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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Giuseppe Zangara:
per la disperazione
progettò di uccidere
(fallendo) Roosevelt
di Luisa Grieco e Mariangela Rotili
La storia dell'emigrato, poi condannato
alla sedia elettrica, in un saggio Klipper
Franklin Delano Roosevelt diventò presidente degli Stati Uniti d’America nel 1933. Prese per mano la nazione facendole superare
Ma l’operato dei presidenti, si sa, non mette mai d’accordo tutti, qualcuno resta sempre e comunque scontento. E a volte qualcun’altro si arrabbia, e di brutto anche: è il caso di Giuseppe Zangara, calabrese, emigrato negli Usa.
Nasce a Ferruzzano, piccolo centro della Locride a ridosso del massiccio dell’Aspromonte e del ventoso mare Jonio, nel 1900. Un’infanzia difficile, un padre-padrone violento, un lavoro massacrante nei campi e un’ulcera che già da piccolo lo fa soffrire con lancinanti dolori. Il giovane Giuseppe cresce così, chiedendosi il perché i figli dei ricchi vanno a scuola e quelli dei poveri devono lavorare nei campi.
Ma un giorno molla tutto e parte per gli Stati Uniti.
Perché Zangara giunse alla terribile decisione
Le 5 settimane di Giuseppe Zangara. L’uomo che avrebbe voluto uccidere Frank Delano Roosevelt (Klipper edizioni, pp. 294, € 20,00) di Blaise Picchi, avvocato e docente di Diritto penale alla Florida International University di Miami, a cura di Katia Massara, ricercatrice di Storia Contemporanea presso l’Università della Calabria, racconta la triste vicenda di questo emigrato calabrese.
Una storia che pochi conoscono e che è raccontata in questo libro con passione e con tanta abnegazione storica.
La vicenda è tutta incentrata, come il sottotitolo del libro recita apertamente, sul tentativo che fece Zangara di uccidere il presidente degli Stati Uniti d’America, Roosevelt, la sera del 15 febbraio del 1933 nel Bayfront Park di Miami, in Florida. Un caso che suscitò tanto scalpore nell’opinione pubblica americana.
Zangara vuole colpire al cuore del potere, vuole colpire la figura che secondo lui è il vero marchio delle differenze sociali ed economiche che attanagliano il mondo, e che sono la causa della sua infelicità, dei suoi dolori (fisici e psicologici): è a questo che attenta Zangara. Come un bambino che odia il calciatore della squadra di calcio avversaria e ne strappa la figurina in mille pezzi, così il piccolo calabrese (era alto poco più di un metro e sessanta) voleva colpire quella figura, quel simbolo. Sono qui le ragioni del deplorevole gesto. Ancora una volta le differenze tra una povertà esasperata e una ricchezza dilagante, è questa ingiustizia, è la disperazione che arma Zangara.
Quella sera il piccolo uomo sgomita tra la folla, pistola in mano: deve arrivare più vicino al presidente, è troppo minuto per colpirlo da lunga distanza. Spara cinque colpi, che non colpiscono il bersaglio, ma feriscono il sindaco di Chicago Anton Cermak.
Zangara viene arrestato e iniziano le sue ultime cinque settimane di vita. Il sindaco Cermak sembra migliorare, ma dopo qualche giorno muore. Il processo per l’uomo calabrese si trasforma in accusa di omicidio.
Il processo
Il tribunale della contea di Dade era altissimo, tanto da meritare il nome di “Tribunale grattacielo”, in stile neoclassico, alto 24 piani. Le prigioni erano situate nei piani intermedi: Zangara ci arrivò intorno alle dieci di sera, circondato dai fotografi e strattonato dalla gente.
Queste le sue successive dichiarazioni: «Quando arrivammo alla prigione, egli (uno dei poliziotti) mi scaraventò sul pavimento di pietra come un cane. Dopo un po’ mi tolsero tutti gli abiti e mi lasciarono nudo. [...] Mi tennero nudo fino al giorno dopo. La polizia della Contea, mi condusse poi in una stanza, simile alla stanza di un albergo. Mentre mi trovavo in quella stanza la gente veniva a vedermi giorno e notte e mi facevano delle fotografie».
I giornali non parlavano d’altro, facendo riferimento all'inglese parlato di Zangara con il tipico accento italiano, focalizzavano, impietosamente, l’attenzione sulla sua ignoranza, sulla sua statura fisica e sul colore della sua pelle «un italiano scuro di carnagione, tipico della sua razza». Già, la razza. Perché è anche di questo che il libro parla, di come erano visti gli italiani lì, nei profondi e lontani Usa di inizio Novecento, attraverso la triste vicenda di un emigrato.
Quasi immediatamente si apre il processo: Zangara è sempre impassibile, educato, ma il ghigno che ha stampato sul volto sembra non piacere affatto all’opinione pubblica americana.
Il giorno della sentenza arriva e Zangara è condannato alla sedie elettrica.
Il giudice Uly Thompson riunì
L’imputato, sentendo la sentenza, perse la sua compostezza e chiese conferma della condanna alla sedia elettrica. Il giudice rispose affermativamente. L’italiano alzò la voce: «Bene, non ho paura della sedia elettrica, perché penso che ho ragione ad uccidere il presidente. Perché sono i capitalisti, per il governo furfante. E io penso che voi siete un furfante».
La storia di questo piccolo uomo calabrese finisce così, tragicamente. La sua vita è stata segnata solo dal dolore, dalla tristezza di vedersi povero, dall’aver passato un’infanzia fatta di tanto lavoro, di poco cibo e di dolori lancinanti allo stomaco. L’America, il sogno di rivalsa per lui, si trasforma in una tomba che non gli ha offerto altro che una sedia elettrica. Ma purtroppo Zangara ha ucciso, e voleva uccidere l’uomo più potente del mondo, è questo il punto. L’esasperazione per una vita sempre difficile l’ha portato al terribile gesto, ingiustificabile, seppur comprensibile.
Questo libro racconta questa vicenda, arricchito dalle memorie dello stesso protagonista. È un saggio, ma si legge come se fosse un romanzo, per la semplicità e la bravura con la quale è stato scritto e tradotto in italiano (da Emilia Maria Pasqua).
Un libro impreziosito dalle foto di Zangara e dei molti personaggi che lo animano. Le foto della cella che lo ospitò fino alla sedia elettrica che gli tolse la vita il 20 marzo del 1933. Ma ce n'è una che ci ha colpito più di tutte: quella che ritrae l'uomo in mezzo a due guardie la notte incui venne arrestato. Uno dei due ha in mano la pistola dell'attentato. Zangara è nudo, coperto solo da un grande asciugamano raccolto in vita. Le braccia lunghe e lo sterno sporgente, negli occhi tristezza, sgomento, ma anche una velatura d'orgoglio, per aver, almeno provato, a ribellarsi alla sua condizione d'infelicità.
Carmine De Fazio
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 7, marzo 2008)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi