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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
La bellezza e il desiderio
sconfiggono il male
in una pellicola intensa
e piena di simboli
di Guglielmo Colombero
Celebrando mezzo secolo di carriera con un autentico capolavoro,
Marco Bellocchio torna al passato ma con gli occhi ben aperti sul futuro
Anno Domini 1630: l’Europa sguazza nel sangue delle guerre di religione, mentre l’Italia è rischiarata dal sinistro riverbero dei roghi controriformisti. A Bobbio, sonnolento e idilliaco paese del piacentino, un giovane cavaliere bussa alla porta di un convento. Accolto da una vecchia e lugubre suora cieca, è condotto in una sala vuota e invitato ad attendere. Invece, disobbedendo all’ordine, oltrepassa la soglia proibita della clausura: intravede una penitente appesa per i piedi, sente dei lamenti, percepisce un ambiente ammorbato e malsano, degno della manzoniana monaca di Monza, e che forse avrebbe persino deliziato il divin marchese de Le 120 giornate di Sodoma. In un giardino dai colori sensualmente sgargianti, spicca poi il candore verginale di alcune novizie biancovestite che intonano un inno sacro. Il cavaliere si chiama Federico Mai: lo hanno convocato le autorità religiose del luogo, in seguito al suicidio del fratello gemello, un sacerdote trascinato sulla china della lussuria da Benedetta, suora sospettata di intimità con il demonio.
«Solo se lei confesserà di essere una strega e di aver sconvolto la mente di tuo fratello inducendolo a togliersi la vita lo potremo seppellire in terra consacrata e risparmiare il disonore alla tua famiglia», queste le parole rivolte a Federico da padre Cacciapuoti, incaricato dalla Santa Inquisizione di condurre l’istruttoria nei riguardi della suora. Ma l’accusata non confessa: sottoposta a due prove ritenute inconfutabili (l’immersione nell’acqua e le lacrime sgorgate nell’udire il racconto della passione di Cristo), le supera entrambe con l’impassibilità degna di una martire della fede. Federico meditava di vendicare il fratello, ma quando leva il pugnale su Benedetta il suo braccio si arresta. Il sorriso enigmatico della donna lo ammalia, gli sconvolge i sensi. Ospite di due sorelle nubili, premurose e devote, Federico, dopo l’incontro con Benedetta, è talmente spaventato dalla solitudine notturna da chiedere alle due donne, tutt’altro che insensibili al suo fascino, di abbracciarlo teneramente e di restargli accanto nel letto. Il giorno dopo, Federico è autorizzato ad interrogare personalmente la prigioniera: Benedetta lo bacia con passione e gli consegna le chiavi della clausura, che nascondeva nella cella. Il giovane è in preda a un transfert devastante: s’immedesima totalmente nel fratello e rivive il momento del suo suicidio in riva al fiume. Sottoposta alla più dolorosa delle prove, quella del fuoco (che consiste nell’applicazione di croci arroventate sui palmi delle mani), Benedetta sembra sul punto di cedere. Padre Cacciapuoti rassicura Federico: la strega confesserà il suo maleficio e il fratello potrà così ottenere una cristiana sepoltura. Mentre Federico si allontana in preda all’angoscia più nera, Benedetta è condannata a essere murata viva.
Improvvisamente lo scenario si sposta ai giorni nostri: ricompare Federico questa volta nei panni di un elegante truffatore che, spacciandosi per funzionario della Regione, tenta di raggirare un miliardario russo. Il piano di Federico include anche la vendita dell’edificio in cui era stata processata Benedetta, ormai decaduto e in rovina. Fra quelle antiche mura però si nasconde il conte Basta, un vecchio e ricco misantropo che da otto anni ha fatto perdere le proprie tracce all’avida consorte. La gente di Bobbio lo chiama “il vampiro”, per la sua abitudine di vagare per il paese di notte, come uno spettro. In realtà, il conte vive isolato perché disgustato dalla modernità: non a caso è il capo carismatico di una specie di setta elitaria, che vorrebbe impedire qualsiasi mutamento nella piccola comunità in cui vive per poter continuare indisturbata a realizzare i suoi intrallazzi. Scoperta la vera identità dell’imbroglione, Basta riesce a sventarne il progetto, ma, spiando una coppia di giovani imboscati fra i labirinti del convento abbandonato, è colto da una specie di affannoso rimpianto.
Si ritorna al Seicento: trent’anni dopo la condanna di Benedetta. Federico ha intrapreso la carriera ecclesiastica, è diventato cardinale. Ritorna a Bobbio per conoscere il destino di Benedetta: lo informano che è ancora viva, e che ha espiato la sua colpa con ammirevole mansuetudine e rassegnazione. Attraverso l’unica apertura della cella, Federico intravede le piaghe sul corpo di Benedetta, le macchie di sangue, la putredine, gli escrementi. Ordina di liberare immediatamente la prigioniera, ormai purificata dai suoi peccati. Una volta demolita la cella, dalla polvere provocata dai colpi di piccone emerge la figura di una giovane donna nuda, dalla pelle luminosa e vellutata, una specie di Eva uscita dall’Eden che, trionfante, sembra sfiorare il suolo con il suo passo leggero. Il cardinale Federico allora piomba al suolo, esanime.
Attraversando la distanza dei secoli anche il conte Basta è rapito dalla morte sulla scalinata del convento, trafitto da un raggio di luce, proprio come Nosferatu il vampiro. L’inquadratura finale si sofferma sulle auto dei finanzieri che irrompono nel paese: la setta isolazionista, ormai, è braccata.
Tutto cominciò a Bobbio, tutto finisce a Bobbio
Marco Bellocchio aveva appena ventisei anni quando provocò un maremoto di pubblico e critica con un esordio al tritolo, I pugni in tasca, opera dirompente, trasgressiva, profanatoria, ambientata in una Bobbio sordida e provinciale. L’angelo sterminatore Lou Castel che, con fredda e metodica lucidità, annienta la propria famiglia afflitta da tare e infermità, è un personaggio che non si dimentica facilmente. Osannato a sinistra come l’emulo italiano di Buñuel (ma al maestro iberico non piacque la sequenza in cui Castel sbeffeggia la salma della madre da lui appena assassinata. «Tanto valeva che ci defecasse dentro quella bara», fu il suo commento), vituperato a destra come bolscevico sovvertitore della sacra triade Dio-Patria-Famiglia, Bellocchio inizia il suo percorso con il piede premuto sull’acceleratore, e per mezzo secolo continua, nel bene e nel male, a far parlare di sé.
Due anni dopo il debutto, mette in ridicolo il trasformismo politico in La Cina è vicina. Negli anni Settanta, la sua vena polemica infierisce implacabile sulla formazione cattolica dei futuri notabili democristiani in Nel nome del padre; sul giornalismo mercenario al servizio della reazione in Sbatti il mostro in prima pagina; sul militarismo fascistoide in Marcia trionfale. Nel decennio successivo, l’iperbole creativa si tinge di visionario: sbocciano frutti avvelenati come Salto nel vuoto; riflessioni autobiografiche come Gli occhi, la bocca; scorrerie provocatorie nelle pulsioni erotiche come Diavolo in corpo (fece scalpore la prima descrizione esplicita del sesso orale al di fuori del circuito porno, temerariamente messa in atto dall’attrice olandese Maruschka Detmers); apologhi deliranti come La visione del sabba (prologo ideale di Sangue del mio sangue in materia di stregoneria). Infine, dalla caduta del Muro ad oggi, Bellocchio ha sempre affrontato tematiche scomode e scottanti (la violenza sessuale, il disagio psichico, il terrorismo, l’eutanasia) con una padronanza del mezzo espressivo che colloca alcune delle sue opere più recenti fra i classici del cinema italiano d’autore: se L’ora di religione e Buongiorno notte recano l’impronta inconfondibile del capolavoro, altre alchimie meno riuscite come Il sogno della farfalla, Il principe di Homburg, Il regista di matrimoni, Vincere, Sorelle mai e Bella addormentata sfoderano comunque sprazzi intermittenti di genialità allo stato puro.
In Sangue del mio sangue Marco Bellocchio chiude il cerchio e ritorna alle origini: «Bobbio è il mondo», afferma sarcastico il conte Basta, e così è per l’autore, dato che il microcosmo letargico del paese finisce per coincidere idealmente con il suo labirintico universo interiore. L’occhio cinematografico, non certo reso opaco, anzi, affinato dall’età non più verde ma vitale come un crepuscolo infuocato, riesce a infondere ad ogni singola inquadratura gli echi abissali di una psiche rivelata e svelata dall’immagine filmica (esemplare in questo senso il montaggio, curato da Francesca Calvelli, compagna del regista). Lo sfondo cromatico su cui agiscono i personaggi è denso di impasti pittorici, grazie alla maestria di Daniele Ciprì che combina chiaroscuri quasi caravaggeschi (l’alcova claustrofobica del conte Basta; l’altare barocco davanti al quale Benedetta affronta l’atroce prova del fuoco) con eruzioni sensuali di colore (il roseto del convento) e con tonalità livide e quasi espressioniste (la nuda cella di Benedetta; le acque torbide in cui sprofonda il prete suicida). Il simbolismo affiora nel tema del doppio: Federico e suo fratello gemello Fabrizio, il coro delle novizie parodiato dal gruppo di ragazzine che intona canzonette al ristorante, le sorelle che ospitano Federico, le due chiavi del portone della clausura in possesso di Benedetta. Da notare anche come alcuni nomi siano volutamente emblematici: Basta, Mai, Quantunque.
La strega e l’inquisitore, Nosferatu dal dentista
Come sempre, Bellocchio non dirige i suoi interpreti: li plasma, li trasfigura. Suo figlio Pier Giorgio è un Federico traboccante di desiderio represso, di furore impotente, di masochismo narcisistico. Padre Cacciapuoti, il viscido inquisitore impersonato con subdolo sadismo dall’impeccabile Fausto Russo Alesi, spaccia Federico come il fratello redivivo, sperando di ingannare Benedetta e di indurla così a confessare: ma sarà lei a beffare entrambi, con una falsa confessione che, nel momento in cui viene murata viva, la trasforma in una sorta d’Antigone refrattaria all’arroganza del potere, cattolico e oscurantista nel Seicento, laico e reazionario ai giorni nostri. La giovane attrice ucraina Lidiya Liberman, che raccoglie il testimone lasciato dalla francese Beatrice Dalle ne La visione del sabba (anche lei strega ipnotica e seduttrice che attraversa il tempo e lo spazio, eterna e incorruttibile come l’essenza stessa della tentazione), tratteggia una Benedetta sottilmente indecifrabile e perturbante, dal sorriso enigmatico come quello della Gioconda. Incatenata e immersa nell’acqua, oppure circondata da un crocchio di frati salmodianti («Non soffocatela!», esclama in un impeto di gelida collera padre Cacciapuoti), angelo demoniaco o demonio angelico, a seconda dell’angolatura scelta, Benedetta è una Jeanne d’Arc riflessa da uno specchio deformante, una Maddalena impenitente che ribolle d’intrepida femminilità.
Roberto Herlitzka, l’indimenticabile Aldo Moro di Buongiorno notte, ricompare nel ruolo altrettanto simulacrale del conte Basta: nel grottesco colloquio con il proprio dentista (Toni Bertorelli, il forcaiolo conte Bulla de L’ora di religione, ancora più caustico nei panni di un nostalgico dei bei tempi in cui, invece di chiedere la fattura, i contadini pagavano le cure mediche con polli, uova e salami) infarcisce con sofismi filosofici tutto il suo aristocratico disprezzo per il genere umano. Un cinismo squisitamente teatrale, da godere in ogni parola, in ogni sfumatura della mimica facciale, in ogni variazione del tono di voce. Incastonati alla perfezione nella trama anche il fratello maggiore del regista, il poeta Alberto Bellocchio, nei panni ieratici del maturo cardinale Federico, e la figlia Elena, la ragazza solare che finisce per far implodere il presunto vampiro. Infine, le due sorelle invaghite del bel Federico, Alba Rohrwacher e Federica Fracassi, che stemperano nell’ironia il sapore quasi boccaccesco della situazione.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 97, settembre 2015)