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A. XIII, n.141, giugno 2019
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XIII, n.141, giugno 2019

Zoom immagine Un popolo storico in movimento,
unito in comunità: gli Arbëreshë

di Riccardo Berardi
Per Edizioni Solfanelli Nicola La Barbera racconta le vicende
degli albanesi migranti per l’Italia. Prefato da Riccardo Berardi


Uno studio approfondito sulla storia e la cultura albanese, sui loro spostamenti e le vicende che li hanno interessati, corredato da un interessante dossier particolareggiato sulle comunità che si sono andate creando attraverso il loro esodo, continuo ma inesorabile, fino a riuscire, finalmente a stabilirsi. Questo viene descritto in Gli Arbëreshë d’Italia (Edizioni Solfanelli, pp. 336, € 22,00), opera che appartiene alla “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale.
Di questo saggio, impreziosito, tra i tanti elementi, da un attento indice dei nomi redatto da Ilenia Marrapodi, non intendiamo svelare molto.
È sicuramente più appagante e istruttivo leggerlo: tuttavia forniamo la
Prefazione curata dal professor Riccardo Berardi, storico medievista dell’Università di S. Marino e Université de Nantes. Buona lettura!

L’attenzione alle minoranze etniche ha costituito negli ultimi decenni uno dei motivi pregnanti della ricerca storica, linguistica, antropologica e sociologica; si sono aperte, infatti, nuove prospettive di analisi e campi di indagine che hanno portato a risultati – rispetto ai tempi passati – più che soddisfacenti. I nomi di Matteo Mandalà e, soprattutto, di Francesco Altimari, sono emblematici in tal senso.
Ma è stato Attilio Vaccaro, con il suo percorso storiografico, a dare un nuovo e forte contributo fondamentale alla storia civile e religiosa degli Italo-Albanesi del Mezzogiorno d’Italia tra Medioevo ed Età moderna; la regione calabrese, la maggiore protagonista della presenza albanese in Italia, è stata ancora oggetto di indagine, in tutte le sue epoche storiche, del volume La Calabria Albanese edito dalla Rubbettino.
Un nuovo tipo di lavoro ora è stato proposto da Nicola La Barbera, una sintesi generale della storia degli Arbëreshë d’Italia dall’Età antica al Risorgimento, comprensiva di una notevole e approfondita rubrica sui singoli paesi di origine italo-albanese ubicati nel territorio nazionale anche in Età contemporanea.
La storia di questo popolo si configura come una particolarità all’interno dell’Occidente cristiano tra XV e XVI secolo, quando i cristiani ortodossi provenienti dall’Albania bizantina si insediarono nel Mezzogiorno d’Italia; infatti anche se furono accolti da abati, vescovi e feudatari, rimasero per diverso tempo in una posizione di marginalità nella società “latina”, nonché di autoprotezione della loro cultura, storia e rito greco.
D’altra parte, le relazioni tra l’Albania (Illiria) e l’Italia ebbero un ruolo rilevante nei rapporti tra le due sponde adriatiche fin dalla costituzione dell’Impero romano e – come ha segnalato anche La Barbera – continuarono per tutta l’Età medievale. Tutti i sovrani normanni cercarono di impadronirsi del “paese delle Aquile” nel contesto della lotta contro Bisanzio, anche Manfredi di Svevia si unì in nozze nel 1258 con Elena, figlia di Michele II Angelo despota d’Epiro, ricevendo in dote Valona, Durazzo e altri territori. Carlo I d’Angiò – ereditando i territori del sovrano svevo – fondò nel 1272 il Regnum Albaniae, ma già alla fine del XIV secolo alcuni territori dell’Albania centro-meridionale passarono al dominio turco, mentre Durazzo e Scutari a Venezia.
Alla metà del Quattrocento Giorgio Kastriota Skanderbeg, eroe albanese della guerra antiturca, divenne “vassallo” del sovrano del Regno di Napoli, Alfonso V d’Aragona, ricevendo alcuni feudi nell’odierno Gargano.
Come ha ben annotato l’autore, alcuni studiosi hanno dimostrato che i diplomi della seconda metà del XV secolo – come il privilegio regio del 1448 ottenuto da Demetrio Reres – risultano essere interpolati, anche se è certo che dopo la completa occupazione turca dell’Albania (1478-1479) diversi profughi con al seguito preti di rito greco si stabilirono per lo più in Calabria e Sicilia; tuttavia non è possibile costruire, tramite le fonti demografiche e le capitolazioni superstiti, una mappa completa degli insediamenti dei Greco-Albanesi avvenuti nella seconda metà del Quattrocento.
In fuga da Corone e dalla Morea (1533), altri Albanesi giunsero in Italia e fondarono, fra gli altri paesi, San Demetrio (Corone) e San Benedetto Ullano; tra XVII e XVIII secolo ci furono sporadici espatri di piccole famiglie, come quelle provenienti da Piqeras in Chimarra, alle quali fu assegnata, da Carlo III di Borbone, Villa Badessa (Pescara) nel 1742.
Questi Greco-Albanesi portarono con loro oltre a una lingua antica, la cultura religiosa dell’Oriente cristiano, e se da un lato il loro inserimento causò una sofferta collocazione nei canoni della Chiesa occidentale, dall’altro portò a un’opportuna ripresa e tutela del rito greco-bizantino. È ben noto infatti lo zelo dimostrato dai romani pontefici verso gli orientali, specie in un contesto ecclesiastico pretridentino, dove si vietava agli ordinari latini di interferire nelle celebrazioni liturgiche del clero albanese.
Successivamente al Concilio di Trento (1573) Gregorio XIII istituì la “Congregazione romana per la riforma dei Greci e degli Albanesi viventi in Italia secondo il rito orientale”, la quale decretava la difesa delle tradizioni liturgiche del rito greco, ma sempre in conformità con lo spirito riformatore del Concilio tridentino, ovvero le comunità greco-albanesi venivano sottoposte alla giurisdizione dei vescovi latini del luogo. Dal punto di vista istituzionale, queste comunità furono assoggettate ai potentati laici ed ecclesiastici tramite la stipula di capitolazioni, ma già dal XVII secolo e soprattutto dal Settecento il mondo italo-albanese fu partecipe – anche in maniera autonoma – ai maggiori movimenti del regno (Rivolta di Masaniello), e grazie alla nascita del collegio Corsini a San Benedetto Ullano, poi portato a San Demetrio Corone, presso l’antico monastero di Sant’Adriano, alcuni intellettuali arbëreshë furono attivissimi nel partito giacobino calabrese nel 1799.
Anche nei moti ottocenteschi la situazione rimase simile: dal periodo francese ai moti carbonari e costituzionali del 1821, dal 1848 alla grande mobilitazione albanese al seguito dei Mille di Garibaldi, i maggiori esponenti – nonostante alcuni storici, rileva l’autore, ridimensionino il loro ruolo – furono quasi tutti albanesi e allievi del collegio di Sant’Adriano.
Dopo l’Unità le aspettative risorgimentali degli Italo-Albanesi furono in parte appagate, sia per le divisioni delle terre demaniali che per la costituzione di un mediocre sistema ferroviario, tuttavia gli abitanti dei centri arbëreshë parteciparono, a causa della loro povertà, al grande processo migratorio che interessò tutto il Mezzogiorno d’Italia.
All’inizio del Novecento gli Italo-Albanesi ebbero un ulteriore riconoscimento dal mondo cattolico, il pontefice con la bolla del 13 febbraio 1919 Catholici fideles istituì l’eparchia di Lungro in Calabria, mentre il 26 ottobre 1937 – nel pieno Fascismo – venne creata l’eparchia di Piana degli Albanesi in Sicilia; grazie anche a queste disposizioni gli aspetti variegati della liturgia e la pietà popolare dell’Oriente cristiano sono giunti sino ai nostri giorni pressoché inalterati.
Il Ventennio fascista fu una fase drammatica nella storia degli Italo-Albanesi: essi furono discriminati dal “meridionalismo fascista” teorizzato da Michele Bianchi, il quale indirizzò poche risorse verso le comunità italo-albanesi, per di più afflitte da una discontinuità del potere podestarile comunale; ciò comportò un profondo dissenso contro il regime, come dimostrato alla fine del Ventennio, i comuni albanesi manifestarono contro le vecchie gerarchie fasciste locali chiedendone l’esilio.
Con la costituzione della Repubblica italiana i centri italo-albanesi parteciparono attivamente alla dialettica politica regionale e nazionale aderendo anche alle contraddizioni del sistema politico-democratico che produsse, negli anni Novanta, la nascita della Seconda repubblica.
Occorre mettere in rilievo, inoltre, un importante dato: i territori italo-albanesi, nonostante siano circondati da centri dove il sistema mafioso è ben noto, non hanno sviluppato al loro interno tale attività illecita.
È in questo contesto storico appena delineato che il lavoro di La Barbera ha trovato ampio sviluppo, un’opera che ha il merito di aver arricchito la storia degli Arbëreshë d’Italia.

Riccardo Berardi

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIII, n. 141, giugno 2019)

Collaboratori di redazione:
Veronica Lombardi, Ilenia Marrapodi, Antonella Napoli, Maria Chiara Paone
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