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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
La nostra vita
ha un sapore?
di Maria Chiara Paone
Una nuova raccolta
per Emersioni,
tra gioie e dolori
«Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte» scriveva Italo Calvino e non possiamo che dirci d’accordo; tuttavia è altrettanto importante ai fini della narrazione – che in un racconto possiede un raggio d’azione minore rispetto a quello di un romanzo – ciò che accade nel mezzo e le modalità in cui avviene, elementi che dipendono direttamente dall’autore e che possono costituire elemento di innovazione.
Un esempio è quello di Massimiliano Bellavista e della sua raccolta di racconti, Dolceamaro, (Emersioni, pp. 188, € 18,50). Un autore, Bellavista, che fa parte della “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale, dalla vasta esperienza letteraria. Sulla sua produzione abbiamo scritto più volte (fra l’altro:
Le storie
Una differenza facilmente individuabile è nel numero dei racconti, nove rispetto ai diciannove della scorsa raccolta; tuttavia questo non risulta essere un difetto ma un plus, consentendo così all’autore – e, in seguito, al lettore – di concentrarsi maggiormente sulle storie raccontate, mantenendo quindi dei nuclei narrativi meno dispersivi e più facili da raggruppare, tramite un filo conduttore di immediata ricognizione, espresso nel titolo.
Infatti i protagonisti di ogni storia, tutti nella loro quotidianità, vivono in modo imperfetto, portando dentro di sé certamente degli episodi dolorosi, come una condizione di malattia cronica, oppure la perdita del lavoro o di un familiare, ma riescono comunque a ritagliarsi piccoli momenti di felicità cogliendoli durante il loro quieto vivere nei modi più disparati.
Così un anziano disoccupato, tramite un accidentale scambio di buste della spesa, troverà un amico e un maestro di “falsa” teologia, che lo accompagnerà nelle vie nascoste della sua città, scovando vecchie chiese e nuovi santi, in una carrellata di personaggi diversi nei caratteri ma accomunati dal loro modo di reagire alle ingiustizie che la vita ha riservato loro; un re scoprirà, dopo la morte della moglie, di quanto sia inutile farsi ossessionare dal pensiero della fine mentre si può ancora fare qualcosa per vivere al meglio; una figlia ormai da sola riuscirà a ricevere i ricordi del padre assente da tempo.
Un tema abbastanza ricorrente è quello dell’amore, descritto in varie sfaccettature; dall’armonia di due anime che si ritrovano affini nonostante le differenze come in Sale e zucchero («Io sto dappertutto, ma non mi si deve vedere […]. Tu invece devi scintillare bene in vista, come la granella sulle brioches. […] E tutti e due occorriamo al saggio e tutti e due siamo necessari alla vita»), alla passione travolgente di una relazione e la paura che tutto questo possa finire, come ne L’artefice («Forse gli serve tutta la vita che c’è nel tuo corpo e poi ti svuoterà come una delle tante vecchie bottiglie abbandonate in cantina, che sembrano ogni giorno più vuote»). La morale però è sempre la stessa: vivere la vita seguendo l’attimo.
Presenti anche i rapporti familiari, mai modello edificante della famiglia descritta da un certo Mulino, ma che svolgono ruoli ben definiti nella vita dei personaggi, sia come involontaria fonte di morale e insegnamento, in Apodidraskinda, sia, purtroppo, come fonte di disagio ulteriore, come avviene alla protagonista di Tre volte al giorno.
La fantasia
Nonostante i protagonisti – a eccezione del re della storia centrale, che sembra fare da spartiacque – vivano in dei mondi del tutto ordinari, l’elemento fantastico e soprannaturale è presente in alcuni racconti. Così ci si ritrova a leggere di piccoli indovini che in Reversione (C’era una volta un re) lo aiuteranno a scoprire tutto sulla sua prossima morte oppure dell’uomo che riveste la professione di “uomo comune”, su cui poter riversare straordinariamente ricordi e sensazioni.
Compito dello scrittore è fare in modo che l’irreale si fonda con la quotidianità, creando la giusta curiosità e sconcerto, in modo che il lettore viva l’esperienza al massimo in simbiosi con il protagonista; e questo Bellavista riesce a farlo egregiamente.
Lo stile
Come nell’opera precedente, di cui si accennava prima, la scrittura è semplice ma non scontata, in cui veicolano diversi modelli narrativi oltre a quelli “classici”, dall’utilizzo della seconda persona alla “favola della buonanotte”. La scelta del lessico, a partire dai titoli, è sempre opportuna, e l’autore non si fa problemi ad utilizzare parole straniere, prese in prestito dal greco, oppure di aggiungere elementi pop, come versi di canzoni di De Andrè, riferimenti cinematografici e persino vecchie filastrocche per bambini, sfoderando un bagaglio culturale ampio e, soprattutto, di valore.
Ovviamente, come annuncia il titolo, non tutte le storie avranno un canonico happy ending anzi, potrebbero lasciare un po’ di amaro in bocca, come se si stesse assumendo una medicina; ma a questo rimedia l’autore tramite l’utilizzo di un miele di lucreziana memoria: la bellezza della parola scritta.
Maria Chiara Paone
(www.bottegascriptamanent.it, anno XIII, n. 140, maggio 2019)