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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XIII, n.146, novembre 2019

Zoom immagine Il profondo dolore di una perdita:
la poesia esiste per combattere

di Gianfranco Neri
Da un progetto di Bottega editoriale la silloge di Carlo Morabito
dedicata alla dolorosa morte della figlia. Prefato da Gianfranco Neri


Dicono che uno dei dolori più grandi sia la perdita di qualcuno di amato. Ancora di più se si tratta di un figlio, un evento a cui nessun genitore è preparato perché innaturale, fuori dall’ordine delle cose. Nonostante tutto molto spesso accade e non ci sono modi per affrontare a pieno questo lutto. Un metodo per esorcizzare questo lutto può essere quello della scrittura, come dimostra Pianto antico di Giosuè Carducci, un classico della poesia italiana che dimostra come anche dal dolore possano scaturire emozioni meravigliose, da condividere con il mondo.
Su questa scia si colloca l’opera di Carlo Morabito
Valeria e io (Bottega editoriale, pp. 80, € 10,00), una silloge di poesie dedicate alla figlia scomparsa prematuramente. Di seguito la Prefazione al testo curata da Gianfranco Neri, che esprime perfettamente le sensazioni che lascia la lettura di quest’opera.

Se dovessi dire, in estrema sintesi, di questo libro di Carlo Morabito, direi che esso è – tra le molte cose che si scopriranno leggendolo – il modo in cui il linguaggio poetico stesso, la sua sacra capacità di ordinare il mondo attraverso le parole, viene accettato proprio per poter essere contemporaneamente e con veemenza negato. Oppure, potrei dire che esso è un consapevole omaggio e un abbandonarsi alla forza delle parole-immagini di cui si nutre, con lo scopo di ricondurre quell’universo apparente che esse descrivono in quel limite incerto dove il senso si scompagina. Ci mostra il caos dal quale noi stessi veniamo e dove possiamo ricominciare, e rintracciare pazientemente il principio, anche se tenue e provvisorio, per ricostruire e comprendere le ragioni della nostra presenza in esso.
Perché, qual è il potere che l’immagine ha su di noi?
È quello di rivelarci la presenza sconvolgente del mondo da cui essa proviene e al tempo stesso di placare quella stessa visione pensandola come se fosse realtà, illudendoci di dominarla.
Essa, come dice Maurice Blanchot, è quella «brillante menzogna» che le dà modo di attivare «una delle sue funzioni che è quella di placare, di umanizzare l’informe nulla, che il residuo ineliminabile dell’essere spinge verso di noi […] e ci permette di credere, nel profondo di un sogno felice che l’arte troppo spesso autorizza, che in disparte dal reale e immediatamente dietro ad esso noi troviamo, quale una pura felicità e una superba soddisfazione, l’eternità trasparente dell’irreale».
Perché ci sconvolgono questi splendidi, misteriosi, terribili e straordinari componimenti poetici di Carlo?

Perché essi ci fanno affacciare sul bordo di un abisso in cui il tempo si rovescia, svelando l’ingiustizia più profonda e feroce che la Vita nasconde, e la falsa promessa che essa ci fa: che siano sempre i padri (e le madri) ad anticipare i figli, a illuminare loro la strada per quel mondo verso il quale dovranno poi seguirli. E quando ciò non accade, ecco il rovesciarsi dell’universo e del tempo, e il padre diventa inopinatamente figlio: con le sue fragilità, le paure, le incertezze, la forza cieca e la bellezza di quell’istinto inconsapevole che la vita dà alla giovinezza e alle umane speranze.

Le parole svelano e placano l’orrore: arte disperata è una contraddizione in termini, anche questo dicono quelle di Carlo. E le sue parole scavano la nostra anima per cercare in essa i primi suoni con cui accordare insieme il piano di un linguaggio che in una miracolosa assonanza, in un tentativo estremo di incontro, possa raggiungere e ridimensionare il vuoto in cui essa esiste.

Mi lega a Carlo, e credo lui a me, anche un rapporto diretto con l’arte, con la manipolazione delle materie (e delle immagini) attraverso le quali tentiamo talora di stanarla, tendendole imboscate. Tentativi, come si sa, troppo spesso infruttuosi, poiché l’arte è una pratica rara e crudele di violazione dell’universo del linguaggio e, come sostiene Octavio Paz, «se l’universo è un linguaggio [l’arte, proprio quando è realmente tale], ci mostra il rovescio del linguaggio: l’altra faccia, il volto vuoto dell’universo [generando] opere in cerca di significato». Un volto meraviglioso e terrificante, una nube luminosa, vastissima e densa e che acceca prossima a un vuoto.

Caro Carlo / è proprio in questo grande vuoto / che ci incontriamo / e che tu hai scavato / per noi dolorosamente / generoso / grattando con le dita ormai / ferite / per dividerlo / con le tue parole / così vitali e incapaci nel loro essere / di essere desolanti / perché esse sempre sono / speranza / consolazione / futuro / anche quando il futuro retrocede / dissolvendosi / negli istanti in cui non ci siamo accorti / distratti dalla vita / che mentre vivevamo / di essa eravamo inconsapevoli // Caro Carlo / quanta fatica e quanto dolore a dar forma all’assenza.

Questo libro è il diario di un padre ridiventato figlio attraverso la Figlia, involontaria artefice di questa dolente metamorfosi, dove essa riscopre l’amo-re che soltanto un padre può dare.

Gianfranco Neri

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIII, n. 146, novembre 2019)

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