vivendo un periodo sofferente, che durerà ancora lungo. Accettare che dovremo convivere a lungo con diverse e invasive rinunce. Liberare la mente da programmi a lungo termine, privilegiando il mantenimento della serenità nel nostro presente.
Fatto ciò, dovremmo dosare attentamente la mole di informazioni che quotidianamente decidiamo di inalarci.
Selezioniamo bene le fonti che riteniamo affidabili e interessanti, realmente in grado di aggiungere qualcosa alla comprensione dei complessissimi fenomeni che stiamo vivendo: il rumore, l’eccesso di notizie, vere o false che siano, può essere pericoloso; può diventare la zavorra in grado di abbattere il morale per l’intera giornata.
Impariamo a goderci ogni singolo pezzetto di libertà riconquistato: dalla prima passeggiata del 4 maggio alla prima cena con il nostro affetto stabile o il congiunto designato, al ritorno a casa per chi può.
È un elenco breve e scarno ma in continua evoluzione. Eppure dobbiamo iniziare ad armarci per bene, ad indossare una corazza di quelle piccole difese che abbiamo faticosamente riconosciuto, costruito ed impiegato negli ultimi mesi: ne avremo bisogno ancora a lungo. Utilizziamo questi giorni che ci separano dall’inizio della fase 2 per chiamare a raccolta tutte le nostre energie, tutto ciò che abbiamo imparato nelle nostre singolari e personalissime quarantene. Nella fase che verrà saremo un po’ diversi, non necessariamente migliori di prima: l’importante è farsi trovare pronti.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Quel pasticciaccio
brutto del Dpcm:
tutto da bocciare?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedì 27 aprile 2020
Qualche giorno fa ci eravamo detti dell’importanza che il Governo rispettasse quel patto tacito stretto con i cittadini. La promessa, più o meno implicita, che si dovesse tenere duro e resistere fino al 3 maggio, mantenendo intatte tutte le severe restrizioni imposte da più di due mesi. In cambio di questa ulteriore tenuta e prova di resistenza, avremmo dovuto ricevere un segnale, l’indicazione e la definizione di una fase caratterizzata da nuovi, piccoli attimi di libertà riconquistata. E quindi avremmo visto il 4 maggio come l’inizio di un nuovo percorso, ancora lungo e pericoloso, ma comunque progressivo, in evoluzione.
Desideravamo quel segnale lì e forse l’avevamo caricato di tante aspettative non tutte giustificate o realistiche. Ieri abbiamo ottenuto qualcosa, nell’ormai nota formula della conferenza stampa del Presidente del Consiglio, con tanto di domande dei giornalisti in videochat.
Il segnale c’è stato? Il patto è stato rispettato? Non è facile rispondere con decisione a questi quesiti e forse è proprio questo il problema principale dell’annuncio del Governo. Forse però, per rispondere per davvero, è necessario chiedersi un’ultima cosa: era possibile fare di meglio senza scontentare nessuno?
Ed è da quest’ultima domanda che bisogna partire, dandosi subito una risposta: no, era impossibile accontentare tutti.
Questa crisi ha investito la nostra società in tutti i suoi aspetti, molteplici e complessi. Ogni settore, ogni ambito, ogni mondo del nostro piccolo universo economico, politico e sociale è stato brutalmente stravolto dalla pandemia e ancora non si intravedono con precisione gli effetti che questa avrà a medio e lungo termine. Il risultato è che è difficile analizzare solo una parte di questo problema senza considerare le altre inscindibilmente legate. E così, quando si decide di tenere aperte alcune attività economiche e di chiuderne altre, subito ci si accorge che è necessario garantire l’apertura di altre attività ancora funzionali a quelle essenziali: e la catena diventa ancora più lunga e complessa. È tutto dannatamente complicato ed interconnesso.
Eppure governare è scegliere. Ed era chiaro sin da subito che decidendo di riaprire qualcosa si sarebbe contemporaneamente deciso di tenere chiuso qualcos’altro. Governare è scontentare.
Il fatto è che ognuno ritiene essenziale la propria piccola parte di mondo: il proprio lavoro, il proprio settore, la propria filiera. Ognuno ritiene, legittimamente, determinante il proprio punto di vista, il suo contributo alla società a cui appartiene. Non vedere incluso in un elenco di attività essenziali quel piccolo ma determinante pezzetto a cui ci si sente di appartenere, viene avvertito come un tradimento imperdonabile.
E così era inevitabile che il discorso di Conte venisse immediatamente accompagnato da una marea di domande insoddisfatte: perché non ha parlato della Scuola? Perché non ha detto nulla sulla Ricerca? Nemmeno una parola sulla Giustizia, sulla riapertura dei luoghi di culto? E perché nemmeno un cenno all’importanza del settore termale o dei personal trainer?
No: una conferenza stampa di qualche minuto su un decreto così complesso, per i temi e le decisioni trattate, avrebbe inevitabilmente scontentato qualcuno.
A ciò si deve aggiungere una verità antipatica, quasi inaccettabile nella sua sincera inadeguatezza: navighiamo a vista. Forse non completamente, ci piace immaginarlo, ma stiamo comunque andando a tentoni in un percorso inesplorato. Il fatto che chi ci governa non abbia saputo trovare una soluzione più immediata, più semplice e comprensibile ci irrita: ci siamo fidati, abbiamo rinunciato a tanto, dove sta la nostra legittima ricompensa? Non riusciamo ad accettare la gradualità di un percorso ancora lungo, difficile e terribilmente insicuro.
Ora però è necessario rispondere ad altre domande ancora: il segnale ha funzionato? L’annuncio della fase 2 è stato efficace? Se dovessimo limitarci a valutare l’aspetto meramente comunicativo, il giudizio dovrebbe essere crudele.
Se l’obiettivo era quello di indicare un piano, una strategia, rassicurando la cittadinanza sulle settimane a venire, questo non può dirsi raggiunto. L’unico messaggio realmente trasmesso è che ci stiamo provando e che da un momento all’altro tutto potrebbe peggiorare. L’impressione è che l’allentamento di alcune restrizioni sia stato quasi estorto dall’insofferenza generale piuttosto che realmente sentito, valutato positivamente ed infine predisposto con convinzione.
Non sono mancate clamorose carenze nella stessa tecnica di redazione delle norme. A Palazzo Chigi disporranno senza dubbio di grandi giuristi, menti esperte nella redazione di atti amministrativi e normativi. Possibile che non sia stato valutato in anticipo il sicuro polverone che si sarebbe scatenato dall’utilizzo della parola congiunti?
Se per essere compresa ed attuata una norma ha bisogno di ulteriori circolari, precisazioni e chiarimenti, il risultato è semplice: non è una buona norma. Purtroppo sono episodi come questi che lasciano vivo il sospetto di una pericolosa e sconfortante sciatteria: un peccato imperdonabile in situazioni eccezionali come l’attuale.
Quindi il patto non è stato rispettato? No, non sarebbe corretto un giudizio così negativo. Dal 4 maggio si potrà comunque uscire di casa per fare una passeggiata, inspiegabilmente indicata come “attività motoria” da un pessimo linguaggio legalese. Si potrà ritornare alla propria residenza, al proprio domicilio anche se in un’altra regione. Potremo incontrare alcune persone a noi care dopo giorni interminabili di separazione e videochiamate. Inoltre non bisogna dimenticare che il nuovo Dpcm avrà efficacia solo fino al 18 maggio: ne seguirà un altro, si spera, con minori limitazioni. È la logica del vediamo come va. Una logica insufficiente, naturalmente fastidiosa ma, forse, semplicemente necessaria.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La quarantena vista
con gli occhi attenti
e severi dei bambini
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 26 aprile 2020
Come verrà interiorizzata questa quarantena dai bambini? Ricordo ancora con chiarezza l’11 settembre 2001. Stavo guardando la celebre Melevisione quando improvvisamente tutto si è interrotto e si è fatto più serio, più cupo. Ricordo l’edizione straordinaria del Tg3, di quell’aereo che si era schiantato su una di quelle altissime ed iconiche torri newyorkesi. Non dimenticherò mai il secondo aereo, il dramma vissuto in diretta. Anche se non ero in grado di capire ogni implicazione di quel massacro, ero consapevole di stare vivendo un momento fondamentale. Avevo capito che stavo osservando il Presente farsi Storia sotto i miei stessi occhi.
Sono sensazioni ed immagini che non mi hanno mai abbandonato e fanno parte del mio piccolo e personale bagaglio di eventi storici registrati e vissuti direttamente.
Per questo mi chiedo come starà vivendo la mente di un bambino questi giorni di quarantena, questa reclusione collettiva così improvvisa, strana e soffocante. Cosa staranno registrando gli occhi attenti e severi dei bambini di tutto il mondo? Quali sono le immagini che verranno interiorizzate e che si sedimenteranno laggiù, nel luogo magico e misterioso dove prende forma la coscienza di un individuo?
Con queste domande che ronzano in testa vi lascio al bel racconto di Pietro Zambrin, pensato e dedicato ai bambini ma non solo: è una lettura dolce e necessaria per tutti noi.
Cari bambini e care bambine,
so che negli ultimi giorni avete sentito mamma e papà parlare tutto il tempo di questa brutta bestiolina che si fa chiamare ‹‹Coronavirus››. Ora, vi avranno detto che è una malattia che nessuno al mondo ha mai visto prima, ed è per questo che fa così tanta paura; ma se adesso mi ascoltate attentamente, io vi dirò un segreto. Sto per raccontarvi una storia che è successa tantissimi anni fa, ed io so che è vera, perché me l’ha raccontata qualcuno di cui mi fido tantissimo: il mio cagnolino! Lui dice che una sua parente lontana lontana ha vissuto in prima persona quello che vi vado a raccontare, e da allora ha tramandato questa storia nella sua famiglia, per tutti questi anni, fino ad oggi.
Questo racconto, come vi ho già detto, è ambientato in un’epoca molto lontana, quando sulla Terra non c’erano ancora uomini e donne, ma solo tanti begli animali; non esistevano città, treni e palazzi, ma soltanto foreste, fiumi e montagne. Una giovane femmina dell’animale che a noi sembrerebbe una volpe, che tutti chiamavano V, viveva con la sua famiglia in una grande e remota foresta, dispersa in mezzo a un continente che ormai non esiste più. È lei la lontanissima parente del mio cagnolino. V aveva all’epoca un anno e mezzo, che nell’età delle volpi sarebbe circa la vostra età, e la sua pelliccia era dorata e i suoi occhi azzurri come il cielo. La sua famiglia abitava in una piccola ma comoda tana nella foresta, e aveva molti vicini di tana. In questa zona del grande bosco, dove il fiume fa un’ampia curva, si era infatti formata una comunità nella quale viveva in armonia una grande quantità di animali di tante specie diverse. La Comunità degli animali non aveva leggi e non sapeva cosa volesse dire quella parola. C’era una sola grande regola, che tutti chiamavano la Verità, ed era questa: il bene della Comunità intera è più importante del bene di qualsiasi singolo animale. In questo fiorente angolo di foresta c’era cibo, acqua e spazio a volontà per tutti, per cui a nessun animale era mai venuto in mente di mettere in dubbio la Verità. Anche tutti gli animali che non abitavano lì, ma passavano di tanto in tanto, la condividevano, perché vedevano che seguendo la Verità si viveva meglio.
Ebbene: a fine inverno di un anno che ancora non si contava, successe qualcosa di strano. Una mattina la mamma di V, la signora V, svegliandola le disse: ‹‹Buongiorno, tesoro mio. Ora continua a dormire, oggi è vacanza e non si va a scuola››, e lei ne fu contenta e sonnecchiò ancora un po’. Quando si alzò, però, vide che mamma non era più in casa e le sembrò molto strano che fosse andata al lavoro in un giorno di vacanza. Chiese allora a papà di accompagnarla alla prateria, dove giocava tutti i giorni con gli altri giovani animali, ma lui si rifiutò.
‹‹Perché?›› chiese V.
‹‹Non oggi, volpina. Cerca di portare pazienza››.
‹‹Ma perché no, papà? Perché?››, continuava a domandare V, finché il signor V, non volendole mentire, le raccontò la verità.
‹‹Ieri sera, i saggi della Comunità hanno deciso che da oggi tutte le scuole saranno chiuse, per tutto il mese. Nessuno può uscire dalla tana e la caccia di oggi dovrà essere più lunga e fruttuosa del solito perché non si caccerà più per un mese. È per questo che mamma è uscita presto e non la vedrai per un po’››.
‹‹Non vedrò più mamma?!››.
‹‹Ma certo che la rivedrai, volpina,›› le disse il signor V sorridendo e lisciandole la pelliccia, ‹‹la rivedrai a fine mese e le darai baci per tutto il tempo che non vi siete viste››.
‹‹Ma perché, papà? Che succede?›› tornò a domandare V. Il signor V vide che si stava preoccupando. Cominciò allora a spiegarle tutto, per filo e per segno, perché V capisse le cose che si trovava a vivere. Le spiegò che era arrivata una malattia nuova nella Comunità, che tutti gli animali chiamavano ‹‹il mostro invisibile››, e che nessuno aveva mai visto prima. I corpi degli animali non erano pronti a combattere il mostro invisibile, per cui lui saltava da un animale all’altro molto velocemente e senza che lo si potesse fermare. Se le scuole fossero state aperte, e tutti avessero scorrazzato liberamente per la foresta come sempre, presto tutta la Comunità sarebbe stata attaccata dal mostro invisibile. La cosa peggiore era che questo mostro era particolarmente aggressivo con alcuni animali: il vecchio lupo che non cacciava più, la vecchia aquila che non volava più, il vecchio coccodrillo che guardava gli altri dalla riva del fiume. ‹‹Anche nonno Volpone, che vive nella tana qui di fronte›› aggiunse papà. Con gli abitanti più vecchi e deboli della foresta la malattia era più cattiva, e li faceva stare molto male. Con gli animali più giovani e forti, invece, il mostro era meno dispettoso.
‹‹E mamma? Mamma è forte, vero?›› chiese fiera V.
‹‹Mamma è una cacciatrice››, le rispose papà ‹‹perciò ha dovuto pensare al bene di tutti. Come tutti i cacciatori e le cacciatrici, è uscita nella foresta affinché la Comunità abbia abbastanza per tutto il mese, e nessuno debba tornarci. Mamma è una volpe coraggiosa››.
V non si era ancora tranquillizzata.
‹‹Ma starà bene, vero papà?››.
‹‹Starà bene, non ti devi preoccupare›› la rassicurò il signor V. ‹‹Quando la caccia sarà finita, i cacciatori e le cacciatrici torneranno qui, e i nostri medici li controlleranno. Se il mostro ha attaccato qualcuno di loro, saranno curati e torneranno dalle proprie famiglie. Ci vorrà solo un po’ di tempo››.
Allora il signor V le raccontò altre cose che i saggi della Comunità avevano deciso. Le disse che si stava avvicinando la primavera, e, come tutti gli anni, presto molti uccelli sarebbero venuti in quella parte della foresta per trovare abbondanza, e per lo stesso motivo molti pesci avrebbero risalito il fiume. Per non parlare di quelle strane scimmie che erano scese dagli alberi e avevano cominciato a girare per il continente. Ebbene: i saggi avevano trovato il modo di contattare tutti questi animali per chieder loro che aspettassero a venire nel bosco, perché se il mostro avesse avuto modo di attaccarli, loro avrebbero potuto spargerlo per tutto il continente, mettendo a rischio la salute di tantissimi animali. Tutti avevano accettato, perché avevano imparato a condividere la Verità.
‹‹Scusa papà››, lo interruppe V ‹‹ma c’è una cosa che non capisco. Se gli animali possono essere curati contro il mostro invisibile, perché non possiamo uscire dalla tana?››.
‹‹Volpina mia,›› le rispose il signor V ‹‹abbiamo ottimi medici in questa parte della foresta, ma se tutta la Comunità dovesse ammalarsi nello stesso momento, non ce ne sarebbero abbastanza, e non tutti gli animali potrebbero essere curati. Capisci? Il vecchio lupo, la vecchia aquila ed il vecchio coccodrillo potrebbero non farcela. Persino nonno Volpone. Per questo è importante cercare di non avere molti contatti tra di noi››.
V fece un cenno con il muso.
‹‹Va bene, papà. Però...››.
‹‹Cosa, V?››.
‹‹Hai detto che il mostro invisibile è meno dispettoso con gli animali giovani come me, anche se ci prende, è così?››.
‹‹È così›› rispose il signor V.
‹‹Allora perché non posso andare alla prateria a giocare con i miei amici?››.
‹‹Lascia che ti faccia una domanda›› iniziò papà. ‹‹Vuoi bene a nonno Volpone, vero, volpina?››.
‹‹Certo, papà, gli voglio tanto bene››.
‹‹Esatto. A nonno Volpone vuoi tanto bene quanto ne vuoi a mamma e papà, tanto bene quanti sono gli alberi nella foresta e le gocce d’acqua nel fiume. I tuoi amici, il falchetto, il lupetto e la scimmietta, vogliono lo stesso bene ai loro nonni, alle loro mamme e ai loro papà, e non vogliono portar loro il mostro, come tu non lo vuoi portare a nonno Volpone. Per non portare il mostro invisibile alle persone a cui vogliamo più bene, ma anche a tutti gli altri, è importante che restiamo nella nostra tana il più possibile: solo così possiamo esserne sicuri. In questo mese, chi è già malato e i pochi altri che saranno attaccati dal mostro, tutti loro potranno essere curati al meglio, per la gioia delle loro famiglie. Ricorda la Verità, V: il bene della Comunità intera è più importante del bene di qualsiasi singolo animale. Perciò noi ce ne stiamo buoni buoni nella nostra piccola tana e aspettiamo che tutto passi. Lo so che è difficile per voi giovani, ma questo vostro piccolo sacrificio farà il bene di tantissimi altri animali che altrimenti potrebbero essere in pericolo. Se ascoltiamo i saggi e ci comportiamo bene, questo periodo sarà solo un brutto ricordo, una storia che potrai raccontare ai tuoi figli e ai tuoi nipoti. Capisci ora?››.
‹‹Sì, papà. Ora ho capito›› rispose V, risoluta.
Quella sera, V si addormentò serena. Le mancava mamma e le mancava nonno Volpone, ma sapeva che aspettare era l’unico modo per essere sicura che stessero bene. Le mancavano anche tutti i suoi amici, ma in qualche modo era contenta di non vederli, perché aveva capito che il bene della Comunità intera era molto più importante della sua voglia di uscire a giocare nella prateria.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Ora e sempre
Resistenza!
Il nostro vaccino
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 25 aprile 2020
L’immagine è quella del Presidente della Repubblica che si erge solitario con il volto coperto da una mascherina chirurgica. Sullo sfondo il marmo solenne dell’Altare della patria in Piazza Venezia, a Roma. La dignità di Sergio Mattarella nel celebrare questo 25 aprile così anomalo rimarrà impressa negli occhi e nelle menti di tutti noi per diversi anni a venire. È un’immagine che riassume perfettamente, con la potenza tipica dell’arte fotografica, il significato di questa festa della Resistenza in quarantena.
A Bologna il 25 aprile è una ricorrenza realmente sentita e festeggiata, specie nel quartiere del Pratello, vera e propria cittadina con una propria identità nella città stessa. Le immagini tipiche del 25 aprile bolognese sono fatte di migliaia di donne e uomini di tutte le età in piazze e vie stracolme, cariche di musica, spettacoli, bandiere, banchetti.
Da sempre Bologna ricorda i suoi partigiani e la sua Resistenza con un calore profondo e particolare, a cominciare dal ricordo tangibile lasciato dalle foto nella bacheca di fronte al Nettuno: centinaia di volti in bianco e nero, prevalentemente giovani e giovanissimi, uno dopo l’altro. Sono gli occhi di chi ha lottato ed è morto per combattere il nazifascismo, un nemico che ormai si tende a dimenticare con troppa facilità, se non addirittura a giustificare e sostenere. Bologna è una città profondamente ed intimamente antifascista e democratica ed il 25 aprile è nelle sue corde, definisce la sua anima e la sua identità. Proprio per questo ero curioso di vedere come la città avrebbe vissuto questa ricorrenza in quarantena, privata di gran parte di ciò che la rendeva così calorosa e partecipata. Non sono rimasto deluso.
Proprio al Pratello, i portici sono stati ricoperti da centinaia di foto con i volti dei cittadini, che non hanno voluto rinunciare a presenziare, in qualche modo, quelle vie che ogni 25 aprile si trasformano in un palcoscenico in festa.
Gli autobus non hanno rinunciato, anche questa volta, ad issare sotto i loro parabrezza le bandiere tricolore.
Oggi pomeriggio, anche vicino a casa mia, i balconi si sono riaccesi dopo diverse settimane di silenzio: Bella ciao e l’Inno nazionale hanno fatto da padroni e hanno ravvivato un pomeriggio quieto ma più sereno del solito.
In qualche modo la città ha reagito, non ha voluto rinunciare completamente alla sua festa. Un 25 aprile che si è fatto prevalentemente questione privata tra le mura di casa ma che ha trovato il modo di uscire e far sentire la sua voce.
Le peculiarità di questa festa vissuta in questo modo così particolare, hanno un po’ limitato il solito rumore e la fin troppo nota polemica sul significato della Resistenza e della giornata ad essa dedicata. Per fortuna: in un periodo fatto di così tanto stress e ansie quotidiane, si sarebbe potuto fare completamente a meno della solita retorica revisionista fascista che ogni anno torna a fare capolino. Non ci siamo riusciti del tutto, ma almeno abbiamo ridotto un po’ quel rumore fastidioso ed irrispettoso.
È comodo e contraddittorio inneggiare alla libertà e criticare le misure restrittive del Governo e, allo stesso tempo, filosofeggiare sul ruolo “benefico” del fascismo nel nostro Paese e sulla necessità di figure forti e risolutive. Evidentemente la quarantena confonde un po’ le idee e lo stare troppo a casa limita seriamente le attività neuronali.
Invece abbiamo bisogno di punti di riferimento positivi, sicuri esempi sui quali contare per resistere nelle giornate che ci attendono. Questi vanno ricercati nel mito fondativo della nostra democrazia, nata dal sacrificio di chi ha lottato contro il regime fascista ed immaginava una nuova Italia più libera e più giusta. Certo, sarà anche questa una sorta di retorica, ma è pur sempre una retorica positiva e della quale abbiamo bisogno in momenti gravi e drammatici come l’attuale.
Questo 25 aprile è stato difficile ed unico ma non meno sentito. Un 25 aprile che mi è piaciuto molto, un vaccino benefico che non dobbiamo creare dal nulla ma che già possediamo.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Tutte quelle piazze
da riappropriarci.
Presto. Prestissimo!
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 24 aprile 2020
Sembra quasi una beffa. Proprio quando il nostro Paese aveva insperabilmente riscoperto il ritorno delle piazze sulla scena politica, queste sono state svuotate e silenziate da un nemico insospettabile. Bologna e la sua Piazza Maggiore, luogo di nascita del movimento delle Sardine, oggi sono mute e deserte, ligie al rispetto delle misure restrittive imposte per il contenimento del Coronavirus.
Da anni non si vedeva una partecipazione spontanea così dirompente, genuinamente politica e desiderosa di dare un contributo nuovo e positivamente destabilizzante. Nell’ultimo periodo la forza propulsiva dei primi mesi era un po’ venuta meno, ma il significato politico di quella marea di gente spontaneamente riunitasi in centinaia di piazze in tutta Italia non può essere sottovalutato. Dopo anni di ritiro nella sfera privata, di una politica combattuta prevalentemente attraverso i social network, votazioni su blog e articoli di giornale, il ritorno della fisicità della piazza e del movimento ideale che questa comporta avevano dato nuova linfa vitale al dibattito pubblico.
Tutto questo è stato inevitabilmente soffocato dalla chiusura forzata di ogni cittadino nella propria sfera privata, dentro le quattro mura di casa. Viene da chiedersi se una volta finito tutto questo si ritornerà al tempo della partecipazione in piazza, delle manifestazioni e dei momenti di aggregazione collettiva, politica e non.
In sottofondo si avverte, proprio ora che ne siamo stati momentaneamente privati, l’inscindibile rapporto tra libertà di espressione e libertà di aggregazione. Tra pensiero politico e piazza, contatto fisico, unione e movimento di corpi tangibilmente uniti. La voglia di partecipare, di riunirsi e di offrire il proprio contributo critico e politico a questa crisi è sempre encomiabile ed assolutamente necessaria.
Le numerose riunioni che vengono tenute virtualmente, attraverso videochiamate di gruppo ed altri strumenti di aggregazione online sono un baluardo fondamentale in questi giorni di libertà limitate. Fanno ben sperare, perché confermano l’insopprimibile necessità di partecipare di fare politica e di esercitare i propri diritti in qualunque modo, pur con tutti i limiti del caso. Ma è bene non dimenticare l’importanza delle piazze, della libertà di riunione costituzionalmente garantita.
Manifestazioni spontanee, cortei, comizi, assemblee, comitati, cerimonie, convegni…sono il sale della nostra democrazia, definiscono la nostra cittadinanza. Non dimentichiamolo e, appena possibile, torniamo a riempire quelle piazze. C’è in gioco l’anima stessa della nostra Repubblica.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La crisi sanitaria
e il vittimismo
provinciale italiano
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 23 aprile 2020
Non sono mai stato un nazionalista, un fervente patriota. Non sono un “sovranista”, per usare un termine tristemente di moda negli ultimi anni. Ho sempre avuto profondo rispetto per le mie radici, a partire da quelle locali e regionali, risalendo a quelle nazionali e, per finire, a quelle europee. Tutte queste identità si sommano tra loro e sono perfettamente compatibili, non alternative.
Forse anche per questo non ho mai ceduto troppo facilmente alle sirene del Made in Italy, a quella retorica che individua nell’italianità una garanzia di qualità, un di più naturale ed ovvio. Nazionalismo e sciovinismo non fanno parte del mio Dna, prevalentemente internazionalista ed europeista, improntato al desiderio di una società aperta, necessariamente inclusiva e multiculturale. Allo stesso tempo, ho sempre rifiutato un altro atteggiamento, anche questo, in qualche modo, tipicamente italiano, e cioè quello che definisco il vittimismo provinciale. Un modo di pensare che in questi giorni sta dando il meglio, e quindi il peggio, di sé.
Il vittimismo provinciale è quella corrente di pensiero che si finge sveglia e intelligente, informata su come vanno le cose nel mondo, e basata su un punto fermo: i paesi esteri, specie alcuni, sono sicuramente e necessariamente più seri dell’Italia. In qualsiasi campo, di fronte a qualsiasi problema o emergenza, faranno sicuramente meglio altrove che qui da noi. Questa esaltazione dell’estero, spesso acritica ed ingenua, nasconde in realtà quello stesso provincialismo che apparentemente vorrebbe contrastare.
Ultimamente è parecchio diffusa l’idea che l’Italia non abbia affrontato adeguatamente l’emergenza sanitaria che l’ha investita violentemente. In particolare, si contesta l’incapacità del nostro Paese di reagire e di ripartire: in sostanza, di iniziare la promessa e desiderata fase 2. Il tutto avendo come punto di riferimento altri paesi, spesso europei, che avrebbero saputo reagire con più decisione e più efficacia. Ma qui siamo in Italia, mica siamo in… è un grande classico intramontabile: a quei tre puntini spesso si aggiunge, come in questi giorni, la Germania, esempio perfetto di una relazione odi et amo. Altre volte si cita il Regno Unito, in misura minore la vicina Francia. Può cambiare la nazione utilizzata come termine di paragone ma il concetto è lo stesso: ci sarà sempre uno stato che ha saputo fare, sicuramente ed indubbiamente, meglio del nostro.
Il fatto è che questo non è vero, soprattutto di fronte alla pandemia attuale. Basta informarsi un po’ di più, leggere direttamente i giornali stranieri saltando le riletture fatte da alcuni giornalisti nostrani o guardando direttamente i telegiornali d’Oltralpe. Il risultato? Molto spesso le critiche avanzate dai giornalisti stranieri verso i loro governanti sono praticamente identiche a quelle che già conosciamo e rivolgiamo noi in Italia. I problemi, le criticità sottolineate assomigliano molto alle nostre: e come potrebbe essere diversamente di fronte a nemici comuni così inediti e ancora poco conosciuti come il Coronavirus e le sue conseguenze economiche e sociali? Spesso si può rimanere sorpresi di quanti errori siano stati fatti altrove, tirando un sospiro di sollievo per il pericolo scampato qui da noi.
Questo cosa significa? Mal comune mezzo gaudio, tanto peggio tanto meglio e siamo contenti così? Evidentemente no. Così come è sempre necessario e vitale mettere in discussione le scelte fatte da chi ci governa, specie in un momento critico e drammatico come quello attuale. Ma le critiche devono basarsi su una seria osservazione del contesto che ci circonda, del momento che stiamo vivendo. Esaltare un fantomatico “modello italiano” elogiato ed imitato da tutti è pura fantasia, una favola che ci piace sentirci raccontare. Ma assumere che l’Italia abbia sbagliato tutto e stia continuando a farlo, mentre altrove hanno trovato “formule magiche” per risolvere ogni problema, è vittimismo. Che conferma una certa provincialità nel modo di pensare e di immaginare i rapporti tra nazioni.
Possiamo decisamente farne a meno.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Le lenti degli artisti.
Perché abbiamo
bisogno di loro
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 22 aprile 2020
Viviamo un momento incredibile, sotto tutti i punti di vista. Un periodo che sta cambiando il mondo che ci circonda, le persone attorno a noi e il nostro stesso modo di vedere e vivere le cose. Cosa verrà fuori da questi mesi? Quali saranno le storie che verranno raccontate? Quali film e libri verranno girati e scritti sulla base delle emozioni e dei contrasti provati in questi giorni? Non possiamo saperlo già adesso. Abbiamo però la certezza che quella meravigliosa capacità dell’essere umano, e cioè interpretare la realtà che lo circonda trasformandola in arte, si muoverà vigorosamente e con intelligenza.
In questi giorni ho letto diverse interviste rilasciate da artisti vari: attori, scrittori, registi e pittori raccontano come stanno vivendo la quarantena e come questo momento stia influendo sul loro processo creativo, sulla loro ispirazione. Ovviamente le reazioni sono tra le più varie, inscindibilmente legate alla personalità e alla natura del singolo artista. Nonostante ciò, mi sembra di avvertire un sentimento generale più o meno comune: un certo malessere, la coscienza di sentirsi momentaneamente bloccati e/o inadeguati per poter descrivere, trascrivere e trasmettere le contorte e anomale sensazioni di questi giorni. Allo stesso tempo, la voglia profonda di forzare questo blocco, di avviare il prima possibile una fase 2 espressiva: reagire e liberare le propria creatività. Per questo motivo sono molto curioso e fiducioso su ciò che potremo leggere, vedere e sentire nei prossimi mesi.
Una crisi di tale portata e intensità non potrà non avere effetti anche nell’Arte, nella Letteratura e nella Cinematografia. Abbiamo bisogno che gli artisti mettano in moto il loro talento e si esprimano quanto prima: ci servono le loro lenti per leggere questo nuovo ed incognito periodo storico.
Ce ne accorgiamo tutti di quanto sia necessario tutto questo, quanto prima: basta guardare, in questi giorni, qualche film girato prima o qualche spot pubblicitario di qualche mese fa. Tutte quelle immagini, quelle storie raccontante in quel modo, in quei contesti, oggi sembrano quasi stonate. Tutti quegli abbracci, quei luoghi affollati, quei viaggi e quella vita frenetica, rischiano quasi di infastidirci. Certo: non significa che non proviamo piacere nel vedere un bel film o che dovremmo necessariamente farci raccontare solo storie basate sulle attuali ansie e restrizioni. No, sarebbe terribile ed ulteriormente asfissiante. Eppure si nota che manca qualcosa, c’è qualcosa che sfugge e che il prima possibile dovrà essere reinterpretata e raccontata con le lenti giuste, con la giusta sensibilità.
Verrà fuori qualcosa di molto bello, l’Arte derivante da tutto questo assurdo periodo saprà sorprenderci: io sono fiducioso.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Abbiamo bisogno
di decisori politici
non di task force
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 21 aprile 2020
Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Da anni la cosiddetta antipolitica fa parte del dibattito pubblico, è una delle voci più riconosciute e consistenti nella nostra opinione pubblica. La retorica contro i politici di professione, condivisa o meno, fa parte del nostro Dna di cittadini di questa evanescente Terza Repubblica.
L’idea è semplice: chi vive di politica, chi ha passato la vita a farsi eleggere a questo o a quell’incarico politico è sostanzialmente una persona che non ha mai lavorato. Proprio per questo non meriterebbe di ricoprire ruoli fondamentali come quelli di Presidente del Consiglio o ministro. A questo concetto spesso si associa un’altra idea ben chiara: chi è semplicemente un politico non può dirigere ministeri come quello della Sanità o dell’Istruzione. Tali ruoli dovrebbero spettare a specifici tecnici del settore, a medici, professori universitari o dirigenti scolastici. Forse l’esperienza di questi giorni può insegnarci qualcosa su questo punto.
Fortunatamente la sete di certezze, o di qualcosa di simile, tipica di questi mesi di emergenza sanitaria ci ha portati a fidarci di esperti, scienziati, persone con un passato ed un presente di solidi studi e ricerche. Per un momento abbiamo domato le voci insistenti e rumorose dei tuttologi del web, dei saccenti e degli arroganti che tutto credono di sapere senza mai mettersi in dubbio, disprezzando le competenze altrui. Oggi è il trionfo dei divulgatori e degli esperti: i tecnici hanno il loro meritato momento di gloria e di visibilità e, per una volta, ciò non viene visto come un sopruso o un inganno a danno della gente.
Allo stesso tempo, ci accorgiamo sempre di più di come ciò non basti, non sia sufficiente. Il proliferare di task force e di comitati tecnico-scientifici a qualsiasi livello, locale, regionale e nazionale, viene visto come un pericoloso rimpallo di responsabilità: un voler scaricare continuamente su altri la patata bollente. Lamentiamo sempre di più la mancanza di decisioni, di sintesi, di leadership.
Stiamo di fatto rimpiangendo la presenza di politici, di veri esperti dell’indirizzo politico-amministrativo. Questa è la conferma più evidente di ciò che dovrebbe essere chiaro ma che, sempre più spesso, è stato messo in discussione: il ministro della Sanità, per fare l’esempio più significativo, non deve per forza e necessariamente essere un medico; così come il ministro dell’Economia e delle Finanze non deve essere a tutti i costi un luminare della facoltà di economia o il Ministero dell’Interno non deve essere guidato solo da un prefetto.
Certo: non ci sarebbe nulla di male al riguardo, anzi. Eppure non deve essere un’equazione necessaria. Per ricoprire quei ruoli di vertice politico c’è bisogno prima di tutto di politici. E cioè di persone in grado di valutare interessi contrapposti, individuare un indirizzo, soppesare pro e contro e prendere delle decisioni. E sostenerne tutte le responsabilità connesse. Nel fare ciò, il politico di professione deve senz’altro farsi consigliare bene dai migliori esperti del settore. Deve seguire le indicazioni e le valutazioni delle donne e degli uomini che meglio interpretano le eccellenze nella Sanità, nella Scuola, nel Lavoro ecc. Deve creare apposite task force e raccoglierne i risultati. Ma è il politico che deve decidere: e non deve farsi scudo delle possibili incertezze dei suoi consiglieri e dei suoi comitati scientifici. Questa è la leadership.
Forse non abbiamo bisogno che tecnici competenti ricoprano determinati ruoli di indirizzo politico. Abbiamo bisogno che gli esponenti dei partiti indicati per quelle funzioni siano prima di tutto politici competenti ed abili nella loro stessa arte. E che abbiano fatto la gavetta giusta in quell’arena, non che siano stati scelti dal nulla da qualcun altro e che non riuscirebbero nemmeno a presiedere un’assemblea condominiale.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Penne, libri, lettere
La mia riscoperta
del gusto del cartaceo
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedì 20 aprile 2020
Oggi piove a Bologna. L’aria lì fuori è fresca, ripulita, invitante. Appena finisco di lavorare ne approfitto per fare un salto in cartolibreria: altro piccolo luogo sotto casa rubato dalla quarantena e solo da pochi giorni riconquistato. La cartolibreria è un luogo che mi ha sempre affascinato e che mi risulta per sua stessa natura simpatico, amico. Il più delle volte ci entro senza una richiesta in particolare, senza sapere di preciso se ho realmente bisogno di qualcosa. Ne esco sempre con almeno una penna, l’ennesima, blu. Oggi ne sono uscito con dei fogli e qualche bustina per lettere.
Da qualche giorno ho promesso che avrei preso carta e penna e avrei scritto e spedito una lettera. Ho sempre idealizzato il fascino della lettera, l’intimità che si crea nel mostrare la propria grafia, con tutti i suoi difetti e le sue forme; il piacere vintage di sapere che le tue parole non saranno immediatamente lette e che impiegheranno qualche giorno prima di raggiungere il destinatario che hai scelto. La lentezza della comunicazione, le parole da pesare accuratamente, l’attenzione a non macchiare la pagina: sono sensazioni che non proviamo più. In queste giornate anomale, e forse proprio grazie ad esse, è nata in me la voglia di sperimentarle.
Non è l’unica revival vintage che mi ha fatto visita ultimamente. Proprio nei giorni in cui riscopriamo gli aspetti positivi di tante tecnologie – giustamente – criticate negli ultimi anni, o delle quali abbiamo un po’ diffidato, io sto riscoprendo il loro esatto contrario. Ho sempre apprezzato gli e-book e gli e-book rider. Non ho mai provato quel rifiuto che caratterizza tanti lettori amanti della pagina cartacea. Pur comprendendo le loro motivazioni, e spesso sentendole anche mie, mi sono sempre detto entusiasta delle potenzialità della lettura digitale, accompagnata con lo strumento giusto. La possibilità di portare con sé una vera e propria libreria portatile, di leggere in autobus o in attesa ad una fermata un impegnativo mattone di Tolstoj o di Dumas…sono piaceri a cui non voglio rinunciare. Lettura digitale e classica non sono alternativi e in contrasto tra loro: possono integrarsi benissimo. E l’inimitabile piacere di andare in libreria può essere accompagnato dalla praticità e dall’immediatezza di avere un mondo di letteratura in un piccolo e-reader.
Stesso discorso per i giornali: sono abbonato all’edizione digitale di un quotidiano e di un settimanale e mi piace l’idea di sfogliarli la mattina presto, appena sveglio, per iniziare la giornata.
E poi che dire delle “app di messaggistica istantanea”: ne avrò almeno 3 sul mio smartphone.
Insomma: non sono mai stato un nostalgico a priori di immaginari bei tempi andati. Faccio un uso costante e pervasivo della tecnologia, del digitale, ogni giorno.
Eppure, questa quarantena mi ha portato a riscoprire il cartaceo. Il libro, come oggetto fisico da scegliere, conservare e da annusare mi permette di uscire di casa, andare in libreria e godere di quell’interazione con il librario, con quel luogo. Carta e penna mi portano ad avere una conversazione con il negoziante della cartolibreria: era da tempo che non ci vedevamo, è stato bello salutarsi, di nuovo. Il quotidiano è l’occasione per andare in edicola e salutare l’edicolante e sua figlia, giovanissima ma precisa e attenta lavoratrice.
Ma c’è dell’altro: passo quasi la totalità delle mie giornate letteralmente attaccato ad uno schermo: da quello più piccolo per i messaggi istantanei e le videochiamate, a quello più grande per lavorare e vedere un film. La necessità di mantenere i contatti con chi sta fuori casa mi costringe ad usare costantemente smarthpone, tablet e pc: non è necessariamente un male, anzi. Internet in questi giorni ci è amica. Ma sento la necessità di spostare i miei occhi e la mia testa altrove. Cerco altre sensazioni, altri stimoli.
Anche le pagine di questo diario spesso sono state trascritte altrove, con il favore di un bell’inchiostro blu. La lettera che ho scritto stasera ha sostituito la mail che avrei potuto scrivere. Umiliati e offesi, che inizierò a leggere più tardi, sarà trascritto su una carta ruvida, accompagnato da una bella copertina rossa e nera.
Sono gesti semplici e gratificanti: è un piacere riscoprirli. Sono piccoli aspetti di questa quotidiana Resistenza che mi piace aver raccolto e che intendo conservare.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Ma quando potrò
tornare finalmente
a casa, in Calabria?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 19 aprile 2020
Ma quando potrò tornare a Casa, in Calabria? Questo è il pensiero che ha preso il fastidioso vizietto di farmi visita regolarmente, in questi giorni.
Vivo a Bologna dal 2011, adoro questa realtà e mi ci trovo benissimo: è la città in cui ho studiato, mi sono laureato, ho iniziato a lavorare. Sono inscindibilmente legato a Bologna e non poterla vivere appieno in questi giorni fa davvero male. Spesso mi chiedo che sensazione provassi nell’andare in Piazza Maggiore o in tutti quei luoghi più volte frequentati e vissuti, anche di sfuggita. Sembrano sensazioni lontane, difficili da definire…eppure è passata solo qualche settimana. Facile a dirsi, difficilissimo da vivere.
Insomma, in qualche modo io sono Bologna, fa parte di me. Ma l’altra mia metà è sempre lì, viva e vegeta: Casa mia sta altrove. Regolarmente sento il bisogno di ritornare a Crotone, di riprendere contatto con le mie radici e con l’unica città a cui sento davvero di appartenere fino in fondo. E così, in questi anni, mi sono limitato a non risolvere questa divisione interiore, a non voler davvero fino in fondo scegliere tra queste due amanti. Fino ad ora sono riuscito a mantenere un certo equilibrio.
Adesso però mi chiedo quando potrò tornare a casa: perché sì, è fuori discussione che lo farò non appena sarà possibile. Leggo con attenzione ogni articolo, ogni retroscena, ogni commento sulla possibile fase 2, sulla graduale riconquista di una routine meno opprimente. In particolare mi informo su quei famosi spostamenti interregionali. Vivo in una delle regioni più colpite dal virus, seconda solo alla Lombardia. Immagino che ci vorrà parecchio tempo prima che la mia regione madre mi permetta di farle visita.
Non essere tornato a Crotone per Pasqua è una ferita che ha lasciato una piccola cicatrice, lo ammetto. Allo stesso tempo, sarà dura rinunciare alla festività di maggio per eccellenza della mia cittadina: la festa della Madonna di Capo Colonna. Un momento, anche per i non credenti, di grande e sincera aggregazione. Il momento in cui riconfermiamo la nostra appartenenza ad una comunità, attraverso la celebrazione di riti antichi (la processione) e nuovi (i fuochi d’artificio, “la fiera” e “le giostre”). Questo momento di aggregazione e di vita molto probabilmente verrà travolto da ciò che ancora stiamo vivendo: un vero peccato. Così come immagino siano tante quelle festività previste, in centinaia di altre città e paesi più piccoli, nel mese di maggio: tutti momenti che subiranno un inevitabile rinvio.
Sì, penso a quando potrò tornare a casa e penso a come rivedrò quei luoghi e quelle persone a me care. Come avranno vissuto queste giornate? Cosa avranno provato laggiù? Come ha interpretato la mia città questa immensa e corale prova di resistenza? Sarà bello poterlo chiedere, poterlo scoprire: sarà la prima cosa che farò.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Pensando al dopo
per una Società
equa e sostenibile
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 18 aprile 2020
Andrà tutto bene, torneremo alle nostre vite: tutto sarà come prima. E invece no, non dovrebbe essere così. Perché prima non andava tutto bene, niente affatto. Questa crisi, apparentemente solo sanitaria è in realtà un banco di prova generale per la nostra società, e specialmente per tutte quelle appartenenti alla famiglia europea ed occidentale. Il Coronavirus ha messo a nudo tutte le nostre debolezze, ha marcato con forza ferite già presenti. Stiamo vivendo una crisi economica, sociale ed ideale che ha radici antiche: tutti i nodi prima o poi vengono al pettine è questo può essere il momento giusto per provare a risolverli.
La crisi ha svelato le debolezze intrinseche della globalizzazione così come l’avevamo intesa fino ad ora.
Se abbiamo deciso di delocalizzare interi settori produttivi, se abbiamo delegato ad altri la materiale produzione di beni determinanti per le nostre società, non dobbiamo stupirci se, in un momento in cui le richiedono tutte, siamo a corto di mascherine.
Se abbiamo taciuto a lungo sull’enorme divario che andava creandosi tra Mezzogiorno e Nord sulla tutela di un bene fondamentale come la salute, non possiamo meravigliarci se temiamo il dilagare del virus a sud di Roma. E se tremiamo nel pensare a cosa sarebbe successo se il focolaio principale fosse scoppiato in Campania o in Calabria invece che in Lombardia.
Se abbiamo smesso di credere nella Sanità Pubblica come elemento fondamentale della nostra società e come uno dei pilastri della nostra democrazia, non possiamo lamentarci delle difficoltà incontrate nel fronteggiare un nemico così insolito e dirompente.
Se abbiamo lasciato che il mondo della ricerca si arrangiasse da sé, con sempre minori risorse e nessun disegno organico di investimento e di indirizzo, è troppo facile sperare in un vaccino miracolosamente scoperto e diffuso in pochi mesi.
E questo è solo una piccola parte di un elenco che potrebbe andare molto oltre e che conosciamo bene. Proprio per questo non dobbiamo rinunciare a chiedere una società migliore, più giusta. Dobbiamo fare tesoro di questi giorni e trovarvi la giusta spinta per cambiare ciò che non va, e non può più andare avanti così.
Il programma per il “dopo”, quando la pandemia sarà finita, immaginato da Pietro Bevilaqua, Laura Marchetti ed Enzo Scandurra, è una delle possibili e doverose risposte che dobbiamo iniziare a darci.
No, non dobbiamo tornare a come eravamo ieri: dobbiamo iniziare a immaginare cosa e come vogliamo essere dopo.
Iniziamo così, costruendo programmi, firmando appelli, proponendo visioni e punti di vista innovativi. E chi ha di più deve fare la sua parte per chi ha di meno: non tutti soffriamo allo stesso modo questi giorni. Ricordiamocelo.
Programma per il “dopo”
Quando la pandemia sarà finita
Il Virus Covid 19 infuria in grandissima parte dei paesi e sembra non volersi placare se non dopo aver toccato l'ultima contrada del pianeta. Abbiamo davanti la più grave emergenza sanitaria della storia umana, dopo la Spagnola. Negli ultimi tempi, di fronte alla minaccia globale del riscaldamento climatico, abbiamo assistito alla sostanziale indifferenza dei poteri dominanti. Tutto è continuato come prima, perché il rischio appariva lontano, non portava danni immediati al processo di accumulazione capitalistica. Oggi la pandemia, che si diffonde quasi con la velocità dei flussi finanziari mondiali, ha messo in scacco la crescita, ha fermato la grande giostra e rischia di schiantarla. La vastità dell'evento e la radicalità delle sue implicazioni, i morti e la distruzione di ricchezza, impongono che dopo la grande tempesta nulla sia più come prima.
Indichiamo alcuni punti di necessaria, radicale trasformazione dello status quo.
1) Il potere pubblico deve tornare a riacquistare centralità. L'emergenza sanitaria ha dimostrato in Italia e nel mondo, il suo ruolo insostituibile. Occorre riporre nella teca dell'antiquario l'intero armamentario della cultura neoliberista. Lo stato nazionale e a maggior ragione l'UE, devono tornare a essere agenti di investimento, dotati di una politica economica che risponda ai bisogni e ai diritti collettivi e avvii la riconversione ecologica.
2) Un posto di rilevo spetta alla sanità. Il suo finanziamento, il suo carattere pubblico, la sua equa distribuzione nel territorio, devono essere posti al centro dell'azione di governo. Una sanità equa è una delle leve per rendere omogeneo il welfare del Mezzogiorno con quello del resto del Paese. Il Sud ha subito una distribuzione iniqua delle risorse pubbliche, che ha allargato il divario col CentroNord. Si dovrà cancellare dal calendario politico ogni ipotesi di autonomia differenziata e rivedere il rapporto stato-regioni.
3) Auspichiamo un sistema sanitario europeo che darebbe un grande contributo al processo di unificazione dell'Unione, tramite questo pilastro fondamentale del welfare.
4) Occorrono più risorse pubbliche. Per questo s'impone una vasta operazione di giustizia sociale non più rinviabile. Oggi, mentre gran parte dei cittadini italiani non può uscire di casa, tanti altri non hanno di che mangiare. Occorre un rapido riequilibrio nella distribuzione della ricchezza e un sistema fiscale progressivo, che renda permanente tale distribuzione, il che richiede anche l’introduzione di una tassazione patrimoniale che colpisca le grandi ricchezze, con una franchigia che salvaguardi i bassi redditi e il piccolo risparmio.
5) Occorre finanziare generosamente la Ricerca. L’Italia è agli ultimi posti dei paesi europei per quota di Pil ad essa dedicati. Soprattutto quella di base e nelle scienze umanistiche. I dipartimenti universitari sono stati sempre più “invitati” o costretti, per sopravvivere, a trovare essi i finanziamenti dalle imprese che, ovviamente, prediligono quei temi più spendibili sul mercato.Occorreranno più risorse, molte delle quali andranno investite nella scuola. Ma non per favorire le piattaforme informatiche delle multinazionali e i venditori di computer, suggerendo che la didattica online, praticata nella fase dell’emergenza, debba diventare l’unica e magari la migliore didattica. L’alfabetizzazione digitale della popolazione appartiene alla ragione strumentale, non alla formazione che invece deve tornare ad essere impegno della scuola come formazione alla solidarietà, alla cooperazione, alla cittadinanza attiva e responsabile, alla democrazia: tutti valori indispensabili a ricostruire il mondo del futuro.
6) La necessità di maggiore risorse finanziarie pubbliche richiede una revisione del bilancio statale. Non è più possibile, in un'epoca in cui la vita umana appare così fragile e a rischio, mentre il pianeta mostra segni inquietanti di collasso, accettare che miliardi di danaro pubblico finiscano ogni anno nella costruzione di cacciabombadieri, di portaerei, bombe e armi varie. I nostri soldi messi al servizio di ordigni che produrranno morte, distruggendo abitati, territori paesaggi, beni artistici.
7) Non siamo più disposti ad accettare alcuna Realpolitik. Consideriamo assurdo ritenere razionale tutto ciò che è reale. Sappiamo bene che a tali spese ci obbligano i trattati internazionali, ma proprio per questo occorre metterli in discussione. Se la democrazia deve rappresentare il volere popolare, questo deve poter mettere in discussione la logica bellica dei poteri sovranazionali. Occorre perciò uscire dalla NATO, denunciarla come la centrale del disordine internazionale degli ultimi 20 anni, un costosissimo strumento del potere geopolitico americano e niente di più. Ripugna a qualunque mente non asservita, l'idea di una istituzione che utilizza ingenti risorse per distruggere e devastare, mentre la Terra necessita della nostra cura, e occorre salvarsi da squilibri planetari sempre più minacciosi.
8) Le pandemie non provengono solo dagli animali selvatici. Non accorre andare nella Foresta amazzonica per trovare focolai di future possibili pandemie. Gli allevamenti intensivi degli animali, nei nostri territori e nelle nostre stalle – che inquinano terre e acque e alterano il clima - hanno già causato migliaia di morti, oltre che ingenti danni economici: la BSE, la Salmonella DT 104, l' Escheria coli 0157, ecc. Solo il caso oggi ci difende dal passaggio all'uomo delle innumerevoli malattie che spesso devastano questi allevamenti.
9) Occorre perciò cambiare la Politica Agricola Comunitaria (PAC), che oggi finanzia le agricolture industriali e i grandi allevamenti inquinanti, mentre distribuisce briciole ai contadini e nulla fa per proteggere i braccianti migranti, sfruttati come schiavi, senza i quali nessun prodotto arriverebbe sulle nostre tavole. Ma occorre anche diffondere una nuova cultura alimentare, che limiti il consumo delle carne, da considerare nociva per la salute nella situazione attuale.
10) La ricostruzione dell’economia e della vita civile e sociale nella fase post pandemica richiederà il contributo più largo possibile del lavoro umano a tutti i livelli e in tutti i campi. Per questo proponiamo, come hanno fatto altri paesi europei, di regolarizzare gli immigrati e dare loro un lavoro pienamente tutelato, in agricoltura come nell’industria e nei servizi, come pure forme di servizio civile volontario, anche su scala europea, dei giovani che abbiano terminato il loro corso di studi.
11) Il carattere globale della pandemia, così come il riscaldamento climatico, mettono in luce il carattere antiquato dell'attuale assetto degli stati nazionali in reciproca competizione, quando non in reciproco conflitto armato. Il nostro fragile destino comune domanda oggi una nuova logica di governo del mondo, fondato sulla cooperazione, per gestire insieme le ardue sfide che attendono l'umanità tutta intera.
Le firme vanno inviate a scandurraenzo@gmail.com
Piero Bevilacqua, Laura Marchetti, Tonino Perna, Enzo Scandurra, Ignazio Masulli, Andrea Ranieri, Luigi Ferraioli, Tomaso Montanari, Alfonso Gianni, Battista Sangineto, Adriano Labbucci, Maria Pia Guermandi, Alberto Ziparo, Luigi Vavalà, Paolo Favilli, Giuseppe Saponaro, Franco Novelli, Guido Viale, Alberto Magnaghi, Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello, Rossano Pazzagli, Francesco Trane, Carlo Cellamare, Aldo Carra, Domenico Rizzuti, Ginevra Bompiani, Pietro D’Amore, Pietro Caprari, Roberto Budini Gattai, Massimo Veltri, Amalia Collisani, Vittorio Boarini, Enzo Paolini, Marta Petrusewicz, Piero Di Siena, Giancarlo Consonni, Claudia Mineide, Patrizia Ferri, Lucinia Speciale, Felice Spingola, Graziella Tonon, Piero Castoro, Pino Ippolito Arminio, Vera Pegna, Silva Acquistapace, Paolo Gelsomini, Armando Vitale, Rita Paris, Emilia Peatini, Silvana Mazzoni, Fabio Parascandolo, Velio Abati, Cristina Lavinio, Maria Rosa Ardizzone, Marina Leone, Vittorio Sartogo, Ivana Zomparelli, Sergio Sarli, Annabella D’Elia, Manuela Bonfigli, Alfonso Gambardella, Alfredo Messina, Marcello Paolozza, Bruno Fiore, Giuseppe Aragno, Paolo Berdini, Carmelo Buscema, Francesca Leder, Franca Pinto Minerva, Paolo Ponzio, Jelly Chiaradia, Mina Mastrodonato, Enzo Papeo, Gilda Marano, Ketty Marchetti, Maria Florio, Romeo Bufalo
www.osservatoriodelsud.it/2020/04/14/la-pandemia-sara-finita/
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Un ristoro economico
Anche a chi è in nero.
Ma a patto che emerga
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 17 aprile 2020
Sembra che Angelo Borrelli e la Protezione civile abbiano ascoltato il nostro appello di qualche giorno fa. Avevamo chiesto di abolire del tutto la conferenza pomeridiana delle 18.00, il rito seguito da milioni di italiani, me compreso, diventato un po’ stanco e forse, per certi versi, superfluo e controproducente. Non abbiamo ottenuto l’abolizione completa ma una radicale diminuizione: la conferenza stampa si terrà solo due volte la settimana.
Scherzi a parte, sono piccoli segnali che si cerca di dare, uniti a dati apparentemente più indulgenti, per rincuorare gli animi inquieti in quarantena. Il tutto in vista della fatidica data del 3 maggio: dovrà pur succedere qualcosa dopo.
Oggi vi lascio con lo spunto di riflessione offerto dal nostro direttore Fulvio Mazza: perché è bene uscire dalle mura individuali e familiari di questa quarantena per pensare agli enormi problemi economici e sociali che questi mesi stanno sottolineando ed allargando. Ci rivediamo domani per il sesto weekend di Diario e di Resistenza.
Negli ultimi giorni si sta dibattendo su un tema molto particolare: come dare ristoro economico a tutte quelle fasce di popolazione che, prima del coronavirus, avevano un reddito in nero?
Talvolta per propria scelta furbesca, talaltra perché a fare il furbo era il datore di lavoro che, conseguentemente, li costringeva al sommerso, questi lavoratori non hanno attualmente la possibilità di dimostrare il danno reddituale subito e, dunque, non possono ricevere alcun aiuto pubblico.
Non si tratta, in realtà, di un problema troppo difficile da risolvere: esisterebbe, infatti, un metodo grazie al quale – oltre a concedere a quei lavoratori l’accesso ai benefici specifici – si potrebbe costituire un grosso aiuto alla lotta contro il lavoro in nero.
Si guardi agli esempi che ci offre la storia, dove sono stati presi provvedimenti in merito a problematiche ben più gravi: si guardi al “Punto final” dell’Argentina, alla “Verità e Riconciliazione” del Sudafrica e a quella similare dell’Ulster.
In sostanza, le persone che hanno lavorato in nero potrebbero rilasciare un’autodichiarazione che spieghi, nei particolari, il lavoro svolto, presso chi e quale reddito sia stato percepito nell’ultimo anno o nel periodo che si vorrà considerare.
Quest’autodichiarazione dovrebbe essere redatta anche dal datore di lavoro e né questo, né il lavoratore verrebbero perseguiti. Suddetta documentazione passerebbe, poi, in automatico presso gli Uffici dell’impiego, che farebbero emergere tali rapporti lavorativi.
Queste dichiarazioni avrebbero, quindi, un duplice vantaggio: servirebbero al lavoratore per accedere ai contributi e allo stato per ufficializzare lavori “clandestini”, con evidenti benefici successivi per l’Erario.
Nel caso in cui l’autodichiarazione del lavoratore non sia accompagnata dall’analoga autodichiarazione del datore di lavoro scatterebbero i controlli dell’Agenzia delle Entrate e/o della Guardia di Finanza, che andrebbero a verificare lo stato dei fatti multando il “padrone”ovviamente, in proporzione all’omissione fatta.
La soluzione a questo annoso problema è tanto semplice e di facile applicazione da lasciarci domandare come mai non sia venuta in mente ai nostri legislatori: negligenza, incompetenza o interesse a mantenere lo status quo?
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Il doloroso saluto
a Luis Sepulveda.
Grande scrittore
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 16 aprile 2020
Sembrava di aver perso un conoscente, una persona cara. Ho appreso della scomparsa di Luis Sepulveda stamattina di sfuggita, mentre lavoravo. Ho interrotto immediatamente ed istintivamente tutto ciò che stavo facendo. I primi minuti di pausa li ho dedicati alla realizzazione di ciò che avevo appena scoperto: Sepulveda si è spento a 70 anni, vittima del Coronavirus. Era in terapia in Spagna da fine febbraio: la sua incredibile storia si è conclusa stamattina. Subito dopo mi sono chiesto che cosa rappresentava per me quella perdita e perché mi colpiva così tanto. Che cosa significava per me lo scrittore, la sua opera, la sua testimonianza. Infine, mi sono chiesto perché quella era la prima delle morti di Coronavirus ad avermi colpito così profondamente.
Tante domande alle quali avrei preferito non dover dare risposta. Perché avrei continuato a leggere Luis Sepulveda e di Luis Sepulveda. Un uomo che mi ha sempre ispirato una naturale e semplice simpatia, forse dovuta anche al suo faccione mite e pensieroso. Sicuramente dovuta alla sua storia personale, fatta di sofferenza, lotta e impegno politico sui fronti più svariati, tutti equamente importanti. Ce l’aveva a cuore l’uguaglianza, Luis Sepulveda; così come ci teneva a rifiutare categoricamente qualsiasi sopruso, qualsiasi violenza, qualsiasi fascismo.
Ho sempre amato la letteratura sudamericana, quella del realismo magico, fatta di pagine colorate e magnificamente malinconiche. Un connubio di emozioni, nostalgia, sentimenti e passione che è difficile da trovare altrove. Nelle opere di Sepulveda c’era anche questo, proprio perché lo scrittore cileno non era solamente cileno. Il suo internazionalismo e il suo essere cittadino del mondo è sempre stato uno dei suoi bellissimi e rossi fiori all’occhiello. Forse anche per questo alcune sue opere sono entrate nel cuore di tutti noi, al di là di ogni confine: fanno parte del nostro intimo patrimonio culturale. Alcune fiabe, che non sono solo fiabe (o forse perché lo sono davvero fino in fondo?) di Sepulveda ci hanno coccolato e ci hanno fatto crescere: ciascuno ha la sua.
La morte di un grande scrittore, la chiusura di una penna di tale livello, ha inevitabilmente un sapore del tutto diverso, lascia un segno che è difficile sentire ed evitare. Per questo la perdita di Sepulveda, strappatoci dal maledetto virus, ha colpito nel segno; per questo fa male, nonostante le vittime in Italia e nel mondo superino le decine di migliaia. Questa immensa catastrofe umanitaria oggi ci ha tolto qualcosa in più, qualcosa di bello. La fortuna è che nulla di ciò che quella penna ha scritto potrà essere eliminato da qualsiasi malattia. Tutto sarà ancora lì, pronto per essere letto per la prima volta o riassaporato.
Giorno triste questo 16 aprile 2020, si chiude con amarezza. E con il doloroso saluto ad un grandissimo e brillante scrittore.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Quel ritorno tanto
atteso e desiderato
nella “mia” libreria
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 15 aprile 2020
Mentre si avvicinava l’ora della “disconnessione” dallo smart working, già ci stavo pensando. Tutta la giornata di oggi era inevitabilmente indirizzata ed improntata a quell’unico momento tanto atteso e desiderato: il ritorno in libreria.
Pregustavo la riconquista di quel luogo a me caro da parecchi giorni. Avevo letto della riapertura delle librerie prevista dall’ennesimo Dpcm, seppur osteggiata dall’altrettanto solita marea di distinguo regionali (quando finirà questa storia torneremo a discutere del regionalismo italiano?). L’Emilia-Romagna non ha emanato un’ordinanza più restrittiva, eccetto per le “province rosse”, non politicamente parlando, di Piacenza e Rimini. Quindi ho avuto la conferma tanto attesa. A partire da ieri, 14 aprile, avrei potuto ampliare il mio raggio di reclusione ed estenderlo ad una via poco distante da casa, la via alberata che ospita un luogo mai stato così speciale ed importante: la libreria “Ulisse”. Non è pur vero che non siamo stati fatti per viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza? Ho preso alla lettera l’insegnamento dell’Odissea dantesca, rigorosamente munito di mascherina, occhiali appannati (so che qualcuno mi capirà) e guanti.
Primo effetto positivo e meraviglioso di questa piccola riconquista: la solita passeggiata, relegata al perimetro del condominio o indirizzata alla nota triade edicola-supermercato-farmacia, è finalmente diventata diversa, insolitamente nuova. Per quanto nuovo possa essere definito il tratto della mia via che va verso sud, percorso miriadi di volte solo qualche settimana fa. Ogni piccolo passo era una mia grande, personale occupazione del mio quartiere. Mi sono sentito come un liberatore, un partigiano che entra nella città a lungo abbandonata al nemico.
Eccola quindi, la libreria, aperta: unica oasi di vita in un viale altrimenti silente, in diffidente attesa.
Il secondo effetto positivo: vengo accolto all’ingresso da uno dei librai. Mi saluta sorridente, cordiale e accogliente. Mi fa aspettare: ci sono altri clienti all’interno e l’ingresso va contingentato come c’è scritto a chiare lettere sul cartello lì fuori. Nel frattempo mi chiede «di cosa ha bisogno?». Ed iniziamo a parlare: finalmente una vera e propria conversazione, non un semplice saluto. Gli rispondo che ho bisogno di tornare letteralmente in mezzo ai libri perché «non ha idea di quanto mi manchi». Lui mi sorride e ricambia immediatamente con un bellissimo «beh oggi è il giorno giusto allora!». Io scherzo sul fatto che dopo ore attaccato al computer in modalità “lavoro agile” sentivo il bisogno di evadere. Lui azzecca la risposta giusta, definitiva: «e che rottura di maroni senza nessun contatto, ci credo».
Poco dopo mi fa entrare e mi lascia in compagnia dei suoi libri.
Terzo effetto positivo: in sottofondo si sente la bella e chiara voce di Ella Fitzgerald: è un accompagnamento dolce e discreto, perfetto per creare l’atmosfera giusta. Cammino senza un obiettivo preciso: effettivamente non ho idea di cosa acquistare, non ci avevo minimamente pensato. Quanto mi mancava passare per scaffali diversi da quelli del supermercato, senza uno scopo preciso o un qualcosa da acquistare per necessità. Eppure la necessità stavolta c’è: nel momento stesso in cui sono entrato ho deciso che ne sarei uscito con almeno due libri. E devo ammetterlo, forse avrà influito il mio lato oscuro, quello da avvocato: con due libri ed una bella ricevuta fiscale avrei tranquillamente potuto dimostrare che il mio spostamento rientrava tra quelli ammessi per «stato di necessità».
La mia scelta ricade su Umiliati e offesi di Fedor Dostoevskij, che volevo fare mio da tempo, e una raccolta con il De Senectute e il De Amitcitia di Cicerone: qui ha influito un bel po’ anche la bellissima copertina color pastello, testo originale in latino a fronte. Il potere rassicurante dei classici.
Il ritorno a casa è rilassato, felice, liberatorio. Ho fatto scorta di pazienza e di resistenza: la valvola di sfogo ha funzionato.
Sinceramente non so se sia stata una buona idea riaprire le cartolibrerie e le librerie. Razionalmente mi verrebbe da dire di no, anche considerando la decrescita non così rapida di quella maledetta curva. Forse sarebbero altre le attività da ritenere essenziali o comunque dalla riapertura prioritaria. Conosco l’obiezione e in un certo senso la sento anche mia: la libreria, come l’edicola, è un baluardo fondamentale che deve rimanere operativo anche in tempo di crisi sanitaria. La cultura fa bene, sempre: le persone hanno bisogno di leggere e mai come in questi giorni. Il Governo che indica le librerie tra le attività essenziali decide di fare una scelta politica chiara e decisa. “Promuove” la funzione sociale della cultura e dei librai.
Apprezzo questa narrazione ma non riesco a fare a meno di ritenerla, dopotutto e in un certo senso, stucchevole e retorica. E ritorna il dubbio sull’opportunità della riapertura. Ma di due cose sono sicuro. La prima: non ci sarà tutta questa ressa, questa fila infinita per entrare in libreria. La seconda: se questa è retorica, è una retorica che di certo non può fare così male.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Quel patto civile
Cittadini e Governo
che non va rotto
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 14 aprile 2020
3 maggio. Abbiamo tutti in mente quella data, il giorno in cui termineranno le misure restrittive più severe. Il giorno dell’inizio ufficiale, o ufficioso, della tanto agognata “fase 2”. Il giorno in cui potremo uscire di casa, con mascherina e guanti e per camminare in una città chiusa ed irriconoscibile, ma sarà pur sempre uscire.
Il condizionale sarebbe d’obbligo ma l’ho volutamente omesso. Il 3 maggio deve succedere qualcosa. Qualsiasi cosa diversa dall’ennesima proroga annunciata in conferenza stampa a reti unificate e spiegata con le migliori intenzioni ed un pizzico di retorica. E questo, purtroppo, indifferentemente dal reale andamento della curva del contagio.
Un patto implicito è stato stretto tra cittadini e Governo, tra società e decisore politico: noi cerchiamo di stare tutti a casa ancora un po’, rinunciamo alle nostre vite come le abbiamo sempre conosciute, voi ci indicate una strada da percorrere. Individuate una data. Il che non significa che il 4 maggio, il giorno dopo sarà un tana liberi tutti, pronti partenza e via. Lo sappiamo bene tutti. Ma il 3 maggio ha ormai assunto un valore simbolico, è diventato una valvola di sfogo che sentiamo il bisogno di girare il prima possibile. Abbiamo bisogno che succeda qualcosa, qualsiasi cosa. Purché succeda.
Non invidio gli attuali inquilini dei “palazzi del potere”, mai così impotenti, mai così carichi di tremenda responsabilità. Per natura ho sempre diffidato dei giudizi netti e trancianti, specie quelli riguardanti le scelte politiche più complesse: c’è sempre un mondo dietro e può essere davvero cieco e limitante passare a conclusioni affrettate se non ci si premura di informarsi come si deve. E a lungo. Rispetto chi ha il dovere, in questo drammatico periodo storico, di cercare di individuare un indirizzo politico, una possibile via da percorrere collettivamente. Un percorso impervio, fatto di pericolosi ma necessari bilanciamenti tra diritti egualmente fondamentali. Una lotta contro il tempo e con una crisi economica e sociale di proporzioni inaudite, mai così evidente ed imminente: è un treno in fondo al tunnel. Ma quel treno si avvicina a gran velocità e noi siamo nel tunnel, sui binari. Il tutto mentre dilaga nel mondo una pandemia improvvisa, di efficacia quasi chirurgica. No: non è decisamente un bel momento per essere un presidente, un monarca o un ministro.
Inizialmente abbiamo, giustamente, sospeso il nostro giudizio verso chi ci governa a vari livelli (nazionale, regionale, locale). Abbiamo messo da parte anche legittime e antiche diffidenze verso quel determinato esponente politico o quell’amministratore: per un mese circa quelle donne e quegli uomini hanno smesso di essere visti come “di parte” e hanno finito per identificarsi con il loro ruolo, la loro funzione. In un momento di drammatica e inaspettata emergenza ci siamo affidati ai decisori politici, confidando nelle loro capacità: il tempo per la critica sarebbe tornato dopo, inevitabilmente. Ma comunque dopo. Anche io mi sono allineato a questo sentimento generale e ho più volte sminuito o tenuto a bada alcune legittime critiche e perplessità che, più o meno naturalmente e legittimamente, venivano fuori di giorno in giorno.
Oggi, forse fortunatamente, stiamo tornando alla normalità politica e dialettica: stiamo ricominciando a delineare con ferocia le responsabilità di alcuni, stiamo tornando a disprezzarne altri di cui avevamo già una cattiva opinione. Ora si pretende maggiore chiarezza e maggiore coraggio nelle scelte, pur difficilissime e drammatiche, che qualcuno dovrà inevitabilmente prendere. Si pretende, soprattutto, una radicale miglioramento della comunicazione, a tutti i livelli, sia nei confronti dei politici che dei “tecnici”.
Ha davvero senso iniziare a parlare, come è stato fatto oggi, della possibilità o meno di andare in spiaggia ad agosto? Perché spostare l’orizzonte già all’estate e incutere timore e sconforto già da adesso? A chi giova tirare ulteriormente la corda e prospettare un’estate senza spiaggia sin da ora, senza reali analisi del problema e in totale mancanza di qualsivoglia soluzione?
No, dobbiamo pretendere maggiore chiarezza e competenza. E quel patto lì, stretto qualche settimana fa ed avente ad oggetto il 3 maggio, non deve rompersi. Il 3 maggio deve davvero finire qualcosa ed iniziare una fase nuova: in qualche modo deve succedere e deve essere efficacemente comunicato.
Perché se il patto sociale si rompe non è dato sapere quando si ricomporrà. E come e se ne usciremo fuori per davvero.
Cerchi di resistere
ma prima o poi
la crisi arriva
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedì 13 aprile 2020
Puoi resistere, puoi cercare di non pensarci; puoi provare a distrarti, cerchi di condividere con gli altri e di fare fronte comune. Puoi provarci, e spesso ci riesci, ma prima o poi arriva: la crisi.
A me è successo oggi. Senza troppi giri di parole: questa se lo gioca benissimo il titolo di “peggior Pasquetta di sempre”.
Cerchiamo con tutte le nostre forze di costruirci una routine, una parvenza di normalità che ci aiuti a far passare le ore. Ognuno di noi ha un suo personalissimo meccanismo di difesa, una barriera da ergere contro fantasmi e pensieri cattivi sempre pronti ad aggredirti, quando meno te lo aspetti. Ho cercato di dare un senso alle due festività di oggi e di ieri. Ci sono riuscito a metà. Ieri è andata piuttosto bene, oggi è arrivata la crisi.
La mia personalissima crisi da quarantena di solito comincia con un insistente mal di testa. Non ho mai amato stare troppo a casa, ho sempre sentito l’esigenza di uscire dopo un po’. Oggi mi viene da ridere se penso a come e quanto mi lamentavo quelle volte che rimanevo a casa per uno, due giorni di fila. Mi sono sempre detto: «se sto troppo a casa dopo un po’ mi sento soffocare, sento la necessità di prendere aria». Bene, non è cambiato nulla: la sensazione è sempre la stessa, così come l’esigenza. Ad essere cambiato è il fatto che, semplicemente, non c’è modo per uscirne fuori, letteralmente. Qualche sterile passeggiata attorno casa, qualche sortita in supermercato e poco più: no, non basta. Quella sensazione lì, quel soffocare c’è sempre e a volte ritorna impetuosamente. Mi sento stringere attorno ad un perimetro piccolo, troppo piccolo: il mio spazio è fatto di qualche metro quadrato soltanto e, quando esco, si allarga solo di qualche metro. Di qualche via. No, non va bene: è davvero troppo poco per me.
Non si tratta solo di uno spazio fisico. La necessità di espansione e movimento assale anche il mio pensiero, stuzzicando la naturale propensione a pensare al domani, alle prossime giornate che mi aspettano. A fatica cerco di immaginare un ritorno ad una normalità che nemmeno ho il coraggio di definire. Ed ecco il turbine di domande: ma quando finisce, ma quando potremo camminare per davvero, quando potremo andare al bar, quando al cinema, quando a teatro, quando potrò tornare giù in Calabria. Sono tante domande, una dopo l’altra, incatenate tra loro senza nemmeno il punto interrogativo, perso da qualche parte in mezzo a pensieri pesanti e opprimenti. Domande senza punto interrogativo proprio perché, in realtà, sanno di non poter ottenere risposta. Eppure ci sono e ritornano, proprio quando credevi di averle domate.
E sì, quando ritornano tutte insieme è difficile resistere: la maschera dell’ andrà tutto bene è sempre più logora. Certo: si deve andare avanti e dopotutto lo si fa, piano piano. Ma non è sempre poetica la Resistenza: a volte è cruda, triste, difficile.
Oggi è andata così. Ma ho imparato un’altra cosa, stavolta con lampante chiarezza: ogni volta che leggerò sui giornali di arresti domiciliari non penserò più «dopotutto non gli è andata così male». Mai più.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Cronaca semiseria
di una bella Pasqua.
Ma in quarantena
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 12 aprile 2020
Ho iniziato questo diario con in mente un concetto tanto semplice quanto importante: volevo, voglio, lasciare una traccia di questi giorni. Voglio trascrivere i pensieri frutto di questo periodo unico ed anomalo. Mi piace immaginare che verrà un tempo in cui avremo molto da ricordare e raccontare sui giorni della quarantena. I giorni della mia quarantena, della tua, della nostra.
Ho iniziato il 14 marzo, senza pensarci troppo e con una spensieratezza che ora è venuta meno. Oggi è il 12 aprile, oggi è Pasqua. La quarantena ha fatto sua anche una festività, impedendoci di viverla come abbiamo sempre fatto. Nel mio caso mi ha impedito di trascorrerla in compagnia della mia famiglia: anche se vivo a Bologna dal 2011 è la prima volta che succede; in qualche modo, sono sempre riuscito a tornare a Casa per Pasqua. Scendere, rituffarmi nel mio mondo di Calabria, rivivere ciò che non ho mai abbandonato per davvero e che amo tutt’ora, risalire con un pizzico di malinconia. Questa volta non è successo.
Eppure, c’è molto di cui lasciare traccia di questa Pasqua 2020. L’importanza simbolica di una festività vissuta in questo modo richiede una cronaca più dettagliata. Eccola qui.
Ore 10.00
Mi sveglio, finalmente rilassato. Lo stress, l’agitazione e la frustrazione dei giorni scorsi sembrano essersi messi da parte: per quanto ancora non lo so, mi basta sapere che hanno deciso di prendersi una pausa. Alzo “le tapparelle” o la “serranda”, fate voi, e subito vengo assalito dal solito cielo vergognosamente azzurro e da un calore anomalo: Bologna in questi giorni ha deciso di dare il meglio di sé per risultare insopportabilmente invitante.
Ore 11.30
Per l’occasione mi sono vestito bene. Sì, diciamo che mi sono vestito a festa. Sentivo il bisogno di abbandonare la tenuta di casa, generalmente accogliente e rassicurante ma mai come in questi giorni pericolosa e bugiarda. Avevo un compito preciso: andare a prendere il solito giornale all’edicola sotto casa ma, soprattutto, fare gli auguri all’edicolante. Avevo pregustato questa meravigliosa interazione sociale già mentre facevo colazione. Sono stato ricompensato a dovere con un «Grazie mille! Buona Pasqua e tanti auguri» con tanto di sorriso nascosto da mascherina: ma c’era, si vedeva benissimo.
Ore 12.45
Videochiamate di rito. Oggi saranno tante ed è giusto così: la festa ha senso solo se è condivisa. Si avverte l’esigenza di connettersi, collegarsi in qualche modo, sottolineare il legame che ci tiene uniti anche a chilometri di distanza: è Pasqua, festeggiamo.
Io sono fortunato però: ho due amici che conosco da quando andavo all’asilo. Siamo coinquilini da anni: questa è la nostra quarantena. Rifletto spesso, mai come oggi, su cosa sarebbe successo se non li avessi avuti con me in questi giorni. La risposta non mi piace per niente e preferisco passare subito ad altro. Abbiamo deciso di sottolineare questa domenica, di promuoverla a Pasqua in qualche modo, anche a casa nostra. Eccoci quindi a preparare un pranzo diverso dal solito, a sederci a tavola tutti insieme invece che separati, come spesso capita. Pasta al forno, cotolette, vino rosso: non può mancare l’uovo di cioccolata sul finale. Scattiamo una foto: chi se la dimentica una Pasqua del genere, così semplice e banale e, allo stesso tempo, così anomala e significativa? Una festa autentica, insieme: loro sono un pezzo della mia famiglia. Sono fortunato. Foto ricordo.
Ore 14.30
Altro giro di videochiamate, questa volta con mio cugino, anche lui a Crotone. Parlando con lui non riesco a fare a meno di chiedermi: chissà come sta vivendo queste giornate. Cosa lo preoccupa di più? Che cosa ha in mente appena si sveglia, che cosa quando chiude un’altra giornata di reclusione? Che cosa direbbe il suo diario quotidiano? Mi chiedo come mai non abbia fatto queste domande a lui e a tante persone a me care. Perché, ancora una volta, ho rimandato? Prendo nota, ancora una volta: imparare a rimandare il meno possibile. E fare le domande giuste, al momento giusto.
Ore 15.30…?
La Pasqua in quarantena sarà diversa e particolare… ma ha qualcosa di terribilmente classico: il micidiale abbiocco post pranzo mi conduce in una dimensione alternativa fatta di testa pesante, letto e flusso di coscienza. Le tradizioni vanno rispettate e noi l’abbiamo fatto.
Ore 18.00
Ogni volta che arriva il weekend, ogni volta che sono finalmente libero di pensare ad altro che non sia il diritto che mi tiene impegnato per lavoro, cerco di leggere il più possibile. Leggere qualcosa che mi piaccia e che mi stimoli, qualcosa che mi faccia uscire, in qualche modo. Non sempre ci riesco. A volte l’apatia fa da padrona. A volte riesce difficile immedesimarsi nei personaggi di alcuni libri, così carichi di viaggi, umanità, contatti. Storie che si svolgono fuori casa e non dentro. Storie distanti da questi giorni. Bene, oggi è uno di questi giorni: difficile leggere. O forse i postumi del pranzo si fanno sentire ancora.
Ore 19.00
Quando non riesco a leggere mi metto a scrivere. A volte ci riesco ed è una liberazione. Questo diario serve anche a questo, serve a me.
Rieccomi qui, a fare una rassegna di una giornata non ancora finita. Pensando già a domani. Pensando ad un'altra insolita festa: Pasquetta. Cosa ci sarà da raccontare, cosa ci sarà da ricordare?
Vedremo.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Il quattro maggio
tornerà ad essere
tutto come prima?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 11 aprile 2020
A casa siamo in tre. Da bravi coinquilini, uniti da un’amicizia ventennale, ci dividiamo i compiti: cose di casa. Tre settimane fa toccava a me la pulizia generale del bagno e dei pavimenti: era il mio turno. Ho sempre approfittato di questa pulizia per avventurarmi in appassionanti e filosofiche riflessioni, tra una passata con il mocio e una spruzzata di candeggina. Tre settimane fa toccava a me e pensavo: «chissà, magari quando sarà di nuovo il mio turno questa storia sarà finita». Tre settimane dopo è arrivato di nuovo il mio turno e posso dire che mi sbagliavo. Eccome se mi sbagliavo.
Siamo ancora in attesa, il peggio sembra passato. Non sentiamo più parlare di picco e di curva dei contagi. Ora il nostro vocabolario è fatto di fase 2, riaccendere i motori del paese e di calo dei ricoverati. Allo stesso tempo, ci siamo perfettamente abituati all’ecatombe quotidiana: solo oggi 619 vittime accertate. Una cifra enorme, un numero che in tempi normali avrebbe fatto cadere qualsiasi governo e avrebbe scosso la società intera per chissà quanto tempo. Oggi non più: non sono tempi normali.
Le giornate vanno avanti, in qualche modo. Ora pare ci sia una data, una meta un po’ più tangibile e, forse, verosimile: si parla del 3 maggio. Il giorno dopo, forse, la principessa di tutte le restrizioni verrà meno. Forse potremo uscire di casa. Già, uscire…ma per andare dove? Per fare cosa? Ultimamente, quasi come un detenuto prossimo al rilascio, immagino cosa farò non appena potrò uscire. Immagino come sarà il mio 4 maggio. Il più delle volte ho ripetuto a me stesso che la prima cosa istintiva che farei sarebbe una semplice, lunga e indefinita passeggiata. La gabbia “perimetro del condominio-edicola-supermercato” deve essere abbattuta, al più presto. Ho bisogno di camminare per i portici di Bologna e raggiungere le Torri, Piazza Maggiore: devo riconquistare quei luoghi, solo qualche settimana fa così scontati, e mai tanto desiderati come adesso.
La passeggiata, va bene. E poi? Lì mi fermo, non riesco ad immaginare altro. Non riesco a definire quel concetto di normalità a cui tutti ambiamo in questi giorni.
Sarà davvero tutto come prima? Potremo scrollarci di dosso questa tragedia globale, metterla in un cassetto e far finta che non sia successo nulla di traumatico o determinante? Evidentemente no, non possiamo.
Ed io, tornerò ad essere esattamente l’Alessandro di metà febbraio, con gli stessi pensieri, le stesse paure, gli stessi desideri e, soprattutto, le stesse abitudini? Non ho la forza di rispondere a queste domande, non adesso. Per ora c’è la necessità di resistere, andare avanti, gestire quell’opprimente mal di testa ed il nervosismo tipici delle quattro mura di casa.
Per adesso mi limito a chiudere gli occhi e pensare: 4 maggio, ti aspetto.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La quarantena
vista con gli occhi
di…una palma
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 10 aprile 2020
Riapriranno le librerie. Questa è l’unica frase degna di nota che mi è rimasta in testa quest’oggi. Già la vedo la libreria sotto casa, piccola oasi gestita da librai gentili e visibilmente amanti del loro lavoro. Forse a breve potrò riconquistare un altro dei miei luoghi e aggiungerlo all’edicola, al supermercato e alla farmacia. Sono timidi segnali di una ripresa che spaventa ancora tanto e che non si riesce a percepire fino in fondo.
Domenica sarà Pasqua, la prima lontano da Casa, quella con la C maiuscola.
Stasera mi concedo una pausa e vi lascio con un altro racconto della nostra penna che vuole rimanere anonima. A domani!
«Eccoci qua, ora ti vedo. Ciao! Buongiorno! Come…»
«È arrivato anche da noi.»
«Come?! Ah… ti riferisci a quello… Non sai quanto mi dispiace. Ho letto purtroppo… non volevo toccare l’argomento… io vorrei… ecco io non vorrei… ma se proprio vuoi…»
«25 casi accertati e 58 milioni di morti.»
«Come?»
«25 casi accertati e 58 milioni di morti. Ti è caduto un cocco in testa oggi, palma preziosa?»
«Mmh… No scusami, forse ho capito male, ho sentito male… sai queste tecnologie mangiano le parole e le persone. Forse volevi dire: 25 casi accertati e 1 morto.»
«Asante sana, palma preziosa! Mi correggo subito: 25 casi accertati, 58 milioni di morti e 1 risorto, che Dio possa perdonarmi! Hanno sepolto il corpo dopo 4 ore. Fortunatamente non era arrivato ancora il tramonto. E chi lo avrebbe voluto uno spirito dannato sulla coscienza? È risorto! È veramente risorto! Hakuna Matata per lui, per me, per te e per tutti noi.»
«Adesso basta, palma preziosa! Guarda davvero, scusami se te lo dico, ma se c’è qualcuno che si è alzata col piede sbagliato qui, oggi, sei proprio tu. Perché mi stai prendendo in giro? Non interpretare i numeri!»
«Io? Cosa stai dicendo tu? Il mio piede destro non è al posto del mio piede sinistro, guarda! Piuttosto: ce le hai ancora le mani?»
«Come?»
«Le mani, ce le hai ancora?»
«Te lo dico per l’ultima volta, palma preziosa: smettila! Altrimenti...»
«Come pensavo: hai preso il virus.»
«Ma no! Ahaha! Cosa stai dicendo, palma preziosa? Ok, senti: ho capito qual è il problema, adesso. Dai su, siediti. Ti spiego come funziona il virus.»
«Asante sana, palma preziosa! Ti ascolto come una banana nel suo casco. Dio possa benedirti, se ho detto qualcosa di non vero! Senza di voi, non avremmo potuto essere ciò che siamo oggi. Ci avete insegnato, pioggia dopo pioggia nelle nostre foreste, che la soluzione per tutto è da voi. Che la soluzione di tutto siete voi. Che il paradiso è da voi. Che il paradiso siete voi. Ci avete insegnato che senza la schiavitù, il paradiso non poteva esistere. Oggi non siamo più schiavi… siamo “vostri, popoli alleati”…palma preziosa, ciò vuol dire che anche per noi il paradiso è vicino? Quando ce lo meriteremo? Hai ragione, forse ti starai domandando quali nessi potrà mai avere un virus col paradiso. Ma è proprio questo lo scoglio dell’oceano, palma preziosa… In poche settimane, sono state disdette quasi tutte le prenotazioni vacanziere nelle nostre strutture. Abbiamo perso la fonte primaria di guadagno del Paese. Chi non ha un pezzo di barca per pescare, chi non ha un pezzo di mare per coltivare le alghe, chi non ha un pezzo di terreno rimasto immune dalla piaga delle locuste, qui, adesso, non ha lavoro. Prima, non avevamo “più” lavoro. Ora però, a causa del virus, abbiamo perso le vostre mani. O meglio: non esattamente le abbiamo perse… Mi hanno licenziata, palma preziosa. I proprietari dei vostri alberghi si sono ripresi dai palmi i 200 dollari mensili che guadagnavo per me e per la mia piccola Felicità. Sempre per la stessa scelta cui mi hanno messo di fronte. Adesso che siamo quasi tutti “in ozio”, molti di voi sono tornati alla carica, dicendoci che finalmente potremo fare compagnia a chi è in solitudine in questi giorni... “Fatelo perché tutto deve andare bene”; “volete forse andare in paradiso? Il paradiso è al di là del mar Mediterraneo. Dovete meritarvelo. Fate del bene e avrete i soldi per farlo. Fate del bene, e Dio ve ne renderà merito”. Sì, lo so che anche lì da voi stanno dicendo esattamente la stessa cosa: che “tutto andrà bene”. Quando vi mettono davanti a due piante, voi cosa scegliete?
È la quarta volta che perdo il mio lavoro, palma preziosa, perché non voglio far del bene. Sto sbagliando? Sono una persona cattiva? Ho sbagliato a chiamare Felicità, Felicità? In che mondo la lascerò fra poco? L’aspettativa natale qui è di 45 anni. È come se in questo momento, per i vostri standard, avessi già 70 anni.
Che razza di madre sono? Già in passato, quando l’ennesimo “white man” si è sentito particolarmente solo e ha chiesto un po' della mia compagnia, l’ho pensato di me stessa. Davvero: che razza di madre sono? Mi sono trovata davanti a due piante. E non ho ceduto, alla scelta…o lasciavo la mia culla dove è nata Felicità o lasciavo il mio grembiule in reception. Ecco secondo te, palma preziosa, ben intuendo che fine ho fatto di lì a pochi giorni dopo, ho scelto il bene o ho scelto il male per Felicità?
Perché odio chi ha bisogno del mio bene? Perché odio chi, per “solitudine”, anche in questi giorni, richiede il mio bene? Perché odio chi è attratto dalla profanazione del corpo delle mie amiche e dei miei amici, rendendoli schiavi della loro “noia”? Perché penso che i nostri signori siano carnefici spacciatori che abusano di noi, per abusare di voi, convertendo gli impulsi di vita sessuale in impulsi di controllo a proprio piacimento? Oh sì… oh sì … a proprio piacimento. Mica penserete a vostro piacimento? E soprattutto che quel piacimento sia vostro?
Perché penso che chi va in chat con una mia amica o un mio amico è un’ ipocrita scimmia, perché sta andando a “puttane e a puttani”, ma non vuole ammettere a se stesso di volerci andare, in quanto “non è mica la stessa cosa” o “non sto mica tradendo mia moglie/la mia compagna/mio marito/il mio compagno” o ancora “io queste cose non le farei mai: ho la mia morale”? Perché penso che “i puttani e le puttane” siete voi, e che per la vostra irresponsabilità, la vostra incultura, la vostra violenza sensoriale nascosta, avrete sulla coscienza, per sempre, le mie amiche e i miei amici, quando si sono dovuti drogare/si drogano, quando si sono auto-lesionati/si auto-lesionano, quando si sono ammazzati/si ammazzano? Ora con il pretesto del corona-virus, è un continuo assistere a scelte del genere. Ci fanno diventare animali noi, per farvi entrare nella gabbia voi.»
“Palma preziosa…io…»
“Shh! Non dire nulla, davvero. Ringrazia Dio che sei in paradiso e che tutte queste cose già le sai.»
«Palma preziosa, no! Non dire così. Qui non è un paradiso come pensi tu. Te lo abbiamo fatto credere. Ve lo abbiamo fatto credere. È questo il punto della questione.»
«Il punto? Cos'è un punto? Boh...
Però tu, proprio tu sì, almeno tu: non dimenticarti di me! Aiutami! Dillo a chi può ascoltare queste parole lontane. Io voglio andarmene da qui. Non ce la faccio più ad aspettare di meritarmi il paradiso. Voglio aiutarti e aiutarvi a non perdere le mani. Io ce le ho, guarda! Io non ho preso il virus… Dammi e datemi la possibilità di poter dire che anche per me, per Felicità, per una volta nelle nostre vite, è andato tutto bene.»
«Va bene, palma preziosa. Ma prima, sediamoci meglio, perché tu abbia davvero tutti gli elementi positivi e negativi del quadro, se hai la forte intenzione di cambiare Paese.
Prima di iniziare, guardami negli occhi: francamente, c’è una domanda, su tutte le altre, che vorresti fare?»
«Ho il diritto di scegliere?»
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Qualcosa ho capito.
Qualcosa ho anche
finalmente imparato
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 9 aprile 2020
Ora compro la pasta buona. Sì, ho capito che qualche decina di centesimi in più possono garantirti un piatto di spaghetti o di penne – rigorosamente rigate – decisamente migliore: non ha senso risparmiare su questo. Ho iniziato a comprare solo prodotti “di qualità”, il prezzo della spesa settimanale è decisamente lievitato. Del resto, quale altra occasione avrei di spendere durante la settimana di reclusione?
Ho ricominciato a comprare i giornali ed i settimanali cartacei, abbandonando le loro edizioni digitali: perché privarmi del lusso di andare in edicola e di toccare, sentire, l’odore delle pagine? In tempi in cui le emozioni e le sensazioni sono ridotte all’osso, tutto è ben accetto.
Finalmente ho iniziato ad utilizzare per davvero il piccolo balcone della mia stanza, vicino al letto: mai avrei immaginato quale immenso privilegio potesse rappresentare. Prendo un giornale, un libro, accendo una piccola cassa Bluetooth e attacco con il sottofondo musicale giusto: la mia tipica domenica mattina, da qualche settimana. Da lì prendo un po’ di sole, incredibile quanto sia beffardo con quel cielo azzurro. Ma era davvero così azzurro prima?
Da lì osservo gli altri. C’è la coppia del palazzo di fronte che fuma in silenzio, c’è il vicino che si spalma la crema solare – di già? – e si sdraia beato, indifferente. Poi c’è il cane che abbaia, sempre, senza che la signora del piano di sotto se ne curi più di tanto: è uno dei pochi sottofondi sonori della giornata. Sì, è vero: ci sono anche le ambulanze, in lontananza: da quando è iniziato tutto questo non è passato giorno senza aver sentito almeno una sirena. Nemmeno un giorno. Probabilmente adesso ci faccio più caso, non ci sono molti altri rumori, ma è un dato di fatto: quel suono è tipico di questi giorni.
Ho finalmente capito che fare una telefonata non è poi questo dramma o quell’orribile seccatura che ho sempre temuto. Ho cominciato ad utilizzare il telefono non solo per inviare messaggi e foto ma anche, strano ma vero, per telefonare. Ho capito che ascoltare quella voce che vuoi sentire per davvero può fare da parte qualsiasi remora, qualsiasi dubbio.
Ho iniziato a lavare le mani come mai avevo fatto fino ad ora: ben oltre i venti secondi consigliati, con plurimi e ripetuti passaggi, sopra e sotto, sotto e sopra, di lato e di sbieco, incrociando le dita. Ho scoperto che mi piace: credo che manterrò questo rito.
Ho imparato a rispettare la mia scrivania, ancora di più: è il fulcro della mia giornata, un mobile che sembra aver assunto tutte le caratteristiche e la dignità di un luogo. Lì ci lavoro, lì videochiamo le persone a me care, lì guardo un film, sospirando e pensando al cinema. Sì, la rispetto ancora di più. Per questo la pulisco, quasi maniacalmente: deve essere perfetta.
Ho imparato che posso abituarmi a molte cose e che posso trovare la forza di resistere, anche laddove non lo ritenevo possibile.
Ho iniziato a pensare ancor di più all’estate e al mare: no, non resisterei alla loro mancanza. Forse.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
L’insegnamento
di non rimandare
nulla, se possibile
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 8 aprile 2020
Riguardo le foto di prima. In particolare mi soffermo su quelle scattate tra la fine febbraio e inizio marzo: l’inconsapevole vigilia di tutto quello che stiamo vivendo adesso. Mi vedo in locali, vicoli, pieni di gente. Sono in compagnia dei miei amici. Oppure sono in una piazza, stracolma di persone: c’è il mercatino dell’usato, è domenica e c’è il sole. Tutti siamo in giro, tutti ci godiamo Bologna. Vedo la foto di un biglietto del cinema: l’ultimo spettacolo, l’ultima pellicola in sala, per chissà quanto tempo ancora. Vedo un signore anziano suonare il piano in un locale: ricordo bene quella sera, quell’atmosfera. Eravamo tutti abbagliati e stupiti dalla vitalità di questo pluriottantenne che ci coccolava con la sua musica, un pezzo dopo l’altro, a memoria. Chissà dove sarà adesso. Starà bene?
Guardando quelle foto, quei pezzi di vita antecedente, mi chiedo: quali erano i miei pensieri? Di cosa mi preoccupavo allora? Che progetti avevo per le settimane e i mesi successivi? Sapevo cosa stava per arrivare, ero pronto? Sicuramente no.
Sono le stesse domande che qualche volta mi sono posto pensando a quelle donne e quegli uomini vissuti nel 1939 o nel 1914, a pochi mesi dallo scoppio delle due guerre mondiali. Sapevano che la tempesta era in arrivo? Sentivano che le loro vite sarebbero cambiate per sempre da un momento all’altro? Come vivevano quei giorni? Erano in ansia, erano preoccupati, avevano qualche presentimento? Oppure le loro esistenze procedevano normalmente, come sempre, ignare? Oggi sorrido pensando a quanto fossero ingenue quelle domande.
Non amo le metafore belliche utilizzate per raccontare queste giornate. Non è possibile paragonare la follia distruttrice, tutta nostra, dei grandi conflitti con ciò che stiamo vivendo oggi; è sbagliato utilizzare frasi, termini e suggestioni provenienti dal mondo delle battaglie sanguinarie e dei conflitti tra stati. Abbiamo già il vocabolario adatto per affrontare e raccontare questa emergenza sanitaria e resistere alla quarantena. Eppure, è innegabile che ciò che sta accadendo è il primo grande evento realmente globale, totalizzante e dirompente che l’umanità abbia vissuto da decenni a questa parte. Il suo impatto, dall’entità ancora sconosciuta, ci rimanda automaticamente alle grandi tragedie del Novecento.
Forse per questo la mia mente fa quel salto lì, si chiede come i miei nonni vivessero la vigilia del conflitto, se erano consapevoli di ciò che sarebbe arrivato a breve. Perché sorrido e ritengo ingenui dubbi come questi? Perché è molto probabile che in pochissimi sapessero davvero cosa gli avrebbe riservato il futuro, così come io ero del tutto ignaro a fine febbraio dell’arrivo imminente di tutto questo. Perché l’idea di voler programmare tutto, di immaginare in anticipo cosa faremo nelle prossime settimane e magari di preoccuparsi per le scadenze future, è solo un’illusione. Ciò non significa che non sia importante e che, a giuste dosi, non vada coltivata. Ma rimane ciò che è: una chimera.
Forse, tra i tanti insegnamenti che questa quarantena ci avrà impartito, dovremo lasciare spazio a questo: non rimandiamo nulla se non strettamente necessario, viviamo il presente al meglio delle nostre capacità e diffidiamo, giusto un po’, del futuro. Non perché debba essere per forza negativo: semplicemente per la sua natura. Impariamo a capire e ad accettare l’incognita dei giorni che ci aspettano, senza averne paura.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Aboliamo subito
quel bollettino
quotidiano
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 7 aprile 2020
Ma davvero abbiamo bisogno del bollettino quotidiano della Protezione civile? Davvero è necessario accendere il televisore verso le 18 e attendere il flemmatico responso di Angelo Borrelli, accompagnato dall’accurata e grigia precisione di Silvio Brusaferro o di Franco Locatelli? Questi tre nomi fanno ormai parte del pantheon della nostra pandemia quotidiana, un’influenza collettiva fatta di sciamani, rituali e miti. Il rito delle 18.00 è ormai un appuntamento imperdibile per milioni di noi. Restiamo tutti in attesa di quel dato lì, di quell’aumento in particolare o di quel calo, sempre seguito dall’immancabile “purtroppo” borrelliano, che sappiamo precedere il numero dei deceduti. Abbiamo imparato a sentire e a capire concetti come “picco” o “plateau” o “curva esponenziale”. Sappiamo riconoscere l’aumento degli attualmente positivi e distinguiamo attentamente i morti per Coronavirus da quelli con Coronavirus. La matematica del Covid-19 si è fatta strada nelle nostre vite, vi ha preso posto e non accenna ad andarsene via.
Mi sono reso conto di essere in qualche modo dipendente dal bollettino delle 18.00, di averlo caricato di aspettative che forse non meriterebbe e di avergli assegnato un compito gravoso: decidere una buona porzione del mio umore serale. Inizialmente era davvero l’unica vera notizia che aspettavo durante la giornata di reclusione. Poi, a mano a mano, abituandomi alle logiche della quarantena ed anche alla sua informazione quotidiana, ho capito che quei dati non sono tutto. Anzi: sono terribilmente incompleti, parziali, quasi bugiardi. Ho capito che il numero di contagiati stimati è enormemente più alto, così come quello ragionevolmente previsto per i decessi: troppi, molti di più. Mi sono informato sui “tamponi”, sul loro meccanismo e su quali regioni ne effettuano di più e perché. Ho incamerato, insomma, una mole immensa di informazioni che mai avrei immaginato potessero interessarmi e riguardarmi. Eppure è lì, sempre più grande, sempre più complessa.
Che cosa ho capito? Possiamo fare a meno di quel bollettino giornaliero, anzi, dovremmo abolirlo. Non abbiamo bisogno di un continuo e illusorio aggiornamento sulla diffusione della pandemia a reti unificate. Quei dati sono utili solo perché in grado di indicarci una tendenza, uno sviluppo a medio termine. Proprio per questo è superfluo che vengano letti e diffusi, in quel modo, ogni giorno. Perché non cambiare e renderlo un aggiornamento a cadenza settimanale? Perché non emanciparci da questo rito ormai stanco? Rischiamo di esserne assuefatti, quasi insofferenti.
Rischiamo di leggere quella cifra lì, quella dei decessi, come una cifra quotidiana tra le tante. E non dovremmo, mai. Arriverà il tempo dei bilanci e dei conteggi definitivi o quasi. Ma, fino ad allora, aboliamo quel rito. Possiamo farne a meno.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Dubitiamo sempre
senza dimenticare
di dover scegliere
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedì 6 aprile 2020
In questi giorni discuto spesso con amici dalla provenienza più varia: umana, geografica, professionale. Ci si confronta su vari aspetti dell’emergenza: ognuno di loro mi porta il suo apprezzatissimo punto di vista, mutuato dalle proprie esperienze e sensibilità uniche e peculiari. In questi confronti vengono fuori proposte, critiche, idee sul futuro; ma anche malessere, sfiducia, rabbia e voglia di individuare coloro che si ritengono responsabili di scelte sbagliate e dannose.
Mi sono accorto, pensandoci bene, che il mio modo di rispondere e di approcciarmi all’emergenza che viviamo può risultare parecchio irritante, forse inconcludente. Per indole ho sempre diffidato da qualsiasi giudizio assoluto e sono sempre stato propenso a mettere in discussione tutto, a cominciare dalle mie credenze più radicate. Diffido di chi pretende di avere sempre la risposta giusta, senza dubitare. Per questo mi guardo bene dalle semplificazioni eccessive e dalla tendenza a voler spiegare tutto e subito. La mia risposta in questi giorni, ai tanti temi toccati ogni volta che si parla dell’emergenza che ci ha travolto, è questa: «è più complicato di così!».
Pensandoci bene, quando commentiamo anche l’aspetto più basilare e semplice di questi giorni, in realtà stiamo toccando solo la punta di un iceberg enorme e ben nascosto. Un esempio? La polemica delle autodichiarazioni e del famoso modulo del Ministero dell’Interno che cambia in continuazione. Si potrebbe subito dire: è una follia, non si capisce niente, non fanno altro che complicare la vita ai cittadini. Probabilmente non si sbaglierebbe completamente nel dire ciò ma, appunto, questa sarebbe una risposta limitata a un problema (e a una domanda) ben più grande e complesso. L’autodichiarazione che cambia sottintende l’esistenza di uno Stato che non vuole ricorrere alla forza bruta e al suo potere repressivo e di controllo. Significa che lo Stato ha scelto di puntare, più che sulla sanzione, sul comportamento responsabile dei singoli cittadini che, appunto, con un loro stesso atto affermano di essere in regola con le limitazioni predisposte. Il fatto che quel modulo cambi, vuol dire che dietro quelle parole, formulate in quel linguaggio oscuro e burocratico, c’è dietro un continuo interrogarsi su come garantire il rispetto delle misure imposte e la libertà individuale dei singoli; quella stessa libertà oggi fortemente limitata.
Quel modello è stato via via integrato da alcuni punti riguardanti le ordinanze regionali: significa che il Governo non è onnipotente ma che vi sono altre autorità, con loro specifiche competenze, incaricate di gestire l’emergenza. Ecco però che, partendo proprio da questo punto, arriviamo a parlare di un altro problema: sta funzionando il regionalismo? Un sistema così delineato è funzionale in una situazione eccezionale come questa?
E le fabbriche chiuse? Perché alcune sì e altre no? Non sarebbe più giusto chiudere tutto? Va bene, ma come facciamo poi con i beni di prima necessità nei supermercati e nelle farmacie? Ma perché non creano un sistema per tracciare i movimenti di tutti? E il rispetto della privacy? E perché il Governo fa questo invece che quest’altro?
Confusione? Sì, parecchia. Io non riesco a dare una risposta netta senza aprire un’altra parentesi, altrettanto complessa. Il rischio qual è? A furia di fare sempre i relativisti non si arriva da nessuna parte, non si costruisce nulla e, in definitiva, non si risponde. Può diventare una comoda scappatoia. Tuttavia arriva il momento in cui bisogna prendersi la responsabilità di un’opinione chiara e precisa, tracciando dei punti fermi. In particolare, i decisori politici devono quanto prima adempiere al loro dovere primario: indicare un indirizzo politico per uscire da questa crisi. O almeno provarci, prendendosene la responsabilità. Non invidio affatto chi dovrà decidere, anzi. Colgo tutta la difficoltà di bilanciare interessi diversi e spesso conflittuali tra loro. Capisco che la situazione è unica, inaspettata, incognita. Ai decisori politici va tutta la mia comprensione e il mio rispetto. Ma è arrivato il momento di scegliere e di indicare una strategia.
Nel mio piccolo, anche io cercherò di indicare alcuni miei punti fermi e principi che ritengo non negoziabili, anche nel fronteggiare una crisi sanitaria come questa. Il dubbio sarà sempre il mio principale strumento di riflessione e di stimolo. Ma a esso accompagnerò anche un po’ di coraggiosa decisione: così vedrò di irritare di meno le persone con le quali discuterò e, forse, aggiungerò qualcosa di più al nostro dibattito.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Piccoli rimedi
per l’emotività
della domenica
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 5 aprile 2020
Domenica delle Palme, senza palme, senza domenica. Almeno quest’anno non dovremo destreggiarci tra micidiali gruppi Whatsapp dedicati all’organizzazione di cosa fare a Pasquetta: piccola, timida consolazione. La mia domenica di quarantena ha ormai assunto una fisionomia ben definita: qualche ora di sonno in più la mattina, rapida sortita in edicola, rientro a casa, lettura di tutto “l’arretrato” accumulato in settimana. E poi di nuovo con la testa al lunedì, con la ripartenza del lavoro agile incollato alla scrivania. L’eterno ritorno dell’uguale, avrebbe detto qualcuno.
Uguali sono anche le riflessioni di questi giorni che si ripresentano ciclicamente, in un saliscendi di speranza e nervosismo, fiducia e scoraggiamento. Difficile rompere questa gabbia e ritagliarsi momenti di pace e tranquillità interiore. La stessa lettura di quotidiani e settimanali, inevitabilmente strutturati attorno allo stravolgimento collettivo che stiamo vivendo, rischia di farci soffocare ulteriormente. Articoli e saggi stimolanti si alternano a riflessioni già lette, già sentite. Il giornalismo corre sempre di più il rischio di incartarsi su se stesso e di produrre pagine sempre uguali, con solo qualche cifra a differenziarle tra loro.
Forse anche per questo rischio, sto imparando ad apprezzare sempre di più il lavoro dei fotografi. I loro scatti, pubblicati proprio su quegli stessi quotidiani e settimanali, riescono ad andare dritti al punto della questione e della vicenda umana che intendono rappresentare. Alcune immagini sono molto potenti e significative, a modo loro già storiche. I volti del personale sanitario impegnato nel fronteggiare questa pandemia sono schiaffi difficili da schivare, scosse impossibili da ignorare. Le mani dei malati che non sanno se protendersi verso i medici, gli infermieri e i volontari, unica garanzia di speranza. Le file davanti i supermercati, ordinate e silenziose, che assumono forme strane e innaturali. Le città senza di noi, relegate al ruolo di meri gusci vuoti. Molte di queste foto mi commuovono e mi scuotono, ma almeno mi fanno sentire qualcosa: e questo è il miglior rimedio contro quel vortice di apatia che ogni tanto si ripresenta, specie nel weekend.
Un altro rimedio l’ho conquistato del tutto per caso, per un colpo di fortuna. Stamattina tornavo dall’edicola con il mio solito carico di giornali quando a un tratto, proprio vicino a un cassonetto della spazzatura, li ho visti. Si trattava di due libri, copertina rigida e marrone, pagine intatte ed emananti un odore passato ma piacevole: la classica promessa di un libro chiuso da tempo ma ancora in grado di dare tante soddisfazioni. Erano due raccolte di tragedie greche: una di Sofocle, l’altra di Eschilo, entrambe pubblicate nel 1973, come ho scoperto leggendo in prima pagina, subito dopo aver svoltato la bella copertina rigida. Entrambi erano perfetti, puliti e intatti, poggiati sopra altri pezzi di cartone: non ci ho pensato due volte e li ho portati con me. Dopo averli disinfettati per scrupolo, li ho immediatamente promossi al rango di libri da comodino. Sarà poco, forse sì, forse no, eppure questo piccolo episodio mi ha aiutato a dare un voto positivo a questa “domenica delle palme”. Forse le premesse per Pasqua non sono e non devono essere per forza negative.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La consapevolezza
di vivere, adesso,
un periodo storico
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 4 aprile 2020
Stiamo vivendo un periodo storico e ne siamo consapevoli. Non si tratta di una giornata, di una singola data che verrà scolpita nella memoria collettiva come l’11 Settembre 2001. Si tratta di un vero e proprio momento lungo, fatto di settimane che si susseguono tra loro senza che si intraveda una fine. Un momento storico che cambierà radicalmente la nostra società: lo sta già facendo. Questa consapevolezza è ampiamente condivisa e la si ritrova quotidianamente nei telegiornali, sugli editoriali della carta stampata, nelle videochiamate con i nostri cari. Siamo tutti consapevoli che ciò che sta succedendo ora, proprio adesso, è un punto di svolta che riguarda le nostre vite e la nostra individualità e che cambierà radicalmente tutto ciò che ci circonda. Non sappiamo come, ma sappiamo che lo farà: ne siamo certi.
Ognuno di noi cerca di leggere nel presente qualche indizio di ciò che sarà. Prevale un certo pessimismo, la sensazione che abbiamo di fronte un periodo carico di incognite in cui dovremo tirare la cinghia e stringere i denti. Le conseguenze economiche e sociali di questo isolamento forzato hanno già iniziato a farsi sentire ed è solo un amaro antipasto di ciò che ci aspetta. Viviamo questo enorme esperimento sociale sotto il peso di domande nuove, opprimenti e difficili.
Quando torneremo a viaggiare? Potremo tornare al cinema, a teatro, a mangiare una pizza fuori con gli amici? E quando sarà possibile andare dove ci pare, senza dover fornire spiegazioni e senza avere un’esigenza prescelta da qualcun altro? Quando tornerà in equilibrio il rapporto tra i poteri dello Stato, momentaneamente (?) sbilanciati in favore dell’Esecutivo e del suo Comitato scientifico? Esisterà ancora l’Unione europea e, se sì, come? Quale sarà il contraccolpo per l’occupazione? Le aziende riusciranno a reagire a questa serrata catastrofica? Si tratta solo della punta di un iceberg di incognite che ciascuno di noi cerca di arginare.
Ogni crisi, specie se così profonda e di tali proporzioni, porta con sé le fondamenta del nuovo mondo che inevitabilmente andrà a creare. Ci attendono mesi, forse anni, molto complessi, ma dobbiamo tenere bene a mente che non mancheranno le occasioni per costruire qualcosa di nuovo, ripensare ciò che non ci convinceva, limare ciò che ritenevamo imperfetto. Una crisi mondiale e storica come questa potenzialmente può rivoluzionare tutto. Non sappiamo cosa cambierà ma abbiamo la certezza che ciò avverrà e, soprattutto, lo sappiamo già ora, mentre viviamo il momento. Si tratta di un vantaggio non da poco: sapere di stare vivendo un cambiamento storico può permetterci di mettere in moto già da ora le nostre energie propositive migliori.
Come mi è stato detto ieri da un mio caro e sveglio amico: «in ogni grande cambiamento c’è sempre una regola da seguire: chi non ha nulla da perdere ha tutto da guadagnare. Non so cosa ne uscirà fuori ma bisogna stare con le orecchie all’erta». Sono bastate queste parole, poche ma chiare, a tirarmi un po’ su di morale e, soprattutto, a svegliarmi dal torpore che troppo spesso fa da padrone in questi giorni. E scusate se è poco.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
Vivendo la distopia
conosciuta
solamente nei libri
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 3 aprile 2020
Una voce, fredda, quasi meccanica: «siamo responsabili del rispetto delle misure disposte dal Governo e sottoposte ai controlli dell’Autorità sanitaria. Per favorire lo scorrimento della fila, siete pregati di limitare la presenza nel reparto ortofrutta e comunque di limitare il più possibile il tempo dedicato agli acquisti». Un messaggio ripetuto più volte, a cadenza regolare. Attorno voci più basse, quasi impercettibili, in un turbine di gesti meccanici: prendi dallo scaffale, metti nel carrello, vai avanti.
Il contesto è sempre lo stesso: il solito supermercato, uno degli ultimi baluardi di società rimasti. Lo frequenta un’umanità diversa. Volti tagliati a metà da mascherine, che lasciano trasparire occhi stanchi e tristi, quasi impauriti; a volte arrabbiati, quasi insofferenti. Occhi diffidenti, critici: «perché non indossi la mascherina?», sembrano dirti. «Perché non riesco a trovarne ma ce la metterò tutta, promesso», vorresti rispondere, con sguardo implorante comprensione.
Paradossalmente la solitudine fa da padrona proprio nell’ultimo luogo di aggregazione rimasto. Qualcuno è seguito da un compagno o una compagna: non si potrebbe, ricorda la voce metallica. «Una sola persona per nucleo familiare», gentile clientela. Io sono solo e non vedo l’ora di andare alle casse e godermi quel «ha la tessera?», unica vera interazione in circa un’ora di vagabondaggio nevrotico.
Solo qualche settimana fa recensivo per Bottega editoriale un bel racconto di una fantasiosa scrittrice esordiente. Si trattava di una distopia: il genere letterario che parte da alcuni elementi già presenti in società per poi distorcerli ancor di più, creando un mondo terribile e opprimente. Immaginando una società alternativa ed evocandone i suoi aspetti più feroci, la distopia ti costringe a riflettere sul tuo presente, sulla tua attuale società. Questo genere mi ha sempre affascinato: ho letto avidamente 1984 di Orwell e altri grandi classici affini. Ho letto e amato Cecità di Saramago, tanto ripreso e citato in questi giorni.
Amo e conosco il genere, insomma: che si tratti di libri o di film. Mai avrei immaginato di vivere attivamente una distopia di questo tipo. Mai avrei immaginato di non riconoscere più la mia società, la città in cui vivo, i luoghi che frequento abitualmente. E che dire di quei richiami, sia scritti che verbali, al mantenimento delle distanze? E di quei cartelli pieni di riferimenti a Dpcm e norme che sono entrate con prepotenza e crudele efficacia nel nostro quotidiano? Non avrei mai immaginato di voler tornare a casa, quasi di voler scappare da una serata di aprile solo apparentemente gentile e primaverile.
Non so che tipo di società saremo quando finirà tutto questo. Di certo dovremo immediatamente riacquistare la nostra umanità, adesso sonnolente e reclusa in quarantena.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
L’emergenza sanitaria
come alibi repressivo
Incubo o realtà?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 2 aprile 2020
Oggi mi metto in pausa e passo la parola a Fulvio Mazza.
Buone considerazioni!
Alessandro Milito
Ho fatto un brutto sogno. Pessimo direi, perché concretamente realizzabile.
Ho sognato che, a seguito di dissidi fra i partiti al governo, c’erano state nuove elezioni e aveva vinto il Centrodestra. Salvini era il nuovo presidente del Consiglio e Ignazio La Russa era diventato ministro della Sanità.
Ho sognato che in Sicilia era sbarcato, da solo, un immigrato e che
era stato dichiarato, da un medico inviato dal ministero, affetto da un virus non meglio identificato. Subito il ministro La Russa aveva decretato lo stato di crisi sanitaria nazionale e, conseguentemente, l’obbligo per tutti cittadini di non uscire dalle proprie abitazioni.
In particolare, il presidente Salvini disse che l’immigrato affetto del sospetto virus era stato isolato e che non poteva rapportarsi con alcuno. Disse che parlava un dialetto rarissimo e che era stato costretto a inviare, dal ministero, un particolare mediatore linguistico. Disse che l’immigrato aveva dichiarato che un suo amico, che era sbarcato la settimana precedente in Italia, lavorava in nero presso un negozio del Centro storico di Roma vicino la Camera e il Senato.
Sulla base di questo dato il ministro La Russa decretò una “Zona rossa” proprio nel centro cittadino della capitale dove c’erano, appunto, la Camera e il Senato. Disse che in quella zona non si poteva assolutamente circolare.
Le opposizioni immediatamente gridarono all’attentato, alla violazione delle libertà civili e politiche. Ma La Russa ebbe gioco facile a tacitarli, evidenziando che non aveva fatto altro che copiare, aggiornandolo, ovviamente, l’analogo decreto che era stato emanato nella primavera del 2020 da un ministro al di sopra di ogni sospetto democratico: il ministro Roberto Speranza, appartenente a Leu.
Anche il presidente Salvini mise in rilievo che i suoi decreti mutuavano esattamente quelli emanati dal Presidente del Consiglio del governo appoggiato dalle sinistre: Giuseppe Conte.
La Russa ebbe buon gioco anche nell’affermare che lui era stato più democratico di Speranza in quanto il precedente governo era intervenuto quasi sempre con decreti amministrativi, che non necessitavano di interventi legislativi, mentre il governo di Centrodestra aveva adottato provvedimenti che andavano poi ratificati in Parlamento.
Non era colpa sua, disse, se il pericolo di virus si era incastonato particolarmente nella zona del Parlamento e se dunque nessun parlamentare poteva partecipare alla discussione e alle votazioni dei decreti. Aggiunse che, quando la crisi sanitaria sarebbe terminata, il Parlamento sarebbe stato riaperto e i parlamentari avrebbero potuto esprimersi. Ma disse anche che non sapeva minimamente quando ciò sarebbe avvenuto: giorni? Mesi? Anni?
Il governo disse che, per una migliore tutela dei cittadini, non era permesso uscire per andare in edicola.
Di conseguenza, i giornali non uscirono.
Rimaneva l’informazione su Internet ma, guarda caso, le reti informatiche furono un attaccate da un hacker e funzionavano molto male, per non dire per nulla.
La situazione era drammatica: nessuno sapeva bene cosa stesse succedendo. Le comunicazioni non c’erano, ma tutto era nella perfetta legalità perché, come furono oggettivamente costretti a dichiarare anche alcuni costituzionalisti di sinistra, in effetti, il governo, non aveva fatto null’altro che replicare quanto aveva fatto in precedenza il governo Conte qualche anno prima.
Tutto legittimo, dunque!
Io sudavo freddo, mi battevano i denti. Il rumore di una specie di mitragliatrice – in effetti: i miei denti stessi – mi svegliò. Capii che era stato un incubo.
Ma quell’incubo rimane: ragioniamoci su, da svegli.
Abbiamo accettato una normativa eccezionale e liberticida; forse non si poteva fare altro, forse il virus ci ha preso alla sprovvista anche dal punto di vista normativo.
Ma abbiamo il tempo di ragionare bene e di codificare subito e con chiarezza l’iter necessario per un’eventuale replica di decreti analoghi a questo.
Vanno posti dei paletti chiari e netti che passino da una obbligatoria certificazione dell’Istituto superiore di sanità, da una firma obbligatoria del presidente della Repubblica, e, soprattutto, da una maggioranza parlamentare dei due terzi degli aventi diritto.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La forza gentile
di un semplice
buonasera
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 1 aprile 2020
Oggi ero convinto che non avrei scritto nulla. Nessuna novità, nessun pensiero, nessuno stimolo particolare o comunque meritevole di uscire dalla mia intimità e riversarsi su una pagina. La monotonia, il grigio ripetersi di azioni e gesti sempre uguali e limitati al solito contesto casalingo, l’assenza di un evento diverso che spezzi questa catena, incominciano a dettar legge. L’ho notato in altri diari e pensieri trascritti da altri amici o penne che mi piace seguire e leggere: non riusciamo a pensare ad altro che sia diverso dalla quarantena e dal virus, cominciamo a diventarne assuefatti e stanchi, inespressivi.
Ero convinto che non sarebbe accaduto nulla che valesse la pena cristallizzare e ricordare. Mi sbagliavo. Ancora una volta, è stato un piccolo, inaspettato e insospettabile gesto a farmi ricredere. Un buonasera lanciatomi con timida gentilezza da una signora, nell’androne del portone. Ero uscito per buttare la spazzatura, fare il solito giro attorno al palazzo, respirare un po’ d’aria e ritornare al nido. Scendevo le scale, ero arrivato proprio all’ultimo gradino…ed ecco l’incontro. La signora aveva con sé la spesa, una mascherina verde e un’aria vigile. Nel vedermi, si è subito spostata di lato, ha fatto un passo indietro e poi ha lasciato che la consueta cortesia del buonasera riportasse un pizzico di normalità. Ho risposto prontamente, piacevolmente stupito, premurandomi di rispettare il suo passo indietro.
Subito dopo mi sono reso conto che quello appena passato era il primo contatto sociale avuto da un paio di settimane a questa parte. Bisogna precisare: vivo con due cari amici, non sono solo. Videochiamo continuamente amici e parenti sparsi per l’Italia, ho persino giocato a Risiko online per abbattere la quarantena a suon di carrarmatini. Sono anche andato al supermercato e in edicola. Tutti questi contatti però si differenziano da quel buonasera, slegato da qualsiasi prodotto o giornale acquistato, indipendente dal rapporto stretto tra coinquilini e distante dal saluto mutuato da uno schermo. La cortesia, impacciata e protetta da una mascherina, mi ha comunque fatto sorridere, riportandomi a una parvenza di normalità tanto agognata.
Ho sempre detto buongiorno e buonasera, ho sempre lasciato uscire per prima gli altri dall’ascensore, ho sempre rispettato quei gesti di civile convivenza, educata e distante. Di una cosa però sono certo: quando finirà tutto questo sarò ancora più caloroso e quasi urlerò «buonasera signora!»
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 151, aprile 2020)
La strana euforia
per una circolare
chiarificatrice
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 31 marzo 2020
Una circolare del Ministero dell’Interno inviata ai prefetti. “Ai Sigg. Prefetti della Repubblica, loro sedi, per quanto di competenza”, per utilizzare il goffo e solenne burocratese, il linguaggio della normativa dell’emergenza che volenti o nolenti milioni di italiani hanno imparato a conoscere. Una circolare che ha fatto chiarezza sull’ormai noto dilemma: «ma la passeggiata si può fare?». Quest’atto chiarificatore ha inoltre stabilito che si può uscire di casa con il proprio figlio minore: un genitore alla volta, solo in prossimità dell’abitazione.
Se mi avessero detto qualche settimana fa che avrei gioito per una circolare ministeriale mi sarei fatto una sonora - e forse preoccupata - risata. Fatto sta che, dopo averla letta e aver finito di lavorare, ho fatto l’insano gesto: sono uscito di casa. Sia chiaro: conoscevo già la normativa Governo, tutte le misure restrittive e le possibili sanzioni. So bene che il concetto fondamentale che le ispira è quello di garantire il distanziamento sociale, limitare gli spostamenti il più possibile. Allo stesso tempo, ho sempre saputo che fosse possibile «esercitare attività motoria» da soli, in prossimità della propria abitazione. Eppure, anche quando uscivo furtivamente di casa, rispettando tutte le regole e limitandomi a un breve giro del palazzo, mi sono sempre sentito un po’ in colpa. Non so perché. Strano sentirsi in colpa per un proprio spostamento: altra incredibile sensazione che questa quarantena ci ha regalato.
Oggi, il burocratese rassicurante e chiarificatore della circolare, mi ha regalato una passeggiata meravigliosa. Perché sì: si può fare. In solitaria, in prossimità dell’abitazione, con parsimonia. Ma è possibile fare il giro del proprio condominio ed evadere per qualche minuto.
Appena uscito mi ha investito una brezza gentile, accompagnata da un cielo ancora azzurro e luminoso nonostante fossero già passate le 19 da un po’. Per strada, qualche genitore con il suo bambino, qualche passante con il suo cane: ma ce n’erano davvero così tanti prima? Lasciando da parte questi pensieri rancorosi, frutto di quarantene deleterie, mi sono goduto ogni singolo attimo di quell’elettrizzante giretto di 5 minuti. Il cielo era davvero limpido, quasi da risultare antipatico. Antipatici erano i colli, il confine in cui Bologna inizia a farsi Appennino: si vedevano benissimo e quasi invitavano a far loro visita. Ho subito pensato: quando finirà tutto questo, quando potrò veramente uscire di casa, andrò in giro per i colli, per davvero, a piedi.
L’altro pensiero l’ho dedicato alla nostra fragilità e duttilità, a entrambe: a come riusciamo ad accontentarci di qualcosa che prima era assolutamente normale e privo di significato; riusciamo a trovare bella e gratificante una passeggiata di qualche minuto, nella solita stradina del solito quartiere visto ogni giorno. Questa capacità di adattamento può essere una forza: può farci capire quanto sia sbagliato dare per scontato alcune cose, quanto sia sciocco non considerare ciò che è sempre stato sotto i nostri occhi: ma non ci abbiamo mai fatto caso.
Eppure sono ritornato al mio rifugio con sentimenti contrastanti: sono felice della passeggiata, dell’aria finalmente respirata, quella vera, non quella delle quattro mura di casa. Allo stesso tempo non voglio continuare ad accontentarmi, a gioire per un chiarimento di una circolare ministeriale. Rivoglio la mia libertà di movimento, rivoglio la mia città, la mia noiosa vita quotidiana, quella di sempre.
Oggi continua il «trend positivo», pare che il picco sia stato raggiunto e che forse lo stiamo superando. Certo, sono morte 837 persone. Sì, sono quasi venti volte le vittime della tragedia del ponte Morandi che ci indignò e commosse due anni fa.
«Tuttavia le misure stanno funzionando ma non dobbiamo mollare la guardia». E io sono felice per una circolare ministeriale.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Che tipo di società
saremo dopo
la quarantena?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 29 marzo 2020
Due settimane e un giorno: è l’età di questo diario. Quando ho iniziato non pensavo che avrei scritto così tante pagine. Forse in cuor mio speravo che questa reclusione si sarebbe attenuata presto o che comunque avremmo trovato il modo di convivere con l’emergenza, senza rinunciare completamente alle nostre abitudini e al nostro stile di vita. Queste due settimane hanno smentito buona parte delle mie prime e ingenue convinzioni.
È quindi arrivato il momento di ricorrere a nuove dosi di ingenuità in sostituzione di quelle ormai esaurite. Ecco perché voglio chiudere gli occhi per qualche minuto e immaginare come sarà il dopo. Che tipo di società vivremo? Riusciremo a far tesoro dei drammi che stiamo vivendo in queste giornate drammatiche? Torneremo a essere liberi cittadini di una repubblica democratica e parlamentare? Sono domande che ancora devono essere interamente formulate e che attendono risposte ragionate e ben pesate: la fretta è cattiva consigliera. Ciò non toglie che dobbiamo e possiamo iniziare a ragionarci su, a immaginare che tipo di domani vogliamo costruire.
Dovremo uscire da questa emergenza con una chiara convinzione: il sistema sanitario pubblico ed universale è uno dei pilastri imprescindibili su cui si fonda la nostra società. Senza di esso non riusciremmo a riconoscerla e a identificarci con essa. Da ciò deve derivare una necessaria considerazione: attualmente il nostro Paese non è in grado di garantire un servizio sanitario degno di questo nome su tutto il territorio nazionale. Ferme restando le eccellenze comunque distribuite in ogni regione, il nostro sistema si basa su un’ormai inaccettabile differenza tra regioni meridionali e settentrionali. Cosa sarebbe successo se l’emergenza fosse scoppiata in Campania o in un’altra popolosa città meridionale anziché in Lombardia? Non vogliamo rispondere a questa domanda perché ci fa paura il solo pensiero. Il regionalismo, frutto della riforma del Titolo V delle Costituzione del 2001, non è riuscito nell’intento di garantire equamente su tutto il territorio il principio fondamentale della tutela della salute. Purtroppo, al di là delle varie sensibilità al riguardo, questo è un dato di fatto: e da ciò dovremo ripartire.
Dopo una sbornia di qualunquismo e di rifiuto di qualsiasi riconoscimento delle competenze, dovremo finalmente tornare a essere tutti più umili. A capire che l’enorme potenziale concessoci dalla rete non ci rende esperti di tutto e che, anzi, ci rende potenzialmente più deboli e ignoranti se non riusciamo a capire quando stare in silenzio e ad ascoltare chi ne sa più di noi. Non siamo tutti medici, non siamo tutti ministri o legislatori: ognuno può diventarlo e, se ci crede, deve provarci. Ma questo non ci abilita a trattare tutti con il medesimo metro di giudizio, a ritenere valida ogni opinione in qualsiasi campo. La scienza non è democratica e non può esserlo. La società democratica deve saper trasmettere le conoscenze scientifiche e formare i cittadini in modo tale che possano riconoscere quando sono presi in giro dal fanatico tuttologo di turno. In attesa del prossimo vaccino che ci permetterà di rompere la nostra reclusione, ricordiamoci di chi ha lottato per impedire le vaccinazioni obbligatorie: vogliamo ripetere lo stesso errore?
La libertà: mai darla per scontata, mai più. La consapevolezza di poter uscire di casa, andare dove meglio si crede; camminare senza avere in tasca un’autocertificazione, senza dover barrare una casella e senza dover dare conto a nessuno del perché abbiamo deciso di muoverci; la possibilità di andare in piazza, manifestare, scioperare, contestare; la garanzia che i nostri spostamenti non saranno tracciati tramite la rete cellulare e che la nostra privacy e la nostra riservatezza sono dei luoghi in cui non si può entrare senza la nostra autorizzazione. Quando sentiremo che, dopotutto, «quando c’era lui di cose buone ne sono state fatte»...ricordiamoci a maggior ragione a che prezzo. Rammentiamo che quel prezzo era la nostra libertà: quanto ci manca in questi giorni? Quanto è essenziale per poter definire davvero la nostra identità di cittadini?
Sono solo alcuni dei pensieri venuti fuori da qualche minuto di occhi chiusi e, forse, sognanti. Il nostro dopo deve iniziare già adesso: pensiamo a come vorremo essere quando questa quarantena sarà il grande racconto da tramandare a chi ancora non è venuto a farci visita
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Fantasia e diario
vaccini contro
la monotonia
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 28 marzo 2020
Sabato, weekend. Ormai ha assunto un significato ben preciso: è il giorno della spesa. Le altre giornate sono dedicate allo smart working o, per dirla con il linguaggio bizzarro del nostro legislatore, lavoro agile. Domenica i supermercati sono chiusi: ordinanza regionale; senza contare che domenica devo uscire per andare in edicola e comprare un giornale e due inserti culturali: un piccolo rito che ancora mi concedo. Insomma, la domenica è già ampiamente occupata, la spesa si deve fare di sabato. E, infatti, sono uscito di casa, mi sono aggiunto alla solita fila, ordinata e silenziosa. Il suono di qualche ambulanza che passa, la voce che ripete alla gentile clientela di «non sostare troppo nel reparto ortofrutticolo e di agevolare le operazioni», lo sguardo diffidente di chi ti vede senza mascherina (ancora non sono riuscito a trovarne una, non è colpa mia). Insomma: tanti piccoli dettagli di quella che, a suo modo, è diventata una routine.
Fortuna che questo diario mi aiuta a spezzare quella monotonia che, altrimenti, diventerebbe davvero difficile da gestire più di quanto non lo sia già. Oggi ho ricevuto un bel racconto, il contributo di un autore che preferisce mantenere l’anonimato. Ancora una volta, noto che l’appello lanciato da queste pagine è stato accolto nel migliore dei modi: non potevo chiedere di più. Perciò, lascio spazio a un punto di vista del tutto particolare: leggendo capirete il perché.
Non avevo mai notato lo scroscio d’acqua siddhartiano di quella fontana che mi è sempre stata di fronte. Nemmeno quando era notte fonda, o sul far del mattino, prima che accadesse “questa cosa di cui tutti parlavano in giro fino a qualche settimana fa”. Per la verità, non lo avevo mai sentito... Quante e quante cose non avevo più ri-sentito. Il grido di insofferenza di una bambina che piange, proveniente per la precisione dal lato sinistro di quella inerte fontana che ho sempre avuto di fronte: “Voglio andare all’asilo! Voglio andare all’asilo! Voglio andare all’asilo!”. Un eco potente, semplice. Un eco che non avrei mai sentito, “prima che accadesse questa cosa di cui tutti parlavano in giro fino a qualche settimana fa”. Un eco inevitabilmente confuso, tra il brusio frizzante di quelli che mi notano e quelli che non mi notano. Adesso, per esempio, basta che apra uno dei miei tanti occhietti ed ecco: riesco finalmente a sentire, ben scanditi, i vari “buongiorno”, “buonasera”, “grazie per quello che state facendo”, “forza ragazzi”, rivolti ai protettori in divisa che ho intorno. Sempre adesso, per esempio, odo ben scandito il nome di qualche Santo invocato coloritamente da chi proprio non è mai consuetamente notato o sentito. Eppure, basterebbe solo ricordarsi dove trascorrono quotidianamente la loro quarantena sociale (magari dietro il lato sinistro di quella sinistra fontana?), se un motivo ora lo permette, naturalmente...loro: “operai che nessuno chiama nella propria vigna”.
Trovare un motivo, per voi, è naturale. Per me, di naturale, c’è, solo, lo scroscio d’acqua siddarthiano di questa fontana che mi è sempre stata di fronte: un sottofondo surreale a “questa cosa di cui tutti parlavano in giro fino a qualche settimana fa”. Per voi, è naturale chiedersi, tra un ritornello musicale e un altro, “cosa sarà”? Per me, è naturale chiedersi, in fedele silenzio, “cosa non sarà”. Per voi, è naturale definirla “una guerra”, “una lotta”, “una trincea”. Per me, che da secoli ne ho viste e sentite di “guerre”, “lotte” e “trincee”, questa cosa non è un istinto di sopravvivenza verso una conquista che si è voluta con le armi. Le guerre si desiderano, si cercano, si vogliono per l’appunto. E poi, francamente, io ne sono la testimonianza diretta: si può sopravvivere/uscirne indenni dai bombardamenti. Comunque, le guerre, vengono dall’uomo, e più precisamente, dalla nota stonata che, arbitrariamente, intende leggere e ascoltare.
Questa cosa non ha nemici. Qualcuno l’ha voluta? È silenziosa, furtiva. È come una grande crepa che, un giorno, può formarsi all’improvviso dentro le mura della Chiesa che ho alla mia destra, da sempre, senza avvisare. E che implica un restauro esteriore e interiore. Chiede di restare a casa, perché un raffreddore può diventare pericoloso, talora letale. Chiede di restare a casa, perché non si può più sognare, fare programmi. Fintanto che, può arrivare il momento che non c’è più la voglia, la forza interna. Come arriva in fretta la notte! E che straordinarie coincidenze...Quanto diventa pesante arrivare a sera e domandarsi se sul piatto della bilancia sia stata più pesante la Croce umiliante della restrizione temporale o spaziale, spirituale o fisica.
Questa cosa non può essere definita. Semplicemente perché non ha definizioni. Si definisce ciò che ha una Ratio. E questa volta, una Ratio non c’è. C’è una ratio scientifica, causale, “come sentivo per le strade fino a qualche settimana fa”. Ma una Ratio, questa volta, non c’è. Togliamoci dal tetto la retorica del Super-uomo, la ricerca (peraltro offensiva e irrispettosa) di un nostro quid da immolare a capro espiatorio di ciò che sta avvenendo, per passare una notte finalmente lieta e tranquilla. Piuttosto domandiamoci: perché siamo alla ricerca di immagini belliche? Perché ci stiamo ritrovando uniti in metafore belliche? Di quali e quanti vuoti, privati e pubblici, è fatto questo “qualcosa da raccontare alle generazioni future”, “questa guerra” accorata? E da quanto tempo si sta incubando “questa guerra” velata che, a detta dei più, aspetterebbe solo di essere squarciata?
Tra tesi e antitesi, io sono solo un palazzo. Un palazzo che ha sempre avuto, alla propria sinistra, persone e istituzioni dedite alla vita civile. Alla propria destra, persone e istituzioni dedite alla vita di fede. Una sintesi, quanto alle conseguenze dell’anno (e degli anni) che verrà, la si potrebbe trovare al centro, senza andare troppo in là con lo sguardo dal salotto in cui mi sono permesso anonimamente di intrufolarmi. I miei occhi sono squadrati e tondeggianti, e non hanno esattamente la stessa forma, a notarli bene. Di fantasia ne avrebbero...eppure continuano a posarsi, addolorati, piangenti, insistentemente, sullo scroscio d’Acqua siddhartiano di questa tranquilla fontana che ho sempre avuto di fronte. E in essa, noto, trovano metaforico, semplice e sicuro Conforto.
Ricordiamoci, insomma, che siamo palazzi: non caserme. “Siamo Uomini, o (incoronati) caporali”?
Un’esperienza come quella che stiamo vivendo, profondamente individuale ma drammaticamente collettiva, cambierà il nostro modo di vedere il mondo che ci circonda, inciderà su come ci approcciamo a esso. Lo sta già facendo. Trovare le parole giuste per descrivere questo cambiamento in atto non è facile: ma è necessario. Abbiamo bisogno di penne agili e fantasiose, disposte a descrivere, raccontare, testimoniare. Andiamo avanti: c’è ancora tanto da scrivere. La fantasia non va in quarantena.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Un’equa “Patrimoniale”
antivirus: non lasciamo
altri debiti ai nostri figli!
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 27 marzo 2020
Il bilancio di oggi è nero: mai così tanti morti in una sola giornata. Il costo umano di questa immane, immensa e storica tragedia comincia a diventare sempre più gravoso. Mentre l’Italia continua a guidare la drammatica classifica dei decessi nel mondo, comincia a diventare sempre più chiaro e tangibile che stiamo per addentrarci in un periodo ricco di incognite e di turbolenze economiche e sociali. La stessa integrazione europea, già ansimante negli ultimi anni, rischia definitivamente di esaurirsi e perdersi per sempre. Il drammatico Consiglio europeo di ieri non ha prodotto alcun reale passo in avanti nella condivisione dell’emergenza sanitaria e nella costruzione di un destino comune.
Il Presidente della Repubblica Mattarella ha rilasciato un breve ma deciso discorso alla nazione, caratterizzato da un insolito tono fermo e deciso contro l’inerzia degli stati membri dell’Unione. E oggi abbiamo tutti negli occhi l’immagine del Papa e della sua solitaria e smisurata preghiera in Piazza San Pietro: una foto che ha già fatto Storia.
Sono giorni di bilanci atroci e di previsioni fosche. Proprio per questo dobbiamo trovare la forza di reagire e di costruire un’alternativa, di immaginare soluzioni economiche e politiche per difendere il nostro tessuto sociale. Dobbiamo avere la forza e la voglia di fare Politica. Per questo oggi voglio lasciare spazio alle parole e alle proposte di Fulvio, direttore di Bottega Editoriale.
Leggiamole, riflettiamoci tutti insieme e, se ne abbiamo voglia e capacità, rilanciamone di nuove.
Afflitti come siamo dagli aggiornamenti circa il nostro caro “virusetto”, la notizia che l’Unione europea ci consenta di splafonare sui vincoli di bilancio sembra aver subito la sordina. Ma, seppur senza troppo chiasso, tutti hanno gioito: «ewwiwa!». E, già che c’era, l’Ue ha consentito la stessa deroga a tutti. Anzi, per farla per intero, abolirà i vincoli stessi «Ewwiwa!, Ewwiva!! Ewwvia!!!».
Nonostante gli “arresti domiciliari” che colpiscono ciascuno di noi, e che potrebbero essere utilizzati per ragionare con maggior ponderatezza le problematiche che ci si pongono dinnanzi, poche o nulle sono state le voci che hanno riflettuto e fatto riflettere che, sul lato europeo, ciò significa fare un passo indietro sul cammino dell’integrazione dei popoli d’Europa, e dell’abbattimento delle barriere nazionali. È chiaro che i vari governi (soprattutto quelli dei paesi ricchi) saranno portati a chiudersi a riccio non accettando più – essendo caduti i parametri di garanzia finanziaria – di mettere assieme i propri conti “forti” con quelli “deboli”.
Ma, al di là di questo: ci rendiamo o non ci rendiamo conto che oltre ad aver passato ai nostri figli i debiti che i nostri padri avevano contratto a nostro danno, stiamo passando loro altri miliardi di debiti aggiuntivi?
Ma certamente, l’esigenza di finanziare lo sforzo straordinario sanitario, come anche l’esigenza di sostenere le famiglie e i lavoratori di ogni tipologia – e più in generale l’Economia – dagli ingenti danni subiti, è un problema reale e imprescindibile.
Allora, parafrasando il nostro vecchio amico Vladimir Il'ič Ul'janov: «Che fare?».
Non v’è dubbio che una equa “Patrimoniale” sarebbe la via più indolore e più efficace.
Indolore perché, tassando i patrimoni immobiliari, si inciderebbe su persone ricche che non si accorgerebbero nemmeno del danno subito. Efficace perché risolverebbe in poco tempo il problema delle attuali spese straordinarie e – se attuato con un po’ di coraggio in più – darebbe un bel colpo all’enorme Debito pubblico che tanto ci danneggia e tanto rende quasi inutile quell’Avanzo primario che con tanta fatica l’Italia riesce a conseguire da diversi anni a questa parte. Ovviamente l’imposizione straordinaria dovrebbe essere progressiva colpendo con un’aliquota più alta i patrimoni maggiori con riduzioni progressive, appunto, sino ai più piccoli e con esenzione per la Prima casa. Ma, sia ben chiaro, solo se il valore catastale non dovesse superare il valore di 100.000 euro; oltre questa cifra si dovrebbe contribuire con un piccolo importo che salirebbe poi seguendo la citata progressività.
Il gettito fiscale sarebbe, oltre che equo e indolore, anche certamente risolutivo: non va difatti dimenticato che l’Italia, accanto a un terribile Debito pubblico, si caratterizza pure per un’enorme ricchezza privata che, in buona parte, si è creata anche grazie ai benefici prodottisi in loro favore dalla spesa pubblica che ha determinato il citato Debito pubblico.
Una “Patrimoniale” siffatta rappresenterebbe dunque sostanzialmente una restituzione, da parte dei grandi beneficiari, di una parte dei benefici ottenuti.
Ma non tutto il gettito andrebbe utilizzato per le misure di compensazione dei redditi persi a causa della nostra reclusione e per la diminuzione del Debito pubblico.
Necessitano investimenti e recuperare veramente l’evasione fiscale.
Due esempi: sul primo punto, forti investimenti per Lavori pubblici urgenti nel campo della tutela idrogeologica del Territorio; sul secondo punto, realizzazione di una migliore e più articolata e precisa realizzazione degli Studi di settore.
Pensiamoci un attimo: facendo pagare una piccola e indolore cifra ai benestanti rivolteremmo la prospettiva attuale. Non consegneremmo ai nostri figli un Debito pubblico ulteriore ma, invece, consegneremmo una situazione migliore sia dal punto di vista finanziario sia da quello ecologico.
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Sono le parole della nostra Costituzione, idealmente connesse a quell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale che abbiamo citato qualche giorno fa.
Cantare dai balconi l’Inno di Mameli è una forma di patriottismo gentile e sincera. Se a questa si accompagnasse una leale e altrettanto patriottica politica fiscale, ne verrebbe fuori una società migliore, non solo guarita da un virus ma anche più giusta. Pensiamoci.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
La narrazione
della crisi chiede
una nuova meta
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 26 marzo 2020
Non può durare ancora a lungo, non così. Molti dei discorsi di questi giorni contengono questo passaggio. Parlando con i miei genitori, con i miei amici, presenti e distanti allo stesso tempo, viene fuori un’insofferenza sempre crescente. Niente di strano: i giorni si accumulano senza aggiungere granché alle nostre vite assopite. La quarantena ha completamente stravolto la nostra concezione di spazio e di distanza. Se prima una passeggiata di quindici minuti mi separava dal centro della città, adesso la distanza tra casa mia e le due torri sembra incolmabile. Quel tragitto, percorso più volte, sembra quasi perdersi nella mia mente, ricoperto da una nebbia fitta e gelida. Ormai il mio perimetro non si spinge oltre la forma rettangolare del mio condominio. Quei minuti passati a girare più volte il palazzo sono diventati ormai la mia ora d’aria che, in verità, di ora ha ben poco.
Questa reclusione era stata accettata quasi di buon grado all’inizio, specie perché accompagnata dalla previsione di un orizzonte, di una fine, non troppo distanti. Oggi è difficile indicare una settimana, un mese a partire dal quale potremo dire: sì, abbiamo fatto il nostro dovere, ora si riparte. «Adesso ricominciamo a vivere».
«Inerti, come una nave dipinta sopra un oceano dipinto», scriveva Samuel Taylor Coleridge ne La ballata del vecchio marinaio, evocando un’immagine che possiamo prendere in prestito e far nostra in questi giorni. La mancanza di un orizzonte visibile, anche solo immaginabile, rappresenta un serio problema che dovremo affrontare collettivamente, quanto prima. Certo: può sembrare ben poca cosa se paragonata alla guerra quotidiana combattuta dalle strutture sanitarie, dai malati e dai loro cari che non riescono a star loro vicini. Ciononostante si tratta di un problema drammaticamente reale nella sua semplicità: la società non può funzionare così. Non siamo fatti per stare soli: siamo animali politici, abbiamo bisogno della nostra polis. Senza di essa, semplicemente, non siamo.
Per questo sarà necessario abbandonare un po’ di quella retorica che ci ha accompagnati fino a ora. Abbiamo bisogno di una narrazione della crisi differente, più realistica, più pragmatica, forse più cinica. Non è più sufficiente raccontarci che «andrà tutto bene» e che potremo riabbracciarci di più in futuro. La fame di un obiettivo, di uno scopo e di una meta richiede un nuovo discorso collettivo. Le autorità politiche e sanitarie dovrebbero al più presto inaugurare una nuova fase comunicativa e motivazionale. Se non lo faranno sarà difficile contenere la fisiologica insoddisfazione dei cittadini che, frustrati e demotivati, potrebbero perdere fiducia nelle misure restrittive, pur necessarie.
La battaglia ancora è lunga: serriamo i ranghi.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
La Cultura
bisogna viverla
collettivamente
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 25 marzo 2020
Non vado al cinema dal 18 febbraio. Ero andato a vedere Fabrizio De André e Pfm: Il concerto ritrovato, un evento speciale da vivere in sala, il giorno del compleanno del cantautore genovese. Il documentario raccontava il prodigioso esperimento, mirabilmente riuscito, di unire la poetica di De André con la raffinata e colorata musicalità della Pfm. Dopo una prima parte dedicata al racconto di questo sodalizio, seguiva la registrazione del concerto tenuto a Genova nel 1979.
Ricordo bene quella serata al cinema il 18 febbraio: la sala era piena, i posti già occupati da tempo; io e i miei due amici che mi accompagnavano eravamo stati costretti a sederci distanti, da una parte all’altra della sala. Cinema pieno, platea attenta e rapita da quel concerto che riprendeva vita come per magia: qualcuno canticchiava a bassa voce sulle note di Bocca di rosa o di Via del campo.
Non vado in libreria dal 9 marzo. La città era già deserta; la libreria sotto le due torri, di solito nota per quella fila lì, davanti le casse, e i suoi soliti e regolari visitatori, pareva addormentata. Certo: qualcuno ci lavorava ancora, cercando di fare del suo meglio, più del solito. Eppure si avvertiva già una precarietà soffocante, la sensazione che il tuffo verso l’incertezza non avrebbe tardato di molto.
Ho comprato un libro in quel lunedì 9 marzo, data di uno degli ormai noti Dpcm dell’emergenza Covid-19: non l’ho ancora iniziato, non so perché.
Non vado in biblioteca dal 29 febbraio. Dovevo restituire un libro, questa volta finalmente nei termini previsti. Ricordo di averlo sfogliato un’ultima volta, di aver preso il solito caffè macchiato in vetro nel mio solito bar, e di aver registrato la restituzione: adesso non c’è bisogno del contatto con un bibliotecario, l’operazione è tutta automatica. Eppure, la biblioteca vicino il Nettuno è sempre stata il palcoscenico di centinaia di contatti di ogni tipo. Lì ho letto migliaia di pagine e passato centinaia di ore, conoscendo, anche solo con uno sguardo complice, spaccati della più varia umanità.
Sarei dovuto andare a vedere e sentire un concerto all’Auditorium e poi una “prima” al Teatro Comunale: avevo già trovato la compagnia giusta, avevo già scelto gli spettacoli. Ho ancora con me un bel libretto e qualche dépliant con le date segnate: li prendo sempre, li conservo da qualche parte e li ritrovo, prima o poi.
Avrei dovuto prendere il biglietto per il concerto di Brunori Sas: i posti ancora c’erano e mi ero ripromesso che no, stavolta non avrei aspettato fino all’ultimo, per poi rimanere, inevitabilmente, deluso e senza biglietto. Il concerto sarebbe stato all’Unipol Arena, lo stesso luogo dove, qualche settimana prima, mi ero recato munito di carta d’identità e penna assieme a centinaia di altri come me: c’era un concorso da fare, una preselettiva da superare.
La Cultura, con la c maiuscola, è un’esperienza da vivere in privato, leggendo un buon libro nella propria stanza o sotto un ombrellone. Ma è anche, e sto iniziando a capirlo come non mai in questi giorni, un’esperienza collettiva. Mi mancano i luoghi della Cultura, i suoi templi e i suoi palcoscenici. Sento il bisogno, quasi fisico, di tornare in sala a vedere un film: non importa quale, basta che non sia relegato al mio piccolo schermo da 13 pollici del pc. Sento il bisogno di toccare i libri, in biblioteca e libreria; non ho mai avuto nulla contro gli e-book: anzi, ne leggo molti. Eppure, ho bisogno di quel luogo lì forse perché, semplicemente, fa parte di me e lì io mi ci rivedo.
Sono necessità e pensieri secondari e marginali, lo so bene: viviamo un momento drammatico e pericoloso, fatto di sofferenze e sacrifici difficili da immaginare e che non saprei nemmeno trascrivere.
Tuttavia, anche questi bisogni, per adesso secondari, sono vita. Sono necessari. E dovranno tornare, come e più di prima, più belli che mai.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
La quarantena dei
“marginali”: dove
sono finiti ora?
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 24 marzo 2020
Dove sono finiti tutti gli altri? Perché, al di fuori di quella cerchia di parenti e amici che anche in questi giorni, in qualche modo, riusciamo a vedere e sentire, c’è un intero mondo là fuori, da qualche parte. Dove sono finiti? Cosa stanno facendo in questi giorni, come stanno vivendo questi interminabili momenti di clausura che si susseguono uno dopo l’altro, identici, statici, angosciosi?
Che fine hanno fatto gli ultimi, gli outcast di Dickens, i derelitti di De André, e tutto quell’universo mondo in cui entriamo in contatto quotidianamente ma solo di sbieco, senza mai approfondire realmente? Che fine ha fatto questo pezzo di umanità? Sono pensieri che lentamente e con forza crescente stanno occupando le mie giornate di quarantena, proprio quando la dimensione individuale della mia esperienza inizia a lasciar spazio a riflessioni più ampie e generali. Dalla quarantena individuale alla quarantena sociale. Questi pensieri trovano un ottimo e illuminante riflesso in quelli che mi ha inviato Fulvio, direttore di Bottega editoriale. Ed è a questi pensieri, sapientemente tratteggiati, che voglio lasciar spazio questa sera, per dare ancora più profondità a questo diario.
C’è una categoria di persone che sta particolarmente soffrendo, nella quasi totale indifferenza, queste giornate di autoreclusione: “i marginali”.
Mi riferisco a quella serie di persone che talvolta per ragioni di immigrazione irregolare, talaltra per ragioni di disturbi psicologici, talaltra ancora per ragioni di contingenza imprevedibile, vivono, appunto, ai margini della nostra opulenta e indifferente società.
Roma ne era piena, ora sono semplicemente scomparsi.
Mi riferisco ai mendicanti, ai senza dimora o, più semplicemente, ai venditori di fazzolettini agli incroci delle strade, o quelli di rose nei ristoranti.
Dove sarà adesso quel ragazzo bengalese che, all’incrocio di via di Porta Furba con via Tuscolana, metteva a frutto gli “interminabili rossi” dei semafori per vendere ai frettolosi automobilisti i propri fazzolettini?
E cosa pensare di quel signore romano con problemi mentali che girovagava per le strade parlando, fra sé e sé, a voce alta e che un giorno mangiava una pizzetta in un bar e un altro in un kebab?
Dove si sarà rifugiato il giovane sudamericano che alla fermata metro “Flaminio” vendeva giochi per bambini?
E quella donna africana che nel Centro storico cercava di “piazzare” le rose alle coppiette?
E quel ragazzo africano che stazionava dinnanzi al “mio” supermercato di Torpignattara che soppesava la moneta che riceveva sorridendo a 100 denti bianchissimi quando avvertiva il peso di una moneta “pesante”?
Dove sarà quel giovane uomo cinese che, a Trastevere, correva come un ossesso fra un ristorante e un altro a prendere e a portare mille cose con gran soddisfazione dei titolari che ne apprezzavano la produttività, ma che ben si guardavano dal regolarizzarlo?
E quella donna che su via Casilina Vecchia, era costretta a vendere il proprio corpo? Ora, fortunatamente, non c’è nessuno schifoso che può insultarla nel corpo e nell’animo approfittando della sua debolezza economica. E per questo ne sono felice. Ma che ne sarà stato di lei?
Di cosa vivranno tutti loro e i loro figli?
Un soffocato urlo di disperazione si eleva verso di noi. Ascoltiamolo. Come? Inducendo per esempio il governo a dare direttive per la requisizione di alberghi ove collocare queste fasce marginali della popolazione nonché a pensare di fornire anche un minimo di sussistenza generale.
Bisogna pensare dunque, oltre che ai sussidi già previsti per le varie categorie anche forme di supporto a tutto quel mondo invisibile e marginale che è quello degli incapienti.
Ma va fatto subito e con operatori di strada: perché quello è uno spaccato di umanità che non ha il commercialista o il consulente legale e che non è nemmeno aduso a frequentare gli altezzosi impiegati Inps o gli svogliati addetti dei Caf.
Nell’assordante silenzio e menefreghismo generale c’è però qualcuno che si è giù mosso: fra gli altri (non tanti, però), evidenzio, su scala nazionale, l’appello di Medicina democratica e, a Roma, l’impegno costante della Comunità di Sant’Egidio e la lettera aperta alla sindaca Raggi elaborata dal Focus-Casa dei diritti sociali.
Sosteniamoli!
Le parole di Fulvio trasmettono tutta quella accorata e premurosa frustrazione che ognuno di noi, tra le pieghe della propria monotonia quotidiana, ogni tanto dovrebbe far propria.
Ho sempre ammirato la bellezza e la potenza di queste parole: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.»
Anche e soprattutto in momenti drammatici come questi, in cui la nostra libertà e la nostra individualità sono messe a dura prova, dobbiamo avere il coraggio di spostare il nostro sguardo sugli altri. Su chi è ai margini da sempre: e lo è ancor più oggi. Dobbiamo adempiere a quei doveri inderogabili di solidarietà che la nostra Repubblica e la nostra Costituzione ci richiedono: solo così sapremo costruire un dopo più bello e più umano. Per tutti, nessuno escluso.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Il Diario di oggi
si sdoppia: largo
a Valeria Nigro
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedì 23 marzo 2020
Quando ho iniziato a scrivere questo Diario ero preoccupato ma anche piuttosto incuriosito, devo ammetterlo. Anche io ho subìto il fascino dell’incognita, la voglia di capire e scoprire come avrei vissuto rinchiuso in casa mia, per diversi giorni. Mi avevano immediatamente rapito alcuni piccoli, bellissimi gesti che riuscivo a rubare guardando lì fuori: il vicino che prende il flauto e improvvisamente si mette a suonare, la mamma che fa ballare il suo bimbo sul terrazzo, l’inno di Mameli (!) cantato senza alcun timore retorico. Sin da subito avevo capito che vedere la città in questo modo, così deserta e assente, sarebbe stato un qualcosa da ricordare in futuro, in giorni (si spera!) migliori.
La sensazione di vivere un momento unico, un periodo da registrare e di cui scrivere, è ancora molto forte in me. Noto allo stesso tempo, ed è inutile negarlo a me stesso, che lentamente mi sto abituando a questa nuova routine. Non che la cosa mi piaccia: tutt’altro. Eppure, la necessità di andare avanti, di continuare comunque ad aprire e chiudere la giornata, ha creato un’insospettabile corazza. Certo: si tratta di una protezione fragile e incerta, della quale si farebbe volentieri a meno. Però c’è, è lì.
Io sono molto fortunato: vivo questa quarantena in compagnia dei miei storici coinquilini, amicizie ultraventennali. Non potrei mai definirmi solo. Quella corazza la riesco a indossare anche per merito loro, per la loro presenza. Eppure, non si tratta delle uniche presenze di questi giorni. Oltre alle persone che quotidianamente ho la fortuna di sentire, ce ne sono tante altre. Persone che mi inviano e raccontano le loro storie, nelle quali riesco a trovare un rifugio dalla noia casalinga.
Ho la fortuna di leggere tanti pensieri, racconti, poesie, spunti: tutti frutti di questa bella e terribile voglia di scrivere quando ogni cosa diventa più difficile. Leggere per esempio della «curva dell’umore» di Valeria Nigro che vive a Roma e da lì racconta il saliscendi dei suoi pensieri e delle sue emozioni.
Valeria è una collaboratrice di Bottega editoriale che ha risposto al mio appello, nel suo particolarissimo modo, con le sue personalissime parole. Di questo le sono grato: questo Diario, nato come una riflessione serale in stato di quarantena, può diventare un palcoscenico molto più frequentato, rumoroso e, a modo suo, gioioso. Ecco perché voglio cedere la parola a lei. Leggendola mi sono chiesto quanto potenziale abbiano queste giornate così strambe. Giorni pieni di momenti ripetuti chissà quante volte, automaticamente e senza pensarci troppo, ma che solo adesso sembrano assumere un significato del tutto nuovo, una dignità propria. Entriamo nella quarantena di Valeria: così simile alla mia, alla nostra, ma pur sempre così diversa: unica.
Li considererei un piccolo traguardo, i primi dieci giorni, se sapessi esattamente quanto manca alla fine di questa storia, ma non è così, quindi rimangono un semplice numero in un continuum progressivo.
È giorno di spesa. Io e i miei genitori ci siamo dati come regola di uscire una volta a settimana per l’acquisto di generi alimentari. Mi sono offerta volontaria, in una situazione che mi faceva sentire un po’ Katniss Everdeen in Hunger Games quando urla la famosa frase «I volunteer!» e non sembra neanche tanto un’esagerazione.
Mi sono preparata: scarpe comode, tuta da ginnastica, capelli legati, mascherina e guanti, e sono uscita. È stato bello, per un attimo, avere il sole in faccia e ricordarsi come si cammina verso un obiettivo. C’era il gatto di quartiere che mi ha riconosciuta e mi si è strusciato su una gamba.
Chissà anche lui da quanto tempo non poteva farlo.
La Curva dell’umore è schizzata verso l’alto.
È tornata a scendere quando mi sono resa conto che non c’era anima viva per strada. L’edicola sotto casa era aperta, non ci sono mai andata se non per comprare i biglietti dell’autobus, ma mi è venuto spontaneo salutare il proprietario rinchiuso nella sua cabina. Lui ha sorriso e mi ha salutata con la mano guantata. La Curva è tornata a salire.
Arrivata davanti al supermercato ho pensato, per un attimo, che non ci fosse nessuno neanche lì, finché non mi sono guardata intorno. Le persone c’erano, ma erano talmente sparse per il parcheggio da sembrare vaganti e mascherati zombie solitari, armati di carrello.
La guardia giurata mi vede e mi porge il numeretto. Sento il bisogno di chiedere “Chi è l’ultimo?” come dal dottore, ma dovrei tirarmi giù la mascherina e mi passa la voglia.
L’attesa è frustrante. Fanno entrare quattro persone alla volta e ho paura che qualcuno possa perdere la pazienza, creare scompiglio, reagire con violenza. Ma mi ripeto che è solo paranoia e che gli altri sembrano forzatamente pazienti, esattamente come me.
Una donna sbatte il tacco per terra, un uomo fuma una sigaretta dopo l’altra intossicando l’aria, un altro fa dei sospiri talmente rumorosi da sembrare un treno a vapore.
La Curva scende sempre di più.
Una ragazza con la faccia conosciuta – compagne di liceo ma mai amiche – mi saluta.
«Entro con te» dice e io annuisco, ancora senza parlare.
Pian piano vediamo la gente entrare e uscire, fino all’arrivo del nostro turno.
Appena entro sento un forte odore di disinfettante a cui, per forza di cose, abbiamo fatto l’abitudine. Quell’odore di Amuchina con un mix di candeggina.
L’ eau de toilette più in e ricercata del 2020.
Alla frutta ci lanciamo uno sguardo. Rimaniamo a distanza, ma mi attende mentre prendo frutta e verdura. Io aspetto lei mentre sceglie i cereali per la colazione.
Vederla lì, ad aspettarmi, mi fa salire un po’ la Curva dell’umore.
C’è un silenzio innaturale nel supermercato e forse, per bilanciare la mancanza di rumore da parte della clientela, hanno anche abbassato la musica. Ma ringrazio per l’ennesima canzone anni Settanta di Radio Italia.
Cerco la farina, ma lo scaffale è terribilmente vuoto. Mi viene un accenno di ansia, ma mi ripeto che non siamo in guerra, che i beni arriveranno e che per questa settimana siamo a posto.
Passeggio per gli scaffali prendendo il necessario e, al contempo, tenendo sotto controllo ogni persona nei miei dintorni, ma sono tutti a debita distanza.
La ragazza, di cui mi sforzo di ricordare il nome ma senza successo, mi passa accanto. «Cassa?» mi chiede e io annuisco.
Ci avviamo ma io rimango un paio di metri dietro di lei, perché uno dei commessi, con mascherina e guanti, ci dice di mantenere le distanze e che le casse sono piene. Non più di due persone alla volta.
Una signora, da distanza consentita, chiede di poter passare avanti. Ha in mano solo quattro prodotti, pane e qualche affettato.
«E certo, e tu vieni a fare la spesa pe’ ’ste quattro cose?» domanda una donna in fila davanti a lei.
«E queste me servivano» risponde l’altra, con faccia tosta.
Continuano a battibeccare e a me viene da ridere. La Curva dell’umore sale un po’.
Trovo divertente che sia servita una pandemia mondiale per far passare gli italiani dal «Don’t ask, don’t tell» americano al «If you see something, say something» inglese.
Durante la serata di ieri, il sindaco aveva tenuto a farci sapere attraverso il gruppo comunale su Telegram che erano arrivate ben cinque segnalazioni ai carabinieri per un assembramento in piazza. Si congratulava per la serietà.
Speriamo di non esagerare nel senso opposto.
Arriva il mio turno e la cassiera mi saluta con un buongiorno strozzato dalla mascherina verde e un movimento della testa; la ragazza, ormai verso l’uscita, mi fa un cenno con la mano e se ne va.
Breve ma intenso, penso, con un sorriso.
Esco con due buste piene che adesso mi dovrò trascinare su per la salita che porta a casa mia. Uscire a piedi non sembra più un’idea geniale adesso, ma quei trenta minuti di cyclette che ho iniziato a fare nel primo pomeriggio, dopo aver visto sessioni di workout su Instagram e il vicino di casa che nel giardino tira su casse d’acqua, mi aiuta a non arrivare senza fiato, anche con l’impedimento della mascherina. La Curva dell’umore rimane stabile.
Neanche il tempo di entrare in casa e mia madre mi ricorda di andare a lavarmi le mani.
«Cantati da sola “Buon compleanno”, due volte» mi dice, ridendo. Non so dove ha sentito che in trenta secondi si canta due volte “Buon compleanno” e considerando che domani è davvero il mio compleanno, lo trova abbastanza divertente. Tanto da ripeterlo due/tre volte al giorno.
Le do soddisfazione, mi lavo le mani e canto a voce molto alta, giusto per infastidirla. La Curva dell’umore ha un fremito su e giù: su perché mia madre riesce sempre a strapparmi un sorriso, giù perché mi ricordo del mio imminente compleanno in quarantena.
Mamma mi ha commissionato di comprare le fragole e saranno l’ingrediente principale della mia torta, domani.
Non sono un’amante delle feste di compleanno – e neanche delle fragole, a dirla tutta, ma non mi lamento – specialmente la mia. Ma il mio ragazzo aveva preso un giorno di ferie e io avevo organizzato la giornata al Bioparco di Roma, il pomeriggio una visita prenotata alla Galleria Borghese, perché era da troppo che non vedevo David con la testa di Golia del Caravaggio e il Ratto di Proserpina di Bernini.
Beh, sarà per un’altra volta.
Un chilometro di strada provinciale separa me e il mio ragazzo, ma basta per dire che ci troviamo in due comuni differenti e non possiamo vederci, neanche dandoci appuntamenti romantici allo stesso supermercato come qualcuno fa.
Ma domani ho tanti impegni. Mattina videochiamata Whatsapp con i miei parenti; pomeriggio “
Pensando a questi impegni inderogabili la mia Curva dell’umore sale, finché non mi siedo sull’angolo opposto del divano, in confronto a dove è seduto mio padre. Oggi è la sua festa e ieri, io e mamma, abbiamo impastato e preparato i bignè di San Giuseppe, come da tradizione.
Per quanto io stia attenta, mantengo comunque una certa distanza. Mio padre è uno di quelli più a rischio per i motivi che abbiamo imparato a conoscere.
È una delle ragioni per cui ho preso seriamente fin da subito la questione “Coronavirus”, fin da quando a gennaio, scherzando – ma mica tanto – dicevo a mamma: «Me sa che tocca fa’ scorte de Amuchina e farina.»
In tv c’è un ciclo infinito di telegiornali e speciali, speciali e telegiornali e talk show politici dove non c’è traccia di politici ma uno squadrone di opinionisti, infettivologi e virologi.
Vedo la Curva dei contagi, e la mia Curva dell’umore va giù.
Papà a un certo punto sbuffa: «Non ce la faccio più co’ sti speciali» mi dice.
Apre YouTube e mette un piccolo spezzone di un vecchio spettacolo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ridiamo e la mia Curva dell’umore va su.
Mamma sta preparando la torta dietro di me e mi chiede di tagliare le fragole.
«Dimmelo, no, che me la devo fa’ da sola la torta!» mia madre mi minaccia col cucchiaio di legno, colpendomi il sedere. La Curva sale ancora.
La sera, a cena, evitiamo i telegiornali come la peste – modo di dire particolarmente divertente in questo momento, per chi ha un certo black humor, come me – e a un certo punto mamma si alza e spegne le luci.
«Alexa ¬– urla, non sono mai riuscita a farle capire che non è necessario – riproduci Inno di Mameli».
Alexa inizia e si sposa benissimo con il dirimpettaio che, dal suo balcone, inizia a sventolare la bandiera dell’Italia.
Mi viene da ridere, la prendo in giro, perché in fondo sono una snob, ma lei si diverte e saluta tutti. Va bene così.
Ogni giorno è una lotta continua per tenere su il morale, per ricordarmi senza sosta che non sarà così per sempre. A volte penso che darei qualsiasi cosa per uscire a bere un bicchiere di vino con il mio ragazzo e le mie amiche, ma poi mi ricordo che io ho ancora mamma e papà con me, cosa che non tutti possono dire. E tra poco tutta la famiglia allargata sarà di nuovo unita.
Nel frattempo, come si suol dire, teniamo botta e, come dicono tutti, andrà tutto bene.
Riprendo “la parola” sulla chiusa incoraggiante di Valeria facendola mia, tutti chiusi dentro le nostre case ma comunque insieme.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Un conflitto appena
iniziato e per cui
ancora non c'è fine
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 22 marzo 2020
Improvvisamente una voce squarcia il silenzio: urla BASTA, BASTA, BASTA, tre volte, quasi disperata; poi svanisce. Mi affaccio dal balcone: qualcun altro fa lo stesso. Ci guardiamo, cerchiamo di capire da dove sia arrivata quella voce lì. Niente da fare: un ultimo sguardo d’intesa, un dignitoso cenno di saluto e si rientra nella propria forzata intimità domiciliare.
In questi giorni capita spesso di sentire, leggere e dire a se stessi: siamo in guerra. Siamo in guerra contro un nemico invisibile, questo è il nostro conflitto mondiale. Non ho ancora deciso se fare mio questo paragone. Di certo questo è l’evento più totalizzante e potente che abbia mai investito la mia generazione e quella dei miei genitori: impossibile starne fuori, impossibile far finta di nulla. La vita di ognuno di noi è stata improvvisamente travolta da un fatto enorme, totalmente inaspettato e imprevedibile nei suoi sviluppi. Volenti o nolenti, siamo tutti in grado di indicare con precisione un prima e un dopo. Ciò che ieri ci sembrava assolutamente necessario e indispensabile all’improvviso ci appare piccolo, superficiale, sostituibile; mentre alcune cose che abbiamo dato per ovvie, banali e semplici, oggi vengono illuminate e svelate da una luce tutta nuova.
Siamo in guerra, ci diciamo. Il guaio è che è una guerra senza fronte, senza eserciti e campi da battaglia sui quali misurarsi. Non si vede un obiettivo tangibile, afferrabile e raggiungibile. In questi giorni stiamo ridisegnando le nostre sensazioni, stiamo costruendo un’altra barriera di pensieri e sentimenti. L’euforia e la macabra adrenalina, tipiche dell’inizio di ogni conflitto, sono già svanite. Sembrano già lontani i momenti degli applausi collettivi, dei canti e delle suonate, tutti insieme sui nostri balconi e dalle nostre finestre. Certo, qualche irriducibile c’è ancora: ma le sue note hanno un sapore tutto diverso, un retrogusto di malinconia difficile da ignorare. Siamo entrati nella seconda fase di questa grande prova collettiva: il conflitto è iniziato, sappiamo cosa ci siamo lasciati alle spalle ma non siamo in grado di vederne ancora la fine. Non sappiamo come definire il nostro futuro a medio termine, figuriamoci un avvenire più lungo. I dati sono ogni giorno più insensibili e crudi, le rinunce non sembrano avere gli effetti sperati: stiamo combattendo, sappiamo che abbiamo appena iniziato.
Il mio conflitto personale ha già tracciato una prima cicatrice: un mal di testa costante, a intensità varia, sempre pronto ad aumentare e mai ad andar via del tutto. Incomincio a provare un costante rifiuto per ogni schermo, che sia la televisione, il computer o lo smartphone. Tutti oggetti, è bene ricordarlo, fondamentali, mai come adesso; ma quelle cornici cominciano a diventare fin troppo strette.
In compenso sto sfruttando queste giornate per far ordine dentro di me, ristabilire alcune priorità, capire chi mi manca e vorrei vedere e rivedere per davvero, il prima possibile. Un’occasione del genere è unica e, si spera, irripetibile; ognuno di noi può decidere come e perché sfruttarla. Rimane anche oggi, ancor di più, la ferma convinzione di quanto sia importante interrogarsi, capirsi e trascrivere ciò che si percepisce.
Allo stesso tempo sta iniziando a nascere, dentro di me e con insistenza crescente, un nuovo tipo di ansia. Non si tratta di un’ansia necessariamente negativa, anzi: sarebbe il caso di indagarla e di renderla più operativa. L’ansia è quella del cittadino di una repubblica democratica e parlamentare. Sia chiaro: l’emergenza è reale, mai come adesso capiamo il senso di quel «casi straordinari di necessità e urgenza» che permettono all’Esecutivo di farsi Legislatore, seppur per un periodo limitato e sempre con la necessità di un controllo successivo. Eppure, l’emergenza che diventa quotidiano rischia di sedimentarsi e di andare ai intaccare valori e garanzie che abbiamo, tutti, il dovere di difendere. Sempre. Sono pensieri che sarà bene approfondire, barriere che bisognerà ergere se necessario.
Questo weekend di quarantena sta per finire e non sembra nemmeno essere iniziato. Che senso ha parlare di fine settimana quando la settimana stessa sembra non avere più un suo corso, una sua direzione? Mentre scrivo la mia regione ha chiuso le sue frontiere: non si può più entrare né uscire dalla Calabria fino al 3 aprile. Un'altra piccola, irreale barriera che si aggiunge tra me e casa mia.
Forse è proprio vero: non sarà una guerra ma si tratta comunque di un conflitto, strano e irreale. Un conflitto che, a mano a mano, sta cambiando noi stessi e la nostra stessa concezione di spazio e di distanza. Rivedersi, ritornare, riabbracciarsi avrà un significato ancora più vero e profondo.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Ciò che mi manca
è proprio tutto ciò
che voglio indietro
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Venerdì 20 marzo 2020
Mi mancano le piazze, i viali, i vicoli, quelli pieni di gente, in cui quasi non si respira.
Mi manca il rumore della città, garanzia di vita.
Mi mancano i portici di Bologna, chilometri e chilometri di rassicurante bellezza.
Mi mancano le Torri, il centro del mio palcoscenico quotidiano, mai così distanti come ora.
Mi manca la passeggiata, senza meta e senza pretese.
Mi manca il bar, il rito gentile della tazzina al bancone o al tavolino poco distante.
Mi manca l’aperitivo, la ricompensa di una giornata di lavoro, la solita serata, le solite persone
Mi mancano le librerie, la biblioteca, perdersi tra i libri; entrare, guardarli, sceglierne tanti, prenderne solo uno o nessuno: la migliore garanzia di ritorno.
Mi mancano i giardini, i parchi, la panchina, il verde che pretende il suo spazio nel bel mezzo della città.
Mi manca la cena fuori, la scelta infinita del locale, la prenotazione, la recensione finale.
Mi manca il buio della sala, l’affollata intimità del cinema, la Cineteca.
Mi manca il cinema all’aperto, Piazza Maggiore, la certezza che non troverai posto se non vai a occuparlo un’ora prima.
Mi mancano i treni, l’aereo, il pullman, il viaggio verso l’altrove e il ritorno in Calabria.
Mi manca la fila: non quella silenziosa e triste di quest’oggi al supermercato.
Mi manca il sipario che si chiude e si riapre, l’applauso, il grazie collettivo agli attori, alla magia collettiva, alla finzione che sa farsi realtà.
Mi manca la manifestazione, la piazza piena, le bandiere, la passione, l’ideale.
Mi manca la Politica, l’iniziativa, l’attività, il banchetto, la conferenza, l’incontro.
Mi manca la mia Città, perché è lei, lei sola Casa mia.
Mi manca il lungomare di Crotone, quel golfo che è sempre lì ad aspettarmi e ad abbracciarmi.
Mi manca il mare, il mio mare, perché sì, ho bisogno di sentirlo, di beccarmi in faccia la sua brezza o il suo vento forte, di odorarlo, di guardarlo e di confrontarmi con lui.
Mi manca toccare, spintonare, irritare, abbracciare, baciare.
Mi manca la mia Libertà, poter scegliere dove, come e cosa fare, quando mi va e con chi voglio.
Mi manchi tu, mi mancate tutti voi.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
La spazzatura
la fedele amica
della quarantena
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Giovedì 19 marzo 2020
Sono le 19.30, sono “uscito da lavoro” e sono tornato a casa. Peccato che questo passaggio sia avvenuto solo ed esclusivamente da un punto di vista simbolico: mi trovo sempre seduto alla mia scrivania, nella mia stanza che ormai è un po’ ufficio, un po’ conference room, un po’ camera da letto. La testa sembra esplodere: a breve si staccherà e decollerà, beata lei che può volare e andare chissà dove. No, io sono bloccato qui e sembra di soffocare. Devo assolutamente uscire, stavolta per davvero.
Ecco subito che entra in gioco una fedele, insospettabile alleata: la spazzatura. Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo battuti per avere il privilegio di uscire e andare a buttarla? Sì, la spazzatura (in bolognese il rusco), è garanzia di libertà. La prendo e apro la porta di casa. Scendo le scale: no, non esiste che prenda l’ascensore, non voglio rinunciare a nessun passo in più che potrei fare. Arrivo quindi al portone del condominio: una delle tante, incredibili frontiere di questi giorni. Appena lo apro vengo investito da un’aria fresca e gentile, diversa da quella che mi ha accompagnato per tutta la giornata. Forse, per la prima volta, inizio a capire davvero il concetto di “ora d’aria” legato all’universo carcerario.
Questa volta nessun canto, nessuna chitarra a dettar legge e ritmo da un balcone. No: stasera è solo silenzio: surreale, diverso, impaurito. I cassonetti della spazzatura sono esattamente di fronte al mio portone: che fortuna, che comodità! Il gesto anarchico della giornata sarà far finta di non vederli, fare il giro del palazzo, puntare i cassonetti e, solo allora, salutare con rammarico l’amica spazzatura.
Il mio quartiere è una zona residenziale della Bologna bene, niente a che vedere con il popolare, studentesco e terrone San Donato, palcoscenico della mia passata vita universitaria. Questo per dire che no, la mia zona non ha mai brillato per particolare vivacità. L’abitante medio di questi isolati è un bolognese (strano ma vero, esistono anche bolognesi a Bologna), dall’età e dal reddito sensibilmente più elevati dei miei. Eppure mai avrei immaginato di vedere queste case così mute, illuminate ma spente allo stesso tempo. Sembra quasi di passeggiare nella Berlino Est de Le vite degli altri: da un momento all’altro una pattuglia della Stasi, la temibile polizia politica della Repubblica democratica tedesca, potrebbe arrivare, caricarmi su una camionetta e portarmi via. Mi viene da pensare: magari! Almeno la mia giornata acquisirebbe più senso.
Proprio la mancanza di senso è uno dei principali tormenti quotidiani. Perché stiamo scontando questa pena, senza giudice, senza processo? Quando finirà? Il guaio è che è appena cominciata.
Quando risalgo le scale, ritornando nel luogo in cui sconto i miei arresti domiciliari, penso a tutto questo. Strano: chi l’avrebbe mai detto che buttare la spazzatura mi avrebbe portato a un trip mentale simile. Piccoli, particolari e fastidiosi effetti da quarantena. Poi, all’improvviso, il lampo di genio: la “campana” di raccolta del vetro è in fondo alla strada, è più lontana: da domani sotto con le bottiglie.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Andare a fare la spesa:
un insolito e prezioso
momento di libertà
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Mercoledì 18 marzo 2020
Mi è sempre piaciuto andare a fare la spesa. Ho sempre avuto un debole per i supermercati: quegli scaffali pieni, i colori, i rumori e anche gli odori di quei luoghi così comuni, che si differenziano tra di loro per qualche piccola, marginale differenza.
Ma le spese di questi giorni sono diverse: tutto è diverso. Lo noto sempre di più, ho iniziato a farci più attenzione. Gesti che qualche settimana fa sembravano meccanici, spogli, quotidiani, oggi si presentano sotto una veste tutta nuova. Nel cassetto dei pensieri strani che porto con me ogni giorno, un posto particolare ne occupa uno che fa più o meno così: «Ma quanta roba c’è? Che fortuna che abbiamo». Sì, lo so: è insolito. Eppure molto spesso mi capita di riflettere su che immenso privilegio sia avere tutti quei beni di consumo, banalmente tutto quel cibo, a disposizione. Se ci pensiamo per un istante, è davvero una quantità enorme: la plastica dimostrazione del nostro benessere occidentale.
Per questo fa impressione vedere il supermercato ai tempi dell'#iorestoacasa. Non che sia vuoto, quello no; ma tra uno scaffale e un altro, capita di cadere in qualche buco, creato dal saccheggio (per adesso) educato di tanti di noi. Incredibile constatare, avere davanti agli occhi, l’idea che qualcosa possa essere finita e che non tutto possa essere immediatamente disponibile. Certo, questa idea astratta l’avrò pure avuta in testa, da qualche parte, ma non ho mai pensato che potessi vedere tutto ciò per davvero, concretamente. Come se certe immagini fossero relegate a racconti altrui, «vite che non sono la mia», per citare un grande scrittore.
Ora fare la spesa non mi piace più. Non mi piace la fila, silenziosa e triste, fatta all’esterno del supermercato; ognuno rinchiuso nei suoi pensieri, nel suo personale «quando finirà?». Non mi piace quel gesto lì, diffidente e sospetto, di chi sposta rapidamente il suo carrello non appena capisce che ti stai avvicinando. Non mi piacciono le cassiere o i cassieri, barricati dietro una barriera di plastica. Guanti e mascherine prima che esseri umani. No, non è corretto: cassiere e cassieri mi piacciono: è ciò che sono costretti a fare che non mi piace. Anche loro, senza alcun dubbio, sono i protagonisti di questi giorni, la prima linea del fronte, la prima trincea.
Eppure fare la spesa è uno dei pochissimi momenti di libertà rimasti. Libertà di movimento, per andare al supermercato e per muoversi tra gli scaffali. Libertà di scelta, limitata ai prodotti di cui far scorta. Libertà: comincia a venire fuori, sempre di più, quanto diamine sia fondamentale.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
La videochiamata:
vecchi riti, sapori
del tutto nuovi
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Martedì 17 marzo 2020
La videochiamata: non è una novità. Il mio legame con Crotone e i miei genitori si basa anche su videochiamate serali, migliorate negli anni per qualità e nitidezza. Ho videochiamato più volte i miei amici, sparsi qua e là per la penisola, e così hanno fatto loro, con le loro famiglie.
Eppure, quelle di questi giorni non sono le solite videochiamate. No, non lo sono affatto.
Sono giorni di chiassose e confuse videochat di gruppo. Gli schermi dei nostri smartphone, tablet e pc si accendono e, per qualche minuto o per qualche ora, si trasformano in vere e proprie piazze digitali. Anche i più restii e scettici si sono dovuti convertire: l’alternativa è non vedere più quel volto, quella persona. Non vedere amiche e amici, fidanzate e fidanzati, genitori e parenti che magari, solo qualche giorno fa, popolavano il quotidiano di ognuno di noi.
Di fronte a questo dilemma, sono in molti a scaricare forzatamente la nuova, ennesima applicazione o a resuscitare quella dimenticata in memoria, da qualche parte. Ed ecco nuove parole, nuove espressioni, farsi largo con forza, con la vivacità che solo gli affetti sanno regalare: «ci sei?»; «aspetta, non ti vedo»; «perché si vede nero?», «scarica questa così ci vediamo» e tante altre.Tutti insieme, uniti da quell’impacciata intimità che le connessioni incerte riescono a regalare.
Connessi: strano come un aggettivo, così tanto usato e letto in questi anni, riesca ad assumere solamente oggi un sapore nuovo, autentico.
Le tecnologie, che tanto hanno segnato i nostri destini individuali e collettivi nonché la nostra stessa epoca, possono avere un ruolo determinante: fin qui, nulla di strano. La situazione però diventa più complessa e stimolante se ci fermiamo a riflettere su un altro concetto: la tecnologia può essere buona, può essere alleata. Può essere realmente necessaria.
A pensarci bene, non è poco. Non lo è se consideriamo il dibattito critico che va avanti da qualche anno, improntato a un revisionismo e a una maggiore diffidenza verso tutto ciò che è social, interconnesso. Niente a che vedere con l’ingenuo ottimismo tecnologico degli anni Novanta o dei primi anni 2000. Si tratta di una autocritica necessaria e doverosa ma che, in questi giorni, viene bilanciata da un nuovo messaggio, più buono, più rassicurante: forse non tutto è da rivedere, non tutto è da bocciare. Forse questi strumenti, dai quali a volte e legittimamente dobbiamo preservarci, se ben usati possono essere incredibilmente utili e giusti.
Penso a tutto ciò mentre rivedo sullo schermo amici che da troppo tempo non avevo avuto il modo di incontrare. Strano: la quarantena ci avvicina anche a quelle persone che, per vari motivi, non vedevamo da un po’. Del resto c’è poco da stupirsi: come resistere a quell’impulso di condividere con lui, con lei, con gli altri un pezzo di tutto questo? Come resistere a un caloroso, sorridente e digitale «come stai?»
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Quando il confine
tra casa e ufficio
sparisce di colpo
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Lunedi 16 marzo 2020
Smart working, lavoro agile: così lo chiamano. Eppure di agile c’è ben poco in questi giorni. Anche la passeggiata mattutina per andare a lavoro sembra un privilegio di un’epoca passata se paragonata agli sterili tre passi che devo fare per spostarmi dal letto alla scrivania: la mia postazione di lavoro. L’idea, il principio, non sono affatto sbagliati, anzi. Certi lavori, certe professioni, non richiedono necessariamente la presenza fisica del lavoratore nei locali aziendali o negli uffici: ciò che si può fare lì si può fare anche a casa. Ne conseguono diversi vantaggi. Si dorme un po’ di più: il tempo che dedicavi per raggiungere il luogo di lavoro può essere utilizzato per spostare la sveglia in avanti; si pranza a casa, con la possibilità e la speranza di poter mangiare meglio, abbandonando sbrigativi tranci di pizza e altre razioni da battaglia. Si resta a casa, si continua nella costruzione delle due parole d’ordine di queste giornate pazze: distanziamento sociale.
Distanziamento sociale significa non potersi rapportare direttamente con i colleghi, significa rinunciare all’intimità di certi momenti che solo la fisicità dell’ufficio riesce a costruire. Ecco il primo degli svantaggi di questo smart working forzato: la dimensione del lavoro si confonde e si perde, entrando in contatto con i confini di casa propria. Viene a mancare la prima dogana del nostro quotidiano: la linea di demarcazione tra ciò che è rifugio e riposo e ciò che è lavoro, fatica e impegno. Ciò significa che è difficile capire quando concretamente si “attacca” e “si stacca” da lavoro: tutto diventa un unico, inconfondibile momento intervallato solo dall’andare a dormire e svegliarsi la mattina dopo.
La giornata prende le sembianze di un tunnel lungo e spoglio: ci si sveglia, si fa colazione, si accende il computer. Ecco quindi la “call” di lavoro e di coordinamento (non sarà meglio dire “chiamata” o “videochiamata”?). Poi la pausa pranzo, sbirciando fuori dalla finestra: ancora quel maledetto cielo azzurrissimo, pare che marzo a Bologna non sia mai stato così bello, pensa un po’. E di nuovo sedia, scrivania, computer.
Oggi non ho partecipato al rito collettivo delle 18.00, non ho letto né commentato il quotidiano bollettino di guerra. Ho ascoltato quelle parole, ormai entrate nel flusso quotidiano di ognuno di noi: “guariti”, “terapia intensiva”, “contagiati”, “deceduti”; ma le ho ascoltate in sottofondo, quasi stupendomi di come potessero rimanere lì in disparte, come se nulla fosse. Mi sto abituando al fatto che "lì fuori" è in corso una battaglia di cui non si vede la fine?
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Tra smart working
e videochiamate,
siamo tutti vicini
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Domenica 15 marzo 2020
Finisce questo weekend di quarantena. Guardo un video: in una via Rizzoli deserta una volante della Polizia Municipale annuncia all’altoparlante che «sono vietate le visite a familiari e amici». Domani ricomincerà la settimana lavorativa, con la differenza che questa volta non dovrò tornare in studio ma avrò pochi passi da fare: dal letto alla mia scrivania. Si chiama smart working, ma questa è un’altra storia.
Oggi è stata una giornata sfacciatamente primaverile: un sole e un azzurro arroganti, quasi provocatori, che invitavano a uscire di casa. Io sono uscito di casa, stamattina: avevo una situazione di necessità da risolvere. Dovevo andare a comprare il giornale, piccolo rito sopravvissuto che oggi assume ancora più valore. Le edicole sono state inserite tra le attività commerciali che svolgono un servizio essenziale e, pertanto, devono rimanere aperte. L’edicolante, assieme al farmacista e al cassiere, è una delle figure portanti di queste giornate, un soldato in trincea che, con mascherina e guanti, ti porge il giornale (avendo cura di non toccarti). L’Italia non è la Cina: l’informazione è un bene essenziale e deve continuare a circolare. Questo è un aspetto su cui dovremo riflettere in questi giorni e in futuro. Qualcosa di cui essere, dopotutto e nel profondo, fieri.
Preso il giornale si fa qualche passo all’aria aperta ma, poco dopo, bisogna tornare a casa. L’hashtag del momento è #iorestoacasa, anche il Dpcm del Governo è stato denominato così.
Oggi è una giornata di festa: è il compleanno di mio padre e bisogna ritagliarsi un momento di intimità in qualche modo.
Il primo compleanno festeggiato in quarantena, con una videochiamata e troppi chilometri di distanza. La scena è dolce e perfettamente chiara nella sua semplicità: le vie dell’affetto sono infinite. Rimane sospesa una domanda, tra una candelina soffiata e un dolce che io non ho potuto mangiare: quando ci rivediamo?
Poi alle 18.00 un altro appuntamento, un “classico” di queste giornate: il comunicato di Angelo Borrelli della Protezione Civile, accompagnato da Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di Sanità. Una coppia insolita ma efficace nella sua terribile routine. I due annunciano il bollettino di guerra contro il Nemico. I dati non sono rassicuranti, è ancora presto per capire se le misure adottate hanno avuto l’efficacia che tutti speriamo. I loro volti sono freddi e stanchi, le loro parole misurate e scientifiche: l’emotività non è ammessa. Eppure, in qualche modo perverso, quasi ci si affeziona a questo rito trasparente e macabro.
Mentre dalla tv è tutto un «modellare la curva» e «rischiamo di creare scenari particolarmente critici», dalla finestra si sente cantare. Sì, qualcuno sta suonando: possibile che sia Rino Gaetano?
E quindi, con Borrelli che legge l’aumento dei ricoverati in terapia intensiva, ci si sposta un attimo sul balcone per avere la conferma. Ma il cielo è sempre più blu qualcuno canta; una mamma fa ballare il suo bimbo su un balconcino poco distante.
Sono immagini agrodolci, a loro modo dignitose e commoventi. Sono le immagini di questi giorni che, ognuno di noi, in qualche modo, sta registrando.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)
Non si può fare
finta di nulla.
Scrivere ci aiuta
Diario ai tempi del Coronavirus:
storie di quotidiana “Resistenza”
Sabato 14 marzo 2020
Sono estroverso, sono socievole, mi piace la gente.
Sono quello che ti dà una pacca sulla spalla di troppo.
Sono uno che ti parla, anche da vicino, scuotendoti.
Ho un tono di voce più elevato del dovuto.
Mi piacciono i rumori della città, la folla che si riversa sui viali e nei locali.
Adoro le biblioteche, le librerie, i cinema e i teatri.
Vivo a Bologna, sono nato a Crotone.
Ritorno spesso, o quando è possibile, in pullman, in aereo, se c’è.
Sono uno che sa apprezzare l’intima solitudine, dalla quale però deve uscirne, dopo un po’.
Sono uno che dopo una giornata in casa si sente in apnea, con un cerchio alla testa.
Sono una vittima, a modo mio, nel mio personalissimo modo, di quello che accade qui, adesso: marzo 2020.
Proprio ora, in questo momento e per chissà quanto.
Sì, è vero: se ci pensi troppo fa male; ma sei costretto.
No: è impossibile far finta di nulla, la senti, anche se non vuoi, la cosa che sta succedendo e i suoi effetti, dentro e fuori di te.
Sì: bisogna pensarci, a giuste dosi.
E bisogna scriverne. Dobbiamo trascrivere, per quanto possibile, le nostre sensazioni, le nostre paure.
Tutto ciò che stiamo provando e che proveremo in questi giorni. Ognuno di noi può lasciare traccia di queste giornate raccontando la sua storia personale, un piccolo ma importante mattoncino di quel muro collettivo che stiamo cercando di costruire contro il Nemico invisibile. Ognuno può raccontare una storia, la sua; trascriverla, conservarla e poi ricordarla e rileggerla, un giorno.
Io giovedì sera tornavo a casa da lavoro. Una passeggiata non tanto lunga né spiacevole: venti minuti di camminata dai portici del centro di Bologna verso i viali, un po’ più in là. Una passeggiata che di solito avrei fatto senza pensarci troppo, sempre che non avessi deciso di prendere l’autobus: tre fermate, meno di dieci minuti. Non questa volta. Questa volta è stato diverso. Una città difforme, spenta, senz’anima, ogni passo accompagnato da un’angoscia sottile e cattiva, come se fosse proprio l’assenza di vita e rumore a opprimere e soffocare. E poi i viali, quelle luci blu, quegli uomini in divisa e mascherina. Spiegare perché ci si sta muovendo: strano, vero? Abbiamo così nelle vene la Libertà, la giusta arroganza di poter fare ciò che ci pare e di andare dove meglio crediamo, che ci siamo dimenticati di come questa possa essere limitata, violata.
E così, da un giorno all’altro, devi spiegare dove stai andando e perché. Le opzioni non sono molte: a) comprovate esigenze lavorative; b) situazioni di necessità; c) motivi di salute; d) rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. C’è un mondo al di fuori di queste caselle, costruite con un burocratese incerto, che suscita una triste diffidenza.
E poi il supermercato: la fila opprimente per entrarci, gli scaffali tristi, sui quali si sono già posati occhi preoccupati e svelti; le mascherine, la cortesia egoista di chi vuole e deve starti lontano. E poi di nuovo, lì fuori, altre luci: stavolta la Polizia Municipale. E il rientro a casa, le mani da lavare (le avrai lavate bene?).
Il giorno dopo è diverso e porta altre sensazioni da decifrare. Pensieri ed emozioni nuove, sì, ma accompagnate da veri e propri nuovi riti: il comunicato della Protezione Civile delle 18.00, il nostro bollettino di guerra; la conferenza di Conte, quando c’è; le videochiamate, mai così tante. La tecnologia, i social, Whatsapp accompagnati in questi anni da un crescente sentimento di (legittima) diffidenza, si riscoprono mezzi utili: possiamo farne un buon uso e rivalutarli il giusto.
Poi eccolo lì, il gesto che non ti aspetti e che ti riscalda col suo rumore gentile: qualcuno suona. Sì, esatto, qualcuno ha preso un clarinetto e si è messo alla finestra e sta suonando. Non è solo: un’altra finestra, qualcuno con un flauto. Un balcone: c’è un ragazzo con una tromba. E cos’è questo rumore? Davvero qualcuno sta usando pentole e cucchiai per unirsi all’orchestra? E cosa sono queste parole? Davvero è l’inno italiano? Davvero è Bella ciao, Romagna mia, O Sole mio, sono davvero applausi questi? Stiamo cantando tutti insieme dai balconi, ci stiamo aggregando senza che il Nemico possa farci del male?
Sì, è esattamente così. E noi non siamo fatti per stare soli. Siamo animali sociali, stiamo vivendo questa cosa, tutti insieme.
Ne verremo fuori ma, per ora, resistiamo. E scriviamo: ci sarà molto da raccontare.
Alessandro Milito
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)