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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Le idee di Foscolo
e Garibaldi, radici
di democrazia
di Guglielmo Colombero
Da Gangemi, un itinerario storico
dal primo tricolore all’Unità d’Italia
Lauro Rossi, studioso dell’Italia napoleonica e risorgimentale, ha pubblicato numerose opere dedicate a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi e alla Repubblica Romana del 1849. Un saggio monumentale che ripercorre sette decenni di storia italiana, dalle “Repubbliche Sorelle” create da Bonaparte nel 1796, all’Unità d’Italia nel 1861 è Ideale nazionale e democrazia in Italia. Da Foscolo a Garibaldi (Gangemi editore, pp. 416, € 32,00). Spiega l’autore: «Nella prima parte del volume vengono analizzate sostanzialmente tre figure: quelle di Ugo Foscolo, Giovanni Fantoni e Enrico Michele L’Aurora. Figure in qualche modo emblematiche per i differenti esiti della loro biografia politica: il primo, Foscolo, che fu dapprima sostenitore della democrazia sociale poi del liberalismo; il secondo, Fantoni, il quale, per non piegarsi alla supremazia di Bonaparte, rinunciò, dopo il 1802, alla politica attiva; il terzo, L’Aurora, che, nonostante le incredibili traversie che subì, rimase sempre fedele ai principi della Francia dell’anno II. Unisce la posizione di questi patrioti una chiara avversione nei confronti di Bonaparte, il quale, dopo le iniziali promesse, aveva, a loro avviso, tradito i principi rivoluzionari dei quali si faceva portavoce. Nella seconda parte del volume vengono espresse tematiche e problematiche legate soprattutto a Mazzini, Garibaldi e Cavour, anche se non mancano precisi riferimenti a figure del rilievo di Cattaneo, Bertani e Alberto Mario. Viene, fra gli altri, dedicato ampio spazio a quel decisivo momento per le sorti del nostro paese rappresentato dagli eventi militari, ma soprattutto politici del 1860. Di Garibaldi, in particolare, si analizza la fase successiva all’unificazione nazionale, momento nel quale egli si adoperò per realizzare una serie di diritti sociali e civili, presupposto per la costruzione di una reale democrazia in Italia».
Foscolo, la lotta solitaria di un titano
A cavallo fra Settecento e Ottocento, la figura dominante in Italia è quella di Napoleone Bonaparte: egli conquista la penisola fra il 1796 e il 1800 divenendone prima presidente e poi re. Il Corso suscita un turbinio di fermenti e di speranze, che resteranno puntualmente deluse: accolti come liberatori, i francesi si trasformano anno dopo anno in saccheggiatori e oppressori, tassando così ferocemente la popolazione da scatenare a Milano la sommossa del 20 aprile 1814, culminata nel bestiale linciaggio dell’odiato ministro Prina, e depredando innumerevoli opere d’arte (mai più restituite). Ugo Foscolo, fiero intellettuale senza padroni che «nulla teme e nulla spera», era un fervente ammiratore di Napoleone, al punto da dedicargli nel 1799 l’ode A Bonaparte liberatore. Ma quando il suo carisma degenera nel più bieco dispotismo, il poeta ne denuncia senza esitazione tutti i tragici errori, costati milioni di morti nelle guerre che devastano mezza Europa fra il 1805 e il 1815. Quanto all’Italia, Foscolo traccia una diagnosi implacabilmente lucida del Ventennio napoleonico: «Mentre in Francia la rivoluzione era stata eminentemente “attiva”, in quanto tesa ad un continuo sforzo di superamento e adeguamento, la stessa, in Italia, non poteva che definirsi “passiva”, in quanto priva della necessaria energia e, soprattutto, di un ceto sociale in grado di recepirne le istanze. Questa, per Foscolo, era la ragione precipua per cui la rivoluzione, nella penisola, era stata dettata e, per tutta la sua durata, pilotata unicamente da colui che “primo” l’aveva messa in moto (o, meglio, ne aveva conferito l’iniziale “attività”) e, di conseguenza, il motivo per cui il solo Bonaparte ne aveva determinato le diverse fasi, decidendo di “moderarla, accrescerla, estinguerla” a suo arbitrio. E tutto ciò chiariva bene anche le ragioni per cui i rimarchevoli e senza dubbio positivi cambiamenti che la penisola aveva conosciuto in quei due decenni in campo sociale, economico, militare, amministrativo, erano così facilmente crollati sotto i colpi della Restaurazione».
Fantoni, il giacobino disilluso
Poeta con il nome d’arte di Labindo, agitatore politico e soldato, fra il 1798 e il 1802 il toscano Giovanni Fantoni vive esperienze drammatiche e avventurose. Detestato dagli austriaci per i suoi ideali repubblicani e dai francesi in quanto considerato “provocatore di anarchia e di strage”, Fantoni definisce “dissennata” la politica di rapina del Direttorio attuata in Italia, una “conquista senza rivoluzione” che «mirava allo sfruttamento indiscriminato dei territori acquisiti senza tener in alcun conto delle istanze e delle aspirazioni delle popolazioni». Esule a Grenoble, pubblica nel 1799 l’opuscolo Grido dell’Italia, in cui denuncia lucidamente «lo stato di endemica rivolta delle masse popolari in tutta la penisola, sobillate certo dal clero, ma anche profondamente scosse e disorientate dall’arroganza e dalla prepotenza francesi. Così “i Popoli oppressi”, sono parole di Labindo, “stanchi di tanti orrori han perseguitato da tutte le parti i Patrioti, dipinti come autori delle loro miserie, han trucidato e assassinato gli avanzi dell’Armata d’Italia nella sua ritirata”». Fantoni è uno dei pochi intellettuali fautori della causa italiana che osa mettere il dito dentro le piaghe aperte nel paese dalle sistematiche ruberie dei “liberatori” francesi. Episodi di repressione feroce, come le rappresaglie seguite alle Pasque veronesi e la distruzione di Binasco, fanno germinare l’odio contro la soldataglia francese, e sono questi i germogli di rabbia e di vendetta da cui scaturiscono atroci frutti maturi nel fatidico 1799, l’anno della reazione austrorussa che spazza via le repubbliche italiane: i Lazzari napoletani, i Viva Maria toscani e la Massa Cristiana piemontese si scatenano contro francesi e giacobini innalzando le croci accanto alle picche e ai fucili, come i vandeani della sanguinosa primavera del 1793. Fantoni comunque si riconcilia con la Francia, arruolandosi nell’esercito che difende la città di Genova assediata dagli imperiali e dalla flotta inglese. Gli ultimi anni del poeta toscano sono amari; da “giacobino stanco” si ritira a Massa, dove morirà nel 1807: «Guai a colui che fondando imperi o creando nazioni, crede di renderle grandi mantenendo il popolo nell’ignoranza dei propri diritti e dei propri doveri – scrive al nipote due anni prima – Passeggia superbo fra i moribondi, e fra gli scheletri».
L’Aurora, un intellettuale in armi al servizio delle “Repubbliche Sorelle”
Enrico Michele L’Aurora, originario di Roma, è senza dubbio una delle figure più emblematiche, e al contempo enigmatiche, del giacobinismo italiano a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento: «Nel primo dei Manifesti L’Aurora delinea il progetto politico-militare che intendeva realizzare: liberare l’Italia dai “tiranni” che, a titolo diverso, da secoli la opprimevano e creare una Repubblica unitaria con Roma capitale». L’Aurora è dunque un precursore, uno dei primi a enunciare un embrione di proclama unitario alle soglie dell’Era napoleonica, che quei sogni avrebbe brutalmente schiacciato sotto il tallone del Primo impero francese. Partecipa in prima persona alla fondazione della Prima repubblica romana, nel 1798, e al suo repentino disfacimento: a seguito di tale declino non manca di denunciare «il “deplorevole comportamento” di molte autorità francesi, in particolare di agenti e fornitori, che sottoponevano la popolazione a continue ruberie e prevaricazioni». Predoni e affamatori, altro che liberatori. Nella primavera del 1799, il patriota romano, fuggito dal Lazio in rivolta, si arruola fra i difensori della Repubblica Partenopea: «Nella fase decisiva dello scontro, a Napoli, non combattevano più soldati francesi, ma solo patrioti o napoletani o accorsi da altre parti d’Italia e, sappiamo, quanta importanza rivestisse per L’Aurora il fatto che la lotta politica e la difesa militare nella penisola fossero fondamentalmente espressione di forze nazionali». L’ultima tappa dell’avventurosa parabola politica di L’Aurora è il durissimo conflitto ideologico con il vicepresidente della Repubblica italiana istituita da Napoleone primo console, Francesco Melzi d’Eril, risalente all’estate del 1802. L’Aurora «fu denunciato alla fine di luglio da un ufficiale polacco, che lo indicava alla testa di una “loggia massonica di nuova costituzione”, che avrebbe avuto come fine l’allontanamento dei Francesi dai territori della penisola». Processato a Reggio Emilia come istigatore di torbidi, L’Aurora viene assolto ma espulso dalla Repubblica, con destinazione Lucca. Nel 1809, ottenuta la riabilitazione, entra a far parte dell’esercito del re di Napoli Gioacchino Murat: durante l’estate di lui si perderà ogni traccia.
Mazzini, realismo e utopia fra Rivoluzione, Terrore e Reazione
È alquanto significativo come uno degli argomenti che suscita l’interesse di Giuseppe Mazzini come storico dell’Italia sia proprio la rivolta antifrancese dei Lazzari capeggiata dal cardinale Ruffo nel 1799, con «il carattere reazionario che assunsero i moti popolari e in particolare la rivolta partita dal Sud, carattere che, tuttavia, si palesò solo in un secondo momento. Il popolo infatti, è la sua opinione, massa caotica e in pieno fermento, che tendeva al tempo stesso a tutto distruggere senza però voler rinunciare alle certezze della tradizione, formava una sorta di esercito senza capi. Fu solo sotto le insegne del cardinale Ruffo che divennero palesi i toni della reazione». Secondo Mazzini, i Lazzari, degni eredi di Masaniello, «erano inconsapevoli portatori di una sia pur primordiale aspirazione nazionale». Analizzando poi il periodo del Terrore durante la Rivoluzione francese, Mazzini delinea con acutezza la personalità di Danton, il quale non era «come Robespierre, preda della ferocia e dell’odio; aveva ben chiaro il concetto che il Terrore poteva costituire un rimedio “momentaneamente sano” solo nel caso in cui divenisse strumento di salvezza per la nazione minacciata». Infine, alla vigilia della spedizione dei Mille, Mazzini ripropone il tema della ribellione popolare nel Mezzogiorno, e da Londra scrive a Garibaldi: «Credo che dovremo cacciarci nel Sud».
Garibaldi, un combattente anche sul fronte delle idee
L’Eroe dei Due Mondi, una volta conclusa la liberazione del Meridione, si ritira a Caprera: l’isola però non è solo il rifugio solitario ove riposarsi e meditare, ma «diventa il riferimento di tutta quell’ampia fascia della democrazia nazionale che non si riconosceva nel regime monarchico appena instaurato […] culla di iniziative da un lato legate al compimento dell’unità nazionale (quali Aspromonte e Mentana), dall’altro volte al conseguimento di precisi obiettivi sociali e civili, quali l’affermazione del suffragio universale, l’introduzione del divorzio, l’abolizione della pena di morte, l’emancipazione femminile». L’autore sottolinea come Garibaldi fosse profondamente convinto che «alla pace si potesse arrivare solo attraverso una progressiva democratizzazione del sistema internazionale e che, a questa, naturalmente, non si potesse giungere se non previo un graduale ed effettivo sviluppo dei diritti dell’uomo. In altri termini, per Garibaldi la pace non poteva sussistere che fra popoli liberi»: in effetti sembra quasi un preambolo alla Carta delle Nazioni Unite di San Francisco. Singolari alcuni aspetti che emergono dal capitolo sul Nizzardo: non solo anticlericale, è risaputo, ma anche salutista. In feroce polemica contro la “nefasta influenza” del clero, il quale, secondo Garibaldi, in Italia «nel privilegiare la salvezza dell’anima», aveva «sacrificato l’educazione del corpo, considerando anzi quest’ultimo un freno se non addirittura una prigionia dell’anima, in vista della sua futura ascensione al mondo celeste». E ancora, antesignano del femminismo, Garibaldi definisce la donna «la più perfetta delle creature», e auspica il riconoscimento della parità dei diritti con l’uomo, appoggiando nel 1867 il disegno di legge Morelli a favore della “reintegrazione giuridica della donna”. Una delle tante sfaccettature della personalità di Garibaldi che questo appassionante volume ci consente di scoprire.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 92, aprile 2015)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi