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Problemi e riflessioni (a cura di Mariacristiana Guglielmelli) . A. IX, nn. 93/94, mag/giu 2015

Zoom immagine La ricchezza e i contrasti
di identità multiculturali

di Anna Del Monaco
Da Edition Raetia, cento editoriali sull’Alto Adige:
per uno statuto potenzialmente più vantaggioso


Toni Visentini è editorialista del Corriere dell’Alto Adige. Il direttore del Neue Südtiroler Tageszeitung lo presenta come un giornalista di spirito, che racconta, spiega, discute, inquadra e analizza il presente. I suoi editoriali non sono scritti convenzionali, superficiali o inesatti: sa sempre di cosa parla e trasmette messaggi. È un giornalista estremamente appassionato e perspicace. Trova sempre espressioni precise, pertinenti e smascheranti. I suoi editoriali, raccolti in Non siamo l’ombelico del mondo. 100 editoriali sul Corriere dell’Alto Adige (Edition Raetia, pp. 168, € 14,90), sono la testimonianza di un animo intellettuale apprezzato dai lettori: una rivoluzione del sano buonsenso e dell’amore per il prossimo. Ha tutti i requisiti che caratterizzano un vero giornalista: una curiosità insaziabile, un’ardente partecipazione ai fatti di questa terra, una mente ingegnosa, un’indole vivace.

Presentazione dell’opera e dell’autore
Gian Antonio Stella, nella Prefazione al libro, introduce l’argomento dei 100 editoriali: la Bolzano di oggi. Piccoli dettagli: la falce e il martello che, anche se tanti non ci hanno mai badato o fingono di non accorgersene, sono tra gli artigli dell’aquila che troneggia nello stemma della Repubblica d’Austria e ridicolizzano una certa retorica anticomunista; l’annotazione che il gigantesco bassorilievo fascista in piazza del Tribunale non solo è bellissimo ma fu opera di un grande scultore bolzanino di lingua tedesca, Hans Piffrader; la sottolineatura che il Dolomiten ha pubblicato l’inno di Mameli «parola per parola e con perfetta traduzione in tedesco». Sono bersagli sin troppo facili il monumento alla Vittoria e ancor più il Mussolini a cavallo con il «credere-obbedire-combattere» di piazza del Tribunale. Non ci fossero, ci sarebbe probabilmente qualcosa d’altro da trovare come simbolo da contestare. Il fatto è che siamo in una terra di confine, con una storia tormentata alle spalle. E dunque, per quanto passino gli anni, con o senza monumento, ci sarà sempre una quota di popolazione nostalgica di un mondo che non c’è più, quella gente che guarda al passato e sogna di farlo rivivere.
Il libro di Toni Visentini è prezioso perché coglie questo o quel dettaglio, questa o quella sfumatura, spiega come è cambiato e come sta cambiando, giorno dopo giorno, l’Alto Adige degli italiani e il Südtirol dei tedeschi, impastati insieme dagli eventi della storia. E ormai, piaccia o non piaccia ai nazionalisti fanatici dell’una e dell’altra sponda, inseparabili come l’acqua e la farina una volta fatta la polenta.
Bolzano e il Sudtirolo sono un pezzo di terra dove si può vedere il mondo intero. L’odio atavico e la riconciliazione, il mondo tedesco e quello latino, lo strudel e il peperoncino di tanti meridionali arrivati nei decenni e accasati tra i masi, gli “Jodler”, le culture che si scontrano e poi si arricchiscono l’un l’altra. Ha molto da insegnare, l’Alto Adige, a chi vuole capire come due identità possano convivere in pace. Trovando quotidianamente l’antidoto a certe ossute rigidità. Ecco il lavoro quotidiano di Toni Visentini, con le sue puntute osservazioni su Regensburg-Ratisbona o sulla incapacità dei seriosi bolzanini di apprezzare talora l’ironia meridionale di certe insegne commerciali (“Da Rosalia tacchini e polli – A richiesta si aprono le cosce”). Perché la peggiore nemica della “pax sudtirolese” è proprio la legnosità, il rifiuto di ogni flessibilità, l’incapacità di saper sorridere di se stessi e perfino della propria storia. Di più, perfino delle proprie tragedie.
Enrico Franco, direttore del Corriere dell’Alto Adige e del Corriere del Trentino, nella Prefazione, presenta Toni Visentini come un acuto editorialista e un cronista di razza. È un giornalista di quella “vecchia” scuola che, fortunatamente, nel Corriere della sera e nelle sue testate locali sopravvive con tenacia. L’uso delle nuove tecnologie non ha fatto dimenticare la regola fondamentale per far bene questo mestiere: i fatti non si capiscono fino in fondo se non si va sul posto dove accadono e se non ci si tiene lontani da qualsiasi pregiudizio. Visentini anticipa la notizia e, dietro a ogni parola, nasconde sempre uno scrupoloso lavoro di verifica. In ciò, ovviamente, lo aiuta una profonda conoscenza delle complesse dinamiche di questa terra, sia quelle politiche sia quelle sociali. È questo enorme bagaglio culturale a consentirgli di essere sempre tempestivo: gli basta poco per andare alla radice degli eventi e capirne il minimo risvolto. La lunga militanza alla guida dell’Ansa regionale ha favorito la rapidità di riflessi, oltre ad acuire la capacità di rimanere ancorato con precisione ai particolari essenziali degli avvenimenti e di esporli con una sintesi mai banale. L’impegno nella prima agenzia di stampa italiana – che per sua natura fornisce notiziari il più possibile freddi e asettici – non gli ha però fatto scemare la passione umana e civile con la quale ha sempre affrontato l’impegno giornalistico. Visentini è un uomo che, pur avendone viste e raccontate di tutti i colori, riesce ancora a indignarsi o a commuoversi, ad arrabbiarsi o a intenerirsi. Nei suoi editoriali il lettore trova una miscela avvincente di notizie e sentimenti, di memoria storica e attenta lettura del presente. In questa parte di suoi editoriali raccolti nel volume si riassapora, a distanza e in sequenza, un lucido racconto degli ultimi anni del Südtirol. Come, per esempio, quando vengono messe in luce le tante fortune dei sudtirolesi e degli altoatesini, che conoscono il tedesco o cercano di migliorarlo, compresa quella di godersi un film o una partita in tv senza continue interruzioni pubblicitarie, grazie alla Ras, la società provinciale altoatesina che ritrasmette in Südtirol i programmi tv dell’area tedesca. Ma, soprattutto, senza la serie di programmi stupidi e volgari che ormai sono diventati pane quotidiano su troppe emittenti italiane. «Tv deficiente» l’aveva definita la signora Franca Ciampi usando un’espressione efficace – riportata nell'editoriale del 30 aprile 2006 – nonostante non renda l’idea del peggio del peggio che gira ora dopo ora in tv.
Racconto di una terra privilegiata, con un’autonomia invidiabile e ricca, cittadini di diverse lingue e culture, una natura splendida, una collocazione geografica centrale, un diffuso benessere.

Gli editoriali da un punto di vista politico
Tra Roma e Vienna, ormai, la questione altoatesina è trattata quasi di sfuggita, con la soluzione autonomistica portata ad esempio nel mondo. In realtà, ogni progetto che riguardi il futuro di questa area deve fare i conti non solo con il Trentino italiano e con il Tirolo austriaco, ma soprattutto con il Südtirol-Alto Adige, l’unica provincia ad avere la peculiarità di una vera autonomia multiculturale e multilinguistica, il fondamento autentico dell’autogoverno.
Nell’autonomista Südtirol come in Val d’Aosta il controllo fiscale è «molto forte e altamente punitivo», con metodi che rasentano il “terrorismo fiscale”. E giù a discutere di bar chiusi perché non avevano emesso scontrini per 59 euro. E a dire che «è assai esecrabile che nelle sedi delle imprese si arrivi con i mitra spianati e con metodi vessatori, che creano difficoltà e fanno insorgere malumori e paura non solo tra le piccole e medie imprese». Per non parlare dei «controlli nei confronti dei turisti, che vengono fermati a decine di km dagli alberghi e sottoposti alla redazione di verbali della durata anche di mezz’ora, che creano spavento e, di certo, non aiutano il turismo», negli editoriali del 13 giugno 2006, del 15 settembre 2006 e dell’8 giugno 2007.
La critica politica prosegue ancora negli anni successivi, negli editoriali dell'8 giugno 2008 e del 9 giugno 2009. Essere ben pagati per un lavoro importante è giusto. Ma un po’ di equilibrio ci vuole. Troppi soldi non favoriscono il ricambio e il rinnovamento. Chi fa il politico a livello locale, soprattutto se percepisce un normale stipendio fisso da insegnante o impiegato, si sistema per la vita. E non vuole andarsene mai. Non si sogna neppure di mollare l’incarico, tanto più se è assessore, neppure dopo due mandati: 10 anni, una vita. Così, nella fiera delle ipocrisie, si è al massimo formalmente disponibili a lasciare per rinnovare, ma poi si diventa subito valori aggiunti indispensabili alla causa: tutti mi vogliono. Indennità troppo alte non fanno dunque bene alla politica: scatenano arrivismi e ci si incolla alle poltrone trasformando i propri partiti in macchine soprattutto di consenso personale. Perdere voti, elezione dopo elezione, non fa bene a nessuno, men che meno a chi non ci è abituato e deve comunque governare: rischia di guardarsi troppo l’ombelico e di perdere la bussola, facendo sbandare non solo se stesso ma l’intero territorio che amministra. Tanto più che in vista non ci sono alternative sensate, solo il populismo di una destra montante bravissima soprattutto a parlare alla pancia della gente tirandole fuori gli umori peggiori, a partire da quelli xenofobi.
Gli editoriali del 2 e del 29 aprile del 2008 riportano la visita di Giorgio Napolitano. A Castelrotto, Denise Karbon legge davanti al presidente della Repubblica l’articolo 6 della Costituzione italiana in occasione delle celebrazioni per i suoi 60 anni: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Poche parole ma di grande efficacia, riempite di contenuti come sarebbe bello che fosse anche per tanti altri articoli costituzionali. Le ha lette per giunta da sudtirolese doc, figlia di una terra che quell’impegno costituzionale conosce benissimo ma che a volte fatica a riconoscere in una fiera delle ambiguità che continua a protrarsi per calcoli politici. Il momento più affettuoso e caldo della visita di Napolitano in Alto Adige è stato con ogni probabilità quello al muro di via Resia, al poco che resta del tragico lager nazista di Bolzano. È significativo che sia stato così, non solo perché è avvenuto nel cuore di un quartiere popolare della città, ma per il valore di quella deposizione di corona davanti a un luogo di lotta e di dolore lontano ormai sessant’anni nel tempo, eppure ancor oggi – anzi, oggi più che mai – fondamento della nostra repubblica, della sua libertà e dei suoi princìpi, del suo essere nata dalla lotta alle dittature nazista e fascista. Napolitano ha fissato con apparente levità due pilastri sui quali orientare il futuro della nostra comunità.

Gli editoriali da un punto di vista sociale
L’editoriale del 5 novembre 2006 affronta il tema del disagio urbano, partendo dal degrado notturno di varie zone delle città, questione snobbata dagli amministratori quasi per un falso senso di libertà, di rinunciataria impotenza se non di ideologismo. Ed invece va fermato, interrotto prima che sia troppo tardi, prima che ci scappi l’incidente grave. I ragazzi hanno diritto di divertirsi ma non a danno degli altri cittadini e neppure di se stessi. I gestori di bar e pub avranno anche le loro ragioni, che sono soprattutto quelle dei soldi (i loro) e non quelle della collettività, e neppure quelle degli incoscienti ragazzi. Non è possibile che, per due-tre notti alla settimana, zone della città si trasformino in terra di nessuno: schiamazzi, strade occupate, lanci di bottiglie contro le case, urla belluine, piante strappate, portoni di case e di chiese usati come vespasiani, scritte sui muri, vetri rotti e vomito ovunque, auto sfregiate. E poi le ambulanze che arrivano ululando. L’unico che ha tentato di bloccare il fenomeno è stato il sindaco Benussi nel suo breve interregno: chiusura anticipata dei locali. Poi la giustizia lo ha bocciato. Ma è la stessa giustizia che boccerebbe – se qualcuno li bloccasse – i tanti protagonisti delle notti selvagge o i gestori di bar e pub che vendono alcol ai minori e a chi è già palesemente ubriaco. Unico rimedio sensato, strumento non solo repressivo ma anche preventivo, è quello dei controlli, con vigili e forze dell’ordine ben presenti e ben visibili. E con l’aiuto – rinviato da un mare di chiacchiere e di falsi problemi legali – anche di telecamere per la videosorveglianza.
I sociologi la chiamano «broken windows theory», teoria delle finestre rotte e Visentini la riprende nell’editoriale del 15 dicembre 2007. Spiega fenomeni sociali di degrado che possono trovare applicazione in vari campi. Anche in politica. In sostanza: se in un edificio qualcuno rompe il vetro di una finestra e nessuno lo ripara, in breve tempo qualcun altro andrà a rompere anche i vetri delle finestre vicine con conseguenze facilmente immaginabili. Poi, visti i vari vetri rotti, qualcuno sotto quell’edificio ci butterà anche dell’immondizia. Insomma, se non si interviene subito, degrado chiama degrado. E gli abitanti della zona cominceranno a preoccuparsi, saranno insicuri, staranno alla larga da quell’edificio. È un po’ quel che succede per tanti locali dove la notte si tira tardi. Se dieci o venti avventori, invece di starsene all’interno a bersi la birra, possono uscire con il bicchiere in mano dal locale e mettersi a bere lungo la strada urlando e schiamazzando, è come avere il vetro rotto. Se non si interviene subito, in breve tempo diventeranno un centinaio e gli automobilisti che passano di là – è pur sempre una strada – saranno considerati dei disturbatori; le urla aumenteranno; chi beve troppo si metterà a far pipì dove gli capita; i più esagitati si lanceranno bottiglie e bicchieri; gli abitanti della zona prima saranno infastiditi, poi arrabbiati. Alla fine qualcuno, chi potrà, cercherà casa in una zona più tranquilla. E tutto questo a causa di… un vetro rotto non cambiato tempestivamente. Capita anche con le cartacce per terra, gettate magari in un angolo da qualche maleducato. Se non lo si multa e non si ripulisce, in breve quell’angolo diventerà una piccola discarica. La teoria sociologica, a ben guardare e modificati i contesti, può trovare applicazione in tanti altri campi. Pure in politica, come insegna l’esperienza. Stessa cosa con la toponomastica bilingue prescritta dal sacro statuto di autonomia. Se si consente che qualche piccolo comune, ricorrendo a vari marchingegni, la trasformi in monolingue, sarà difficile poi metterci una pezza. Morale della storia: i vetri rotti vanno cambiati subito.
Bisogna dare da bere agli assetati, ma non agli ubriachi. E poi si parlava di acqua, non di alcol. A Vipiteno la polizia ha denunciato cinque tra baristi e ballerine che davano da bere a chi era già bello sbronzo, tutti ragazzini o poco più in cerca dello sballo facile. Si dava da bere non con il semplice bicchiere, ma direttamente in gola per iniziativa delle ballerine, le quali, se necessario per scaldare l’atmosfera, usavano anche versarsi l’alcol sul corpo per servirlo così ai giovani clienti. Serve pure quella che una volta si chiamava repressione, tanto più che la legge già c’è: è vietato vendere alcol ai minori ed anche darlo a chi è già ubriaco (art. 691 del codice penale, con pene di reclusione da tre mesi ad un anno). La questura lo ha opportunamente applicato per Vipiteno, con i gestori che rischiano la sospensione della licenza, provvedimento che in Alto Adige – terra di commercianti, bar e discoteche con tanto di potenti associazioni imprenditoriali alle spalle – è purtroppo ancora una rarità. Le norme, del resto, sono state abbastanza aggiustate nel tempo, lasciando ad esempio libera vendita alle tante bevande eccitanti, alla taurina e simili, che sono prodromo allo sballo programmato: tengono svegli, gasano, fanno sentire tutti superuomini. Quella che va per la maggiore – made in Austria, ditta che ormai sponsorizza gare sportive di ogni tipo e manca solo che lo faccia per quelle scolastiche – una volta era vietata. Poi la famosa soglia di rischio è stata alzata e tutto è diventato legale. Gli sballi aumentano, i ragazzi di notte non dormono più e la società fa soldi a palate, nell’editoriale del 22 marzo 2007.
A Bolzano come a Trento centinaia di ragazzi delle scuole superiori, soprattutto di 14-15 anni, sono scesi in strada con cortei improvvisati, convocati dal tamtam degli sms che ha funzionato, del resto, in tutta Italia. A Bolzano la gran parte era composta da giovani sudtirolesi delle scuole tedesche, quasi una novità assoluta nella calma piatta che caratterizzava questa fetta di mondo giovanile sino a poco tempo fa. La protesta, come si sa, era contro la riforma del ministro Fioroni e soprattutto contro l’idea di reintrodurre gli esami di riparazione a settembre dopo l’accertato fallimento del sistema dei crediti, che altro non ha fatto che mandare avanti negli studi ragazzi pieni di lacune. Quel che lascia interdetti nella manifestazione è il vitalismo autodistruttivo emerso in troppi giovani, con l’alcol a fare da anestetico e insieme da detonatore, fonte di vandalismi come quelli ormai tipici nei centri città in ogni notte di ogni fine settimana. La manifestazione ha dato l’impressione di non avere a che fare tanto con la scuola e gli esami di riparazione, quanto piuttosto con il solo fatto di essere giovani e di avere – in quanto tali – diritto di protestare, urlare, rompere qualche bidone delle immondizie. Ma anche di ubriacarsi. Le facce erano quelle che si possono incontrare di notte in pub, bar, disco, strade e viuzze dei centri città. Pareva non protestassero contro Fioroni ma contro il divieto di vendita di alcolici dopo le 2 di notte, i tagli di punti alle patenti, gli alcoltest. Una protesta contro il proibizionismo e quasi per rivendicare il diritto allo sballo. Sono figli nostri. Non lasciamoli soli, si legge tra le righe dell’editoriale del 13 ottobre 2007.

Gli editoriali da un punto di vista linguistico
La tv austriaca Orf ha da poco ritrasmesso, per la centesima volta e per il rinnovato piacere del pubblico, un paio di film sulla principessa Sissi con una splendida Romy Schneider. Lei e il suo amato Kaiser Franz, in una vera fuga d’amore, si sono ritrovati in un rifugio alpino tirolese. E nel film il buon Kaiser, in incognito tra i monti, ammette sconsolato di non capire niente di quel che gli dice l’oste tirolese che gli parla in dialetto. Se non lo capiva il Kaiser degli austriaci, perché dovremmo capirlo noi? Si chiede Visentini nell’editoriale del 28 novembre 2006. Il problema non è nuovo ed anzi è sin troppo vecchio se è vero, come è vero, che il dialetto tirolese continua a dominare. È anche questo un segno orgoglioso di identità. E poi magari piace pure ai turisti e al Südtirol marketing: dà l’immagine di un mondo antico con il buon selvaggio ancora non contaminato dalla modernità, l’ideale per una vacanza.
La meraviglia è stata soprattutto degli altoatesini-sudtirolesi, nel vedere che qualcuno ancora s’indigna accorgendosi che a Bressanone ci sono ingressi separati e vengono alzati muri tra la sezione tedesca e quella italiana di un asilo. La tristezza nasce dal constatare cos’è diventato il sacrosanto principio di avere l’insegnamento nella propria lingua madre: un muro tirato su in un asilo. Le scuole con insegnamento in madrelingua sono un diritto. I muri sono invece figli non solo della stupidità burocratica, ma anche di quella grande paura di assimilazione che il gruppo tedesco aveva qualche decennio fa. Sono semmai molti italiani sudtirolesi che chiedono di diventare parte integrante, anche linguisticamente e culturalmente, dell’Alto Adige-Südtirol. Altro che paura etnica! La paura vera è quella che hanno tanti genitori di perdere per i propri figli una grandissima occasione di conoscenza, integrazione, arricchimento. Oggi più che mai, con la paura dell’assimilazione, che è solo strumento di potere politico, serve invece un grande salto in avanti, con un’offerta scolastica plurilingue. È, in fondo, la grande chance sudtirolese-altoatesina, secondo l’editoriale del 7 aprile 2007.
La vicenda delle ore di italiano clandestine e autopagate dai genitori nelle scuole materne del Südtirol era stata svelata – grande foto in prima, due pagine di articoli all’interno, un editoriale perfido – da Zett. Il tutto all’insegna delle Katakombenschulen sotto il fascismo e della gran paura di parlarne. Ma Zett non è un periodico qualsiasi. È il settimanale dell’Athesia, la casa editrice dei fratelli Ebner, quella che pubblica Dolomiten. Su Dolomiten, il quotidiano dei sudtirolesi per antonomasia, quello che si considera una sorta di cane da guardia dell’identità e della cultura tedesche in Alto Adige, non si è occupato della vicenda: né per confermare né per smentire. Fuori orario scolastico, negli asili sudtirolesi si può fare tutto. Anche insegnare l’italiano, se i genitori si pagano il corso.
Il bilinguismo è il passaporto per vivere in Alto Adige-Südtirol senza essere degli sradicati privi di prospettive. Ma da decenni gli italiani su questo fronte sono in enorme ritardo. E i politici hanno fatto di tutto per dare il cattivo esempio. Basta guardare quanti sono quelli che riescono a parlare il tedesco: mosche bianche. Questa ignoranza è la vera emergenza per il futuro dell’Alto Adige-Südtirol e per il gruppo italiano. Il futuro dell’Alto Adige-Südtirol, la sua vera ricchezza e la sua marcia in più si fondano proprio sulla pluralità delle sue lingue e delle sue culture. Se così è, il gruppo italiano deve avere tutti gli strumenti più idonei per fare sul serio nell’apprendimento del tedesco: da quelli didattici a quelli sociali e pure psicologici. La scuola in questo è fondamentale e deve essere lasciata libera di fare tutto quello che ritiene giusto, dall’immersione agli scambi, sino alle didattiche innovative che l’università di Bolzano elabora. Non è solo la scuola che deve fare la propria parte. Una lingua si impara studiando e faticando, ma soprattutto usandola, praticandola non solo a scuola ma anche fuori, giocando, andando al cinema, facendo sport. Insomma, deve essere sempre più potenziata – e non castrata – la politica di incontro tra i giovani, incentivando al massimo l’associazionismo interetnico, come suggerito nell’editoriale del 25 settembre 2007.
Benessere, qualità della vita, salute, occupazione: la provincia è da sempre ai vertici di queste classifiche, sventolate con legittimo orgoglio. Le elementari in lingua italiana dell’Alto Adige sono il fanalino di coda del paese per quanto riguarda la matematica e la lingua italiana, materie basilari per qualsiasi percorso formativo. Lo studio Pisa poneva la scuola italiana decisamente al di sotto di quella tedesca e certo non tra le migliori del paese. Infine l’Astat – come riferito dal Corriere dell’Alto Adige – ha reso noti i dati sulla presenza di studenti stranieri nelle diverse scuole italiane e tedesche (in queste ultime stranieri sono anche quelli che vengono da Germania e Austria). “Gli stranieri (tra i quali vengono classificati anche i figli nati qui da genitori immigrati) si sentono “in Italia” e vanno alle scuole italiane che sono anche nei centri maggiori e sono forse le più accoglienti”. La scuola italiana, pur avendo la gran parte di studenti stranieri a cui dare risposte educative, è quella che – per ragioni ideologiche – meno usa le grandi risorse costituite dagli appositi centri linguistici, praticamente lasciati a disposizione della sola scuola tedesca. Come è vero che alla “fame” di seconda lingua espressa da tante famiglie si risponde con insegnanti-tata sempre più presenti con attività ludiche ma a scapito degli altri insegnamenti.
L’editoriale del 21 settembre 2010 fa addirittura riferimento, in merito alla questione linguistica, ad un intervento di Gian Antonio Stella sul Corriere della sera che ha raccontato la storia di «cronisti e buoi dei paesi tuoi (in Rai)», con precisi riferimenti anche a Bolzano nonché al complicato e spesso poco esemplare rapporto con il bilinguismo. È la storia degli «strani concorsi Rai per giornalisti territoriali», che segnalava «l’iperfederalismo della tv pubblica in coincidenza con i 150 anni dell’Unità d’Italia». In sostanza la Rai (azienda davvero fortunata in questo momento non felice per l’occupazione nel settore dell’editoria) ha pubblicato bandi di concorso per assumere giornalisti nelle sedi locali. Il problema, racconta Stella, erano i criteri fissati per partecipare ai bandi. Bisognava avere meno di 36 anni, essere laureati (non è sufficiente essere giornalisti professionisti con superamento dell’apposito esame di stato). In più occorreva anche essere residenti nella provincia o nella regione dove si trovava la sede Rai in cui si preferiva venire assunti («cronisti e buoi dei paesi tuoi», appunto). Non bastava: per la sede di Aosta era richiesta «anche una fluente conoscenza del francese la cui valutazione avverrà con apposite prove di merito». E per la sede di Bolzano? Niente di tutto ciò: nessuna richiesta di fluente conoscenza del tedesco. Insomma, il buon giornalista Rai ad Aosta deve conoscere bene il francese perché una fetta della popolazione parla quella lingua, ma a Bolzano, dove tre quarti del mondo locale parla e vive in tedesco, al bravo giornalista la conoscenza della lingua locale non serve. Stella nel suo articolo smonta la logica iperprotezionista e iperfederalista del bando. Resta, per noi, il brutto esempio fornito dalla tv pubblica (che non è un’azienda privata libera di far quel che vuole, anche al ribasso). C’è il rischio di assumere un giornalista che sappia il tedesco ma per il resto sia un incapace. Un giornalista nell’Alto Adige-Südtirol, se ha la normale curiosità del mondo che la professione richiede, se vuol capire, raccontare e spiegare quel che succede, non può non conoscere la lingua parlata da tre quarti della popolazione, usata in centinaia di conferenze stampa e comunicati.
Fra le tante differenze esistenti tra i politici nazionali e quelli sudtirolesi c’è anche quella del linguaggio che viene usato in molte occasioni significative. Secondo Visentini, quando si sente un politico sudtirolese, di qualsiasi colore, parlare del territorio, ci si accorge che usa termini molto chiari, molto precisi e molto identificativi: terra, patria, provincia o, meglio ancora, Südtirol. Tutti quasi sinonimi per indicare il medesimo concetto. Inoltre sono tutti termini solitamente preceduti dall’aggettivo possessivo “nostro”: la nostra terra, la nostra Heimat, la nostra provincia, il nostro Südtirol. Insomma, c’è un’identificazione piena tra chi parla e la propria terra, c’è quasi il segno di un comprensibile affetto. Proviamo invece a seguire uno qualsiasi dei tantissimi dibattiti tv e facciamo caso a come numerosi politici nazionali chiamano la nostra Italia. Ci accorgeremo che solo pochi parlano di “nostra patria”, “nostro paese” o “nostra Italia”. Alcuni, soprattutto di destra, eventualmente parlano di Italia, senza aggiungere “nostra”, se il discorso ha un tono patriottico-militaresco o viene tirata in ballo la politica estera nazionale. Nella maggioranza dei casi, soprattutto con politici di sinistra, si usa invece l’espressione “questo paese”. L’uso del “questo” segna un distacco, una presa di distanza, un’alterità o almeno una diversità tra chi parla e l’oggetto della discussione. Nessuna identificazione, tanto meno affettiva. Perché non si dice “nostro paese” ma solo “questo paese”. Il nostro sciagurato paese sta passando un periodo molto difficile. Ci sono tante, troppe cose che non vanno. Ma è il “nostro paese”, che va comunque amato e rispettato, pure nel linguaggio, anche nella scelta delle parole. La politica, la buona politica dovrebbe avere anche un compito educativo e dovrebbe dare il buon esempio pure nel linguaggio usato dai suoi esponenti. Del resto, il diavolo si nasconde spesso nei dettagli, nei piccoli particolari: basta una parola per capire tante cose.

Gli editoriali da un punto di vista religioso
In Tirolo, a Telfs, non molto al di là del Brennero, è stata costruita una moschea. All’inizio c’era stata qualche discussione, ma infine l’edificio religioso è stato fabbricato: solo il minareto è stato realizzato un po’ più basso del previsto. Poi nessun’altra polemica. In Europa, come nel Südtirol-Alto Adige, non ci sono solo cristiani, cattolici o protestanti, e neppure solo ebrei o testimoni di Geova. Ci sono pure i musulmani. Anche loro hanno diritto di pregare. Lo dice la nostra civiltà, lo dicono le leggi, lo dice il buon senso. Lo esige anche lo stesso sentimento religioso, che non può certo impedire di professare la propria fede a chi ha una diversa religione. Anzi, si dovrebbe salutare il fatto con grande soddisfazione. Ogni novità può anche creare inizialmente una qualche preoccupazione. Ma la paura è spesso solo un sentimento irrazionale. Cavalcarlo è un’azione riprovevole che neppure l’opportunismo politico dovrebbe permettersi. E quando lo fa, va smascherato. Perché considerare ogni luogo musulmano di preghiera un covo di Al-Qaeda è un’offesa all’intelligenza, come riporta l’editoriale del 18 marzo 2008.

Gli editoriali da un punto di vista urbanistico
Avere poco terreno – secondo l'editoriale del 10 maggio 2008 – e costruirci sopra il più possibile: una volta si chiamava speculazione, nulla a che vedere con la qualità e la vivibilità. Casermoni uno in fila all’altro con davanti alla finestra altri casermoni uno in fila all’altro. Sotto un dedalo di stradine sempre più strette, un vero labirinto. Pare che l’esperienza insegni poco o niente. Pare che tutti si scordino che i grandi condomìni, ancor peggio se crescono solo in altezza, sono ovunque fonte di spaesamento, isolamento, deresponsabilizzazione. Se si vuole spazio vivibile per gli annunciati nuovi cittadini, più sensato sarebbe verificare bene quanto patrimonio edilizio storico da ristrutturare c’è ancora a disposizione, prima che il centro città diventi solo un luogo per negozi, pub, feste dello speck e mercatini vari: commerciale di giorno e da movida alcolica la notte, con i residenti costretti a trasferirsi. Secondo Visentini, ormai single e minifamiglie sono una realtà enorme. Altrettanto opportuno – con un adeguato sistema di trasporto – sarebbe però dislocare ancor più nei comuni periferici il fabbisogno abitativo per non ingolfare la conca bolzanina. Ma il problema dei problemi è quello degli alti costi degli affitti e delle case. Una cosa, infatti, dovrebbe ormai essere chiara: il mercato non si regola da solo, non ha spirito sociale. La sua logica è quella speculativa. Senza un nuovo vero piano sociale abitativo, compito della politica, non si andrà da alcuna parte. E neppure i grattacieli made in Bozen serviranno a qualcosa, se non a rendere più brutta e meno vivibile la città e i suoi quartieri.

Anna Del Monaco

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 93, maggio 2015)

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