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Problemi e riflessioni (a cura di Mariacristiana Guglielmelli) . Anno IX, n 92, aprile 2015

Zoom immagine Spaesamento
e integrazione

di Mattia Beltramo
Da Città Calabria,
la testimonianza
di un’emigrata


Viaggio e spaesamento sono alcuni dei tratti costitutivi dell’esperienza antropologica, intesa anche come insieme di conoscenze sull’uomo, sulla sua storia remota, le sue origini e le sue razze. Sono numerosi gli studi condotti sul concetto di migrazione e sulle conseguenze di questo fenomeno. Quando ci troviamo a dover vivere in un contesto a noi estraneo possiamo sperimentare una di queste due condizioni: l’appaesamento e lo spaesamento. Nel primo caso ci si trova a condividere, studiare e approfondire usi, costumi e tradizioni della nuova patria, divenendo così operatori della tutela e diffusione della cultura di adozione e non di quella d’origine. Al contrario, con lo spaesamento l’individuo entra in conflitto con se stesso e con tutto ciò che lo circonda. Secondo l’etnologo meridionalista Ernesto de Martino in Crisi della presenza si tratta di una situazione rischiosa, in cui i nuovi immigrati si ritrovano a dover vivere, portandosi dietro la nostalgia dei luoghi d’origine insieme al desiderio e alla paura di riconoscersi in questa nuova realtà.
Penny “Serafina” Petrone, nel suo Il modello in frantumi (Città Calabria edizioni, pp. 182, € 10,20), documenta un nuovo percorso identitario: l’opera rappresenta una vera e propria guida per l’analisi che identifica la cultura contemporanea come un luogo di contaminazione e differenziazione. È un ritratto autobiografico ed etnografico che testimonia un percorso personale, familiare e collettivo: l’autrice conserva nella mente e nel cuore il ricordo della città calabra (Piane Crati) della prima metà del ’900, un’evocazione di ciò che è stata la sua famiglia. Più che raccontare la sua vita, Petrone finisce con il raccontare la storia di un processo di acculturazione.
L’autrice ripercorre la sua esistenza analizzandola fase dopo fase, cercando di spiegare come abbia impiegato gran parte di essa a “rompere” il modello in modo da riuscire a inserirsi e vivere nella società canadese.
Petrone avrebbe voluto essere come le sue compagne, ma abitava nella parte sbagliata della città, quella in cui tutti frequentavano gli istituti tecnici, mentre lei, volendo essere diversa (dal vicinato e dai fratelli), aveva deciso di frequentare una scuola professionale. I pregiudizi non si fecero attendere; il primo confronto fu sul piano fisico, con le compagne che erano bionde, con la carnagione chiara e gli occhi azzurri, mentre lei al contrario era bruna e portava gli occhiali. Notiamo lo sforzo da parte dell’autrice di trovare un’identità nazionale conforme ad usi, costumi e tradizioni canadesi, sforzo sottolineato anche dal voler a tutti costi cambiare il suo nome: «Decisi di cambiarmi il nome di battesimo. In qualsiasi modo esso venisse pronunciato o scritto, io portavo un nome disprezzato in un paese di lingua inglese. Quando cominciai le elementari alla Scuola Cornwall, il nome veniva scritto come Serafiina […] In qualsiasi modo fosse scritto o pronunciato, il mio nome italiano in tutte le sue varianti era per me un anatema. Strabuzzavo gli occhi, quando lo sentivo pronunciare o lo vedevo scritto».
Questo sta a dimostrare il voler addirittura cancellare la propria identità per crearne una nuova, più adatta all’ambiente circostante. Risultato di una nuova consapevolezza, legata ad una propria personalità e ad un proprio valore culturale, che porta con sé anche i fattori identitari: «All’età di diciassette anni presi il nuovo nome di Penny. Lo aveva scelto la mia amica croata Lola. Aveva l’abitudine di dirmi “un penny per i tuoi pensieri”. Detto fatto. Diventai Penny Petrone».

Essere canadese nonostante l’educazione italiana
Leggendo il testo, risulta evidente quanto per l’autrice sia stato difficile vivere in una cultura diversa da quella in cui i genitori, e soprattutto la madre, erano cresciuti: la sua educazione risulta diversa da quella dei suoi coetanei ed essa si sforza di rapportarsi sia agli usi e costumi del Canada sia a quelli della sua famiglia: «Cercavo di stare tra due modi di essere in un continuo braccio di ferro tra casa e fuori, tra mamma e me».
Per Serafina era difficile essere la figlia che la madre avrebbe voluto e contemporaneamente una normale giovane canadese, si barcamenava tra i due mondi in ogni occasione, tentando di non deludere la madre ma sempre decisa a vivere la sua vita.
La madre, Luisa Sisco, è il personaggio più “attaccato” alle sue origini, infatti vive come se si trovasse ancora in Italia, ricorda con nostalgia il suo “paesello” e alla morte del marito parla di tornarci: «Dopo la morte di mio padre, mamma parlò spesso di tornare a Piane Crati. Non riusciva a dimenticare il paesello della sua giovinezza. Ci pensava con nostalgia, come a valori perduti».
Nella figura paterna, invece, si riscontra un sentimento di accettazione nei confronti della cultura di arrivo per il fatto di aver già vissuto lì dall’età di 11 anni, dimostrandosi aperto di mentalità rispetto a quella spaesata della madre e di Penny.
Anche se vive in Canada da moltissimo tempo, la famiglia Petrone continua a comportarsi fra le mura domestiche come se fosse ancora in Italia: tutto – nella gestione della casa, nella preparazione del cibo – rievoca il “paesello” dove è vissuta la madre, e di questo Serafina si vergogna, in quanto la ritiene strana: «Non ricordo quando cominciai a vergognarmi di quello che mangiavamo. Ma ricordo di essermi sentita imbarazzata da adolescente, perché mettevamo olio d’oliva e aglio dappertutto; perché mangiavamo tanta pasta… perché mamma non faceva i biscottini… perché mangiavamo addirittura i fiori…».
Molto impresso le rimane un picnic fatto con un’amica durante il quale notò che il proprio sacchetto, che conteneva pane con frittata, era tutto unto, mentre quello dell’amica, con dentro un hotdog, era immacolato.
Il più grande desiderio di Serafina Petrone da bambina era quello di poter essere per una volta “Jane”, ma visto il colore della sua pelle, un po’ più scuro di quella della sua amica, è costretta a essere sempre “Tarzan”.

Appaesarsi a Port Arthur
Riscontriamo in queste pagine la forte volontà da parte dell’autrice di volere a tutti i costi raggiungere la condizione di appaesamento, in modo tale da uniformarsi ed identificarsi con l’ambiente e l’identità culturale del posto.
Man mano che passa il tempo la famiglia Petrone si sforza di ambientarsi, cercando soprattutto di apprendere una lingua che, nonostante l’impegno, continuò a restare ostica nella pronuncia. Insieme ai loro amici parlavano una lingua tutta loro detta “italianese”, un misto di dialetto e inglese della classe operaia; tra alcune di queste parole ricordiamo: «carru» per indicare la macchina, «bossu» per riferirsi al capo, «chekka» per designare la torta, «orraitte» per dire va bene.
Però pian piano, con il passare degli anni, la famiglia Petrone fa entrare nella propria casa e nella propria cultura le tradizioni canadesi. Iniziano così ad apparire sulla tavola i piatti tipici, come per esempio la torta bianca alla moda inglese, le ciambelle fritte (doughnuts), il budino con uvetta, vaniglia e noce moscata; persino per le conserve si utilizzano le ricette inglesi.
In queste pagine si percorre un viaggio dell’essere che lotta di continuo con il non essere ed il non accettare la propria origine, la propria identità. In conclusione, si può affermare che Penny Petrone è riuscita nel suo intento di inserirsi nella comunità canadese e ad esserne cittadina al cento per cento.
Lotta per restare Penny, per vivere la propria identità di appaesata nonostante il ritorno nel paese di origine materno che la porta a rivisitare il luogo dello spaesamento. Del resto chi decide di rimanere è appaesato, chi se ne va è spaesato.

Mattia Beltramo

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 92, aprile 2015)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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