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A. IX, n. 95, luglio 2015
1968-1978.
Anni di terrore
e rivoluzione
di Anna Del Monaco
Da Falco editore, un invito
a tener viva la memoria civile
Chiudere gli occhi e sentire lo stesso odore acre di carne bruciata che hanno sentito i passanti mentre attraversavano piazza Fontana dopo la strage. Milano, 12 dicembre 1969. Vedere la bicicletta volare in cielo in una piazza della Loggia attonita e impaurita dopo l’esplosione. Brescia, 28 maggio 1974. Udire le sirene delle ambulanze che arrivano alla stazione in una calda mattina d’estate. Bologna, 2 agosto 1980. Provare lo stesso dolore delle madri cui vengono ammazzati i figli e che non riusciranno mai a sapere il perché. Capire che nonostante tutto bisogna continuare a lottare, ricordare incessantemente, fare memoria attiva, militante. Quindi, aprire gli occhi, prendere atto di quello che è accaduto e tramandarlo alle più giovani generazioni. Questo è lo studio di Chantal Castiglione, Tra speranze e illusioni: l’Italia negli Anni di Piombo (Falco editore, pp. 164, €12,00), che ripercorre il periodo che va dal 1968 ai primi anni Ottanta e concludendosi con l’esperienza brigatista.
Gli “anni di piombo”: i formidabili anni d’effervescenza collettiva
Come ha sottolineato Carmelo Albanese in uno stralcio d’intervista: «Chiamarli “Anni di Piombo” significa eseguire il dettame finale di quel percorso repressivo che ha nascosto nel sangue, un sangue sporco, un sangue mai reso manifesto, quelle che erano delle rivendicazioni di progresso, di emersione delle classi popolari, “l’assalto al cielo”». L’autrice constata che sarebbe forse più corretto definirli, come ha fatto Franco Piperno, «Formidabili anni». Infatti, la definizione “anni di piombo”, secondo Carmelo Albanese e Silvano Agosti, è riduttiva rispetto a quello che fu un periodo di grande effervescenza collettiva, dell’“assalto al cielo”, dei giovani pieni di ideali, sogni e speranze, uniti da una forte ideologia che faceva da collante per le lotte e le rivendicazioni; anzi è da ostacolo alla comprensione di ciò che sono stati realmente quegli anni. Ancora, Carmelo Albanese ha avanzato questa ipotesi: «L’idea di “Anni di Piombo” che è stata fatta passare dalla criminalità intellettuale di alcuni partiti, tra cui il principale è quello della sinistra italiana, è sbagliata. Il ruolo di questi partiti è stato di leggere storicamente o nel far leggere attraverso i potentati accademici o intellettuali o giornalistici l’esperienza del Decennio ’68-’78, soprattutto l’ultima parte degli anni Settanta, come un’esperienza sovversiva, “l’assalto al cielo”, il deflagramento di tutti quelli che erano gli ordini costituiti anche a sinistra».
«Gli “Anni di Piombo” erano anni veramente importanti – continua Albanese – gli ultimi anni in cui si è espressa l’umanità a piena voce. Allora il piombo c’è stato ma è stato un piombo strategico, pensato dallo stato, al quale, in modo devastante e tragico, anche i movimenti e le singole persone hanno poi dovuto cedere, manifestazioni che non sono certo l’aspetto più significativo di quel periodo». Il piombo è stato portato nei campi dei contadini del Sud, davanti alle fabbriche in sciopero, nelle manifestazioni, già a partire dal Secondo dopoguerra. Basti pensare all’eccidio di contadini nel Mezzogiorno, agli operai uccisi davanti alle fabbriche, ai giovani ammazzati nelle piazze e davanti alle università. A sparare quel piombo, le forze dell’ordine. Sedare nel sangue le contraddizioni emergenti affinché nulla cambiasse, per bloccare sul nascere quelle istanze libertarie, di ravvedimento della propria condizione di sfruttamento, che avrebbe dovuto portare a una nuova Liberazione. Solo molto più tardi, a metà anni Settanta, i manifestanti si sono armati, quando l’iperbole del livello dello scontro si era già impennata drasticamente e il conflitto era divenuto quasi necessario, aggiungendosi, alle violenze perpetrate dalla polizia, quelle dei neofascisti. Si sono creati così i cosiddetti servizi d’ordine nei cortei. Con la promulgazione della legge 52 del 1975, la cosiddetta “legge reale”, le forze dell’ordine tornarono a reprimere brutalmente, facendo ricorso alle armi da fuoco, le istanze provenienti dalle piazze. Le prime manifestazioni sono state caratterizzate dal fatto che i partecipanti non erano armati e subivano le violenze. Le cose sono cambiate con Valle Giulia, a Roma il 1° marzo 1968. La svolta. Gli studenti reagiscono agli attacchi delle forze dell’ordine. Nelle interviste è raccontato quello che è successo da due punti di vista: quello di chi ha filmato gli accadimenti, Silvano Agosti, e quello di chi li ha vissuti sulla propria pelle, Franco Piperno. Proprio dopo il 1968, e precisamente dopo la strage di piazza Fontana del 1969, i giovani che si sono posti alla sinistra del Partito comunista si sono organizzati. Sono nati vari gruppi come Lotta continua e Potere operaio. I movimenti sono serviti ad incanalare tutte le richieste che provenivano dal basso, le hanno fatte proprie; frustrazioni e voglia di riscatto di un’intera generazione che ha deciso, divenendo unico corpo sociale e abbattendo le differenze tra operai e studenti, di lottare in prima persona per rivoluzionare il presente. C’era una frase famosa di Dario Fo che diceva: «Tutti insieme, tutti uniti, ma scusa quello non è il padrone?»: questa battuta stava a significare il fatto che l’antifascismo finiva per essere interclassista, mentre in Italia in quegli anni c’era uno scontro forte fra operai e capitale. Bisognava preservare l’autenticità di quello scontro anche culturalmente. Lotta continua era il gruppo più numeroso e aveva dentro una forte componente di origine cattolica. Potere operaio era invece caratterizzato da simpatie più anarchiche e da una certa saccenteria, perché facevano parte della formazione professori universitari, ricercatori, anche poeti come Nanni Balestrini, intellettuali, pittori come Mario Schifano. La sua natura era pertanto più elitaria. Quindi, i rapporti sono stati di solidarietà nelle grandi manifestazioni, ma anche di notevole rivalità. Quando Lotta continua e il Manifesto si presentarono alle elezioni, ci fu la rottura. Nelle testimonianze di chi ha vissuto quel periodo, da una certa parte politica, è emerso come la strage di piazza Fontana segni un prima e un dopo. Alle 16:37 del 12 dicembre 1969 una bomba è scoppiata alla Banca nazionale dell’agricoltura a Milano. Diciassette vittime inconsapevoli, agnelli sacrificati all’altare del potere. Il paese era piombato nella paura. Nulla era più come prima.
La “strategia della tensione”: per non dimenticare ciò che è ancora occultato
Sarà fatto riferimento anche ad alcuni avvenimenti antecedenti al periodo in questione (lotte contadine, operaie) perché legati da un filo rosso sangue. Si può parlare di “strategia della tensione” già dalla strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. “Strategia della tensione” significa innescare dei momenti di turbamento dell’ordine pubblico e imprimere una svolta reazionaria. I primi a legittimare i poteri occulti sono stati gli americani quando sbarcarono in Sicilia nel 1943. A Portella della Ginestra non è stato mandato l’esercito ma, evidentemente, sono stati inviati dei gruppi diversi che operavano in quell’ambito di oscurità così dannatamente visibile per le sorti del nostro paese: la mafia. Questa strage, in base a ciò che viene raccontato nello studio di Chantal Castiglione, è un esempio di utilizzo della mafia per riprodurre una certa forma di potere. La “strategia della tensione”, il cui inizio si fa risalire al 12 dicembre del 1969 con la strage di piazza Fontana, in realtà è presente già da prima, appunto dalla strage di Portella della Ginestra in poi. A fare le spese di questo clima reazionario, coloro che rivendicavano i propri diritti, contadini, appartenenti al Partito comunista. Su quei fatti, a distanza di più di sessant’anni, vige ancora il segreto di stato. Un ruolo crescente nelle agitazioni contadine, dunque, è stato svolto dalla polizia, che con la complicità di vari personaggi locali si è spinta in varie occasioni oltre la tutela dell’ordine. Gravi sono stati gli episodi di provocazione con lo scopo di innalzare vorticosamente il livello già incandescente della protesta, far scorrere sangue innocente e dimostrare la “criminalità” dei contadini politicizzati, orientati a sinistra dello schieramento partitico, che erano impegnati in una lotta dura ma democratica per l’affermazione dei propri diritti, soprattutto per quanto riguarda il lavoro e la terra.
Storia diversa, ma non per le misure repressive che sono state adottate, ha riguardato le lotte operaie portate avanti nel Nord Italia già a partire dagli anni Cinquanta. È il caso della strage delle Fonderie riunite di Modena, il 10 gennaio 1950. A pagare con il sangue sono stati gli operai, in sciopero, che protestavano per l’affermazione dei propri diritti davanti alla fabbrica. I metodi usati – oltre agli sfollagente, alle cariche di camionette lanciate a folle velocità contro i manifestanti – sono stati utilizzati anche dei cecchini sui tetti dei palazzi circostanti. Sono stati uccisi sei manifestanti. Poi è la volta dei morti di Reggio Emilia, il 7 luglio 1960. La dinamica dello scontro è sempre uguale: le forze dell’ordine, alle quali, in questo caso, il capo del governo Tambroni aveva dato la libertà di aprire il fuoco in “situazioni d’emergenza”, sparano e uccidono. Rimangono al suolo i corpi senza vita di cinque operai. Anche per la repressione delle lotte operaie si può parlare di “strategia della tensione” in quanto, come era avvenuto già per gli eccidi dei contadini, la violenza istituzionale si è scagliata contro un determinato colore politico e una determinata identità, vale a dire contro il colore rosso delle bandiere degli operai comunisti.
È la storia della giustizia a senso unico. Storie individuali di uomini e donne che si sono fuse in un tutt’uno, una sola voce e un solo corpo sociale. Uomini e donne che hanno creduto, protestato e sono morti per un ideale.
Pasolini scriveva «Io so. Ma non ho le prove». Invece chi queste prove le ha sempre avute, secondo l’autrice, a distanza di più di quarant’anni fa ancora in modo che vengano taciute, occultate affinché pian piano la memoria individuale e collettiva venga cancellata.
L’intervista d’apertura, che valga come esempio tra quelle proposte e fatte dall’autrice, è quella a Claudia Pinelli, figlia di Giuseppe Pinelli, l’anarchico che venne fatto volar giù dal quarto piano della Questura di Milano, accusato ingiustamente di aver messo la bomba, insieme a Valpreda, nella Banca nazionale dell’agricoltura, il 12 dicembre 1969, strage di piazza Fontana. Morto da innocente, Giuseppe Pinelli non fu né il primo e né l’ultimo di una lunga serie di morti che hanno insanguinato sia il periodo precedente, quello delle lotte contadine, delle lotte operaie, sia quello suo contemporaneo dei giovani uccisi davanti alle università e le piazze dalle forze dell’ordine usate in assetto antidemocratico, sia del periodo posteriore con nuove stragi, massacri e uccisioni perpetrate dai neofascisti. In un breve estratto dell’intervista, dalla voce di Claudia, il ricordo di suo padre: «Per Pino l’anarchia non era solo un’idea o uno slogan, ma era il suo modo d’intendere la vita. Nessuno è mai stato chiamato a rispondere né della morte e né delle dichiarazioni infamanti. Tutte le denunce sono finite con archiviazioni, non siamo riuscite a entrare in un’aula di tribunale». Mai sarà appurato con certezza da un giudice cosa è accaduto realmente la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 nella stanza del commissario Calabresi, chi uccise Pino e perché.
«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace. […] Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di stato e delle stragi io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. […] Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia solo quando un uomo politico, non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento, deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di stato e delle stragi, che evidentemente egli sa come me, ma su cui, a differenza di me, non può non avere prove, o almeno indizi» (Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, Garzanti, Milano 2008).
Anna Del Monaco
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 95, luglio 2015)
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