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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Il ricordo: un imperativo
morale per resistere
di Luigi Ciotti
Un intenso percorso sulla resistenza alla mafia
per una società davvero libera. Da Edizioni Paoline
La memoria storica di un paese si fonda anche sul ricordo di coloro ai quali il paese ha chiesto, nel quotidiano impegno a favore di onestà, giustizia e rettitudine morale, il sacrificio più estremo. Questo libro racconta le vicende di uomini – in alcuni casi molto note (su tutte Capaci e via d’Amelio) – che fanno ormai parte della nostra identità di cittadini, nel senso più alto del termine, ma anche storie quasi sconosciute, che meriterebbero invece di diventare parte di un patrimonio comune.
Il testo in questione è L’altra resistenza. Storie di eroi antimafia e lotte sociali in Sicilia (Edizioni Paoline, pp. 288, € 17,50), scritto a quattro mani dallo storico Giuseppe Carlo Marino e dal giornalista Pietro Scaglione, con un’incisiva Prefazione (della quale riportiamo qui di seguito ampi spezzoni) di Luigi Ciotti, che con l’Associazione “Libera” è da sempre impegnato in prima persona proprio in quella resistenza a cui fa riferimento il titolo del libro. Un’opera intensa che si muove lungo le direttrici parallele delle diverse esperienze dei suoi autori, a cui le parole di don Ciotti conferiscono un ulteriore suggello di verità, per ridare dignità ai morti e per ricordare a chi resta il dovere morale di una nuova e più difficile resistenza.
Bottega editoriale
Prefazione
È un libro importante, questo di Giuseppe Carlo Marino e Pietro Scaglione. Un libro che ci racconta la storia della lotta alla mafia in Sicilia da due prospettive diverse eppure complementari. Da un lato, Marino, da storico, ne mette in risalto gli sviluppi, le dinamiche, le svolte. Dall’altro Scaglione, giornalista e nipote del valoroso magistrato ucciso da Cosa Nostra nel 1971, mette a fuoco le storie, i nomi, le vite e le morti di tante persone che si sono opposte alla violenza criminale mafiosa e alle sue propaggini nel potere e nella politica.
Molte storie le conosciamo, riferite come sono a persone ed eventi che sono diventati un simbolo della lotta per la giustizia in questo Paese, ma il pregio del libro è di ricordarne tante altre note invece soprattutto a studiosi o «addetti ai lavori», storie che è bene conoscere non solo per un debito morale e di sapere, ma anche per smentire l’idea che la lotta alla mafia sia un compito alla portata solo di personalità eccezionali e non invece (come deve essere) espressione delle responsabilità che riempiono di senso e contenuto il nostro essere cittadini.
Altro grande pregio del libro è l’impostazione dell’analisi. Un’impostazione che mi trova del tutto consenziente e che cerco di riassumere per punti, appoggiandomi a quanto è scritto in queste pagine dalle quali ho molto imparato.
Il primo punto è che la mafia non è mai stata un fatto solo criminale, e crederlo significa scambiare l’effetto con la causa, la febbre con la malattia.
Il professor Marino ci ricorda come sin dalla seconda metà dell’800 (dall’Unità d’Italia) tra attività criminale mafiosa e poteri dominanti ci sia stata una profonda convergenza di interessi. E se all’inizio era l’alleanza fra aristocrazia del latifondo e manovalanza criminale (con l’intermediazione dei gabelloti, affittuari delle terre) con l’urbanizzazione della mafia negli anni Cinquanta e Sessanta è stato il gioco di sponda fra le cosche e parti cospicue del potere politico, «gioco» con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti. Lo stesso fascismo, proclamando guerra alla mafia e mandando in Sicilia l’inflessibile prefetto Mori, aveva promosso perlopiù un’operazione di facciata, tanto da destituire Mori non appena, sconfitto il brigantaggio, aveva cominciato a indagare sulle connessioni tra mafia e «colletti bianchi». La mafia è stata insomma un fatto, prima che criminale, «politico», una forma di corruzione del potere.[…]
Il secondo punto è che per sconfiggere la mafia non bastano gli arresti e i processi, ma occorrono l’impegno sociale e un complessivo mutamento della cultura e dei costumi.
È un punto che mi sta molto a cuore, tanto da ispirare l’impegno di Libera sin dalla sua prima mobilitazione del 1995 per una legge sull’uso sociale dei beni confiscati. «Uso sociale» non significa solo che il bene sottratto alla comunità va restituito, ma trasformato in un veicolo di cultura, di dignità, di lavoro, cioè di democrazia. Al tempo stesso, «cambiamento culturale» non significa solo mera acquisizione di sapere, ma educazione alla responsabilità. Senza responsabilità il sapere rischia di essere astratto, separato dalla vita, e la stessa legalità un dettato formale al quale ci si adegua per conformismo, per convenienza o per timore.
Il terzo punto è che la lotta contro le mafie è da sempre lotta per la giustizia sociale.
Il libro offre un quadro esaustivo dei movimenti e delle persone che in varie epoche hanno messo impegno e speranze a disposizione delle classi sociali oppresse dalle mafie e dai loro complici nelle stanze del potere. E se le cose sono molto cambiate dai tempi dei Fasci siciliani o del martirio dei sindacalisti, o ancora del sacrificio di tanti rappresentanti dello Stato – uccisi prima che dalle mafie dall’isolamento prodotto dalla loro dirittura etica – il legame fra lotta alla mafia e impegno per la giustizia sociale è più che mai evidente. Oggi le mafie sono imprese del crimine comodamente insediate in un sistema politico-economico che ha prodotto disuguaglianza, povertà e guerre a livello globale, un sistema di cui le organizzazioni criminali riproducono i «valori» (soldi, proprietà, potere) e di cui condividono, estremizzandole, le dinamiche di sfruttamento e di rapina. E a chi ancora nega o minimizza la diffusione delle mafie al Nord (fenomeno che risale addirittura agli anni Sessanta) andrebbe ricordata non solo la nota osservazione di Sciascia sullo «spostamento della linea della palma», ma le parole di don Luigi Sturzo, riprese anche in queste pagine, quando nel lontano 1900 disse: «La mafia ha i piedi in Sicilia, ma la testa forse a Roma» e poi, con impressionante profezia, che «diventerà più crudele e disumana; dalla Sicilia risalirà l’intera Penisola per portarsi anche al di là delle Alpi».
Ogni discorso sulle mafie che si concentra sull’aspetto criminale senza cogliere il nesso fra mafie e deficit di lavoro, di cultura, di diritti, rischia così di essere non solo monco ma fuorviante, incapace di fare luce sulla natura profonda del fenomeno mafioso e sulle necessarie misure per estirparlo (opportunamente Pietro Scaglione ricorda che, se di mafia si inizia a parlare nell’800, la dinamica mafiosa esisteva nel nostro Paese già da prima come abuso di potere, come forza imposta in luogo del diritto, come oppressione e sfruttamento delle classi deboli). Questo libro salda l’aspetto criminale con quello sociale e politico, ed è dunque un libro che fa chiarezza, che aiuta a capire.
Un’ultima annotazione. L’opera è dedicata «a papa Francesco, per una pastorale antimafia».
Papa Francesco si è pronunciato sulle mafie e sulla corruzione con la schiettezza e la profondità con cui affronta i grandi problemi del nostro tempo.[…]
Da sacerdote mi auguro che il suo esempio sgombri finalmente il campo dalle prudenze, silenzi e ambiguità che in passato hanno caratterizzato l’atteggiamento di una parte di Chiesa nei riguardi delle mafie, e che questo libro puntualmente rievoca insieme a tanti contrapposti esempi di coraggio, di generosità e coerenza evangelica (i don Puglisi e i don Diana, ma anche i preti uccisi all’inizio del ’900 per il loro impegno sociale in terre di mafia – don Giorgio Gennaro, don Costantino Stella, don Stefano Caronia).[…]
Luigi Ciotti
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 92, aprile 2015)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi