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Direttore editoriale: Mario Saccomanno
A. XVIII, n. 205, nov. 2024
L’invito a scoprire i nostri mondi:
quello interno e quello esterno
di Annibale Bertola
Un “romanzo-saggio” di Maria Giacometti, di imminente uscita
per Kimerik, ci aiuta nella scoperta degli altri ma anche di noi stessi
Quesiti e dubbi. Quanto il metodo filosofico ha la capacità di far nascere in noi domande e quindi perplessità. Siamo di fronte ad un tipo di dubbio, metodico, utile nella scoperta del mondo, ma anche nell’investigazione all’interno di noi stessi. È dunque importante trovare un punto d’incontro fra queste due parti.
Il romanzo di Maria Giacometti, Bianca e Frederich. Una storia d’amore, di cannocchiali e di fili d’erba, di imminente pubblicazione (Kimerik, pp. 334, € 16,50), è prefato da Annibale Bertola. Tale apparato, che analizza in particolare il punto di vista dell’autrice su come far coincidere l’area della conoscenza del mondo interiore e di quello esteriore e come far sì che non si scontrino, è riportata qui di seguito.
Bottega editoriale
Prefazione
Il futuro nasce dalle favole
Conservare il beneficio del dubbio. L’Autrice conclude la sua premessa con questo auspicio: l’affermazione ragionata della fecondità del dubitare. Da una “favola filosofica”, come potremmo legittimamente definire questo romanzo, non auspicheremmo migliore suggerimento. La storia della filosofia moderna scorre attraverso l’azione benefica del metodo cartesiano. Non solo la storia della filosofia, ma l’identità stessa dell’uomo moderno nasce da questa premessa.
Infatti da un lato il “dubbio metodico” ci guida nella scoperta del mondo, dall’altro ci spinge a guardare all’interno di noi stessi, fino a scoprirci come “punto zero” di ogni conoscenza. Nasce da questa doppia prospettiva la stimolante incertezza nell’individuare ogni volta il confine fra i due mondi, quello interno e quello esterno, oggetto di introspezione il primo, aperto alla investigazione scientifica e filosofica il secondo. Si potrebbe dire che il punto cruciale è proprio il rapporto fra queste due aree di esplorazione, magari fino a scoprire con Kant la loro inesauribile vastità: quella de “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me”.
Ognuno ha quindi una sorta di compito morale. Investigare fin dove si spingano le due aree, l’esterna e l’interna, ma soprattutto trovare i propri personali punti di intersezione dove cioè esse si
tocchino.
E qui si apre una sfida: come accordare i confini personali che ciascuno scopre e costruisce nel corso della propria vita, sintonizzandosi con il limite che gli altri soggetti hanno definito basandosi sulla loro esperienza? In altri termini: come evitare di essere risucchiati dalla prevalenza del mondo privato del folle, magari condividendo il delirio, come avviene nella folie à deux? Oppure, come evitare di diventare tanto dipendenti dal mondo oggettuale da modellarsi su di esso in un conformismo estremo, come Zelig di Woodie Allen?
Il romanzo di Maria Giacometti propone una soluzione vecchia quanto lo spirito umano, ma che ciascuno di noi deve continuamente rinnovare nella propria vita: applicare una capacità che solo l’uomo possiede, quella di narrare, di raccontare. Il precetto morale, il metodo della conoscenza scientifica, l’esplorazione filosofica vengono affidati qui alla narrazione, alla “favola”.
È la modalità più antica attraverso cui si sviluppa l’arte narrativa; quella che i bambini fortunati scoprono prima di addormentarsi, quando le fiabe, le favole, le “storie” insomma, con il loro corredo di immagini e di fatti preparano l’abbandono al sonno e conciliano la comparsa dei sogni, arricchendo nello stesso istante la loro creatività e dando il materiale di immagini attraverso cui essa si esprimerà.
Come introdurre questa favola, moderna e antica allo stesso tempo?
Vorrei ricorrere alla metafora della lente di cui nel testo si parla.
Invenzione, simbolo, strumento: tutto insieme, quasi spartiacque fra l’uomo premoderno e la condizione dell’homo faber come la intendiamo oggi.
La lente consente alla pochezza dei nostri sensi di superarsi. Ci consente di accedere al microcosmo e al macrocosmo. Le lenti, i cannocchiali, i microscopi del racconto svelano l’infinito del cosmo e scoprono nei comuni fili d’erba tessiture fantastiche che sfuggono all’occhio nudo; svelano la complessità di un mondo molto più ricco di quanto l’intuizione immediata permetta di cogliere.
In un suo senso anche l’atto narrativo permette di scoprire, potenziando l’attenzione di chi viene guidato dal narratore ad aprire la sua conoscenza a terreni prima ignoti.
La narrazione combina i mondi di chi racconta e di chi ascolta.
Quando questi è un bambino, un giovane, o una persona comunque più inesperta del suo interlocutore avviene il miracolo della trasmissione transgenerazionale: è come se l’esperienza del narratore venisse rifratta attraverso (la lente del) le sue parole consentendo di scoprire nella relazione della coppia narrante di superare il “qui ed ora” per abbracciare ricordi remoti, dare un senso al mondo presente, affacciarsi al futuro.
Bruno Bettelheim ne Il mondo incantato rivisitando le favole più note e investigando i temi invarianti che in esse si colgono in trasparenza ha illustrato quanto nella vita psichica del bambino dipenda da questa iniziazione. Chi sa raccontare e chi pratica l’arte narrativa sistematicamente asseconda la crescita del giovane, fornendogli i materiali su cui egli forgerà le sue convinzioni e i suoi valori.
Narrare supera il piatto livello della cronaca per giungere alle vette di un vero e proprio esercizio spirituale che consente alla coppia narratore/ascoltatore di mettere in comune (comunicare: commune munus, dono comune) conoscenze, nozioni, e soprattutto valori.
Seguiamo ancora la metafora dello strumento ottico fino a guardare i fatti della vita non solo come si svolgono, ma anche come “dovrebbero” svolgersi. Affacciamoci, in altri termini, sul mondo dei valori. La morale diventa lo strumento attraverso cui passano le onde luminose del nostro comportamento, degli affetti, delle emozioni, dei nostri desideri o del “desiderio” tout court.
Jacques Lacan riteneva che sia questo la radice profonda della nostra stessa esistenza. In un momento come quello attuale, frammentato e confuso, la riflessione sui valori e sulla morale non può più prescindere dal riferimento alla realtà della vita presentata nella cruda dimensione di fatti. Ma in questo senso non basta la cronaca; per rendere conto dei fatti basterebbe una banale enumerazione, una cronistoria. È opportuno invece che siano trasfigurati dal senso che diamo al loro reciproco intrecciarsi. D’altro canto, anche il valore ha bisogno di sostanza. In altri termini, esso si sostanzia del fatto; questo si presenta e si trasmette attraverso il racconto; il valore dà un senso alla successione dei fatti, e il sistema di valori che viene trasmesso attraverso quella che solo per superficialità possiamo chiamare semplicemente “storia” è l’orizzonte all’interno del quale la comunità umana cresce.
Ma come si fa a comunicare in modo efficace la legittimità e l’urgenza di una morale condivisa? Come conciliare l’irrequietezza intellettuale (base di ogni scoperta scientifica) con il rispetto dovuto alla storia della società, nella difficile composizione fra l’apertura curiosa al futuro, massima in ogni giovane, e il bagaglio di acquisizioni che almeno in parte deve essere garantito, magari senza scossoni e deviazioni troppo brusche?
Si pensi alla carica innovativa che il ’68 ha avuto nella storia della società italiana. A posteriori un periodo convulso di crescita, con fermenti sicuramente in gran parte benefici, ma anche foriero di gravi errori storici e di tragedie umane, come l’esperienza del terrorismo delle BR o la stagione delle stragi.
Nessuno ha soluzioni facili o preconfezionate che rispettino l’ansia di innovazione e la concilino con l’armonia di una trasformazione ordinata. Ma sicuramente la presenza del più maturo che traduca in apologo, allegorie, vicende verosimili come quelle dei personaggi di questo romanzo è una garanzia… se il narratore sa rendere accattivante la sua proposta di vita, magari trasfigurandola nell’intreccio delle storie, come quello qui ordito, sarà particolarmente efficace.
Forse il senso ultimo della nostra esistenza è proprio di ricercarlo, nei superamenti generazionali, investigando il mondo delle relazioni con i nostri compagni di viaggio ed estendendo la nostra prospettiva alle generazioni future. Troviamo qui una dimensione specifica dell’uomo: la scoperta di un ordine, di un’armonia che non lasci alla caotica disposizione degli avvenimenti la signoria della storia e della società. La ricerca di un senso si svolge all’interno della vita di ogni singolo individuo e nella sua rete di rapporti sociali; ci qualifica come specie umana all’interno del concerto della natura e degli esseri viventi.
La capacità di orientarci verso finalità non immediate, come avviene per le altre specie animali, ci espone a una costante dialettica: quella di conciliare il determinismo antico delle nostre passioni (l’amore innanzitutto, e poi le altre pulsioni come l’attrazione per il potere e la cupidigia del denaro e del riconoscimento sociale) con la contemplazione dei “piani superiori” della nostra esistenza (come Freud scriveva a Binswanger quando cercava di definire gli ambiti di ricerca della psicoanalisi). Oggi sulla base delle acquisizioni delle neuroscienze possiamo capire anche meglio la dinamica fra il piano delle emozioni, dei sentimenti e quello che consente il controllo ragionevole del comportamento.
Un esempio: si pensi alla teoria dei “tre cervelli” secondo MacLean, ripresa da Laborit e raccontata nello splendido film del 1980, Mon Oncle d’Amerique di Alain Resnais. Il livello corticale controlla e disciplina i due livelli inferiori (quello dell’affettività, della memoria, e quello ancora più primitivo degli “istinti”), ma a sua volta, nel dirigere l’adattamento della persona, non può non tener conto dell’urgere delle passioni e dei desideri che provengono dai livelli più reconditi.
Un paragone fra la potenzialità espressiva del film e l’opera che ci accingiamo a leggere. Una chiave di lettura accomuna queste due narrazioni, quella cinematografica e quella letteraria.
Mi spiego. Si può parlare di scienza, di filosofia, di storia della scienza in modo per così dire serio (concetto paurosamente vicino a quello di serioso). Se ne può parlare invece come fa la nostra Autrice, anche attraverso la lente del proprio amore di nonna, che sa tradurre l’affetto in concetti, e soprattutto, in una storia.
Una bella storia. Comprende personaggi reali e figure di fantasia (Wilhelm, Alfons, Christiane, Olga…); illustra relazioni affettive (soprattutto quella del titolo, fra Bianca e Friederich: ma non solo).
Il lettore sarà accompagnato a scoprire, oltre all’amore, la relazione con il potere, con il denaro, e perfino con i mondi arcani della premonizione e dell’astrologia. Confronta inoltre in un gioco intrigante il mondo della fantasia e quello della realtà: l’immaginario principato di Kreuzfeld da un lato e dall’altro la tanto reale città di Amsterdam, ad esempio.
Amsterdam. Una città che per motivi personali sto imparando ad amare, e che è descritta fedelmente dall’Autrice nella sua bellezza.
Il fascino delle architetture, la geometrica liquida bellezza dei suoi canali e la sorprendente luminosità delle sue grandi finestre (suggestivo che esplorando la metafora delle lenti ci si ritrovi a parlare di vetri e di luce). Certo, un chiarore diffuso che rifulge soprattutto nelle limpide giornate di sole, ma che suggerisce anche inattese letture simboliche. Chi visita questa città, infatti, si ritrova sorpreso “dalla grandezza delle finestre, ricavandone l’impressione che la luce catturata all’interno delle abitazioni rispecchiasse la luminosità di una nazione industriosa, aperta, espansiva”. E questa apertura è testimoniata anche dal cosmopolitismo che vi regna sovrano, dal rispetto per ciò che è diverso e dalla considerazione degli altri indipendentemente dal colore della pelle, dalla professione religiosa, dalle abitudini di vita. Una metafora dello scambio culturale foriero di crescita e di affermazione di sé, nella piena disponibilità a ciò che è nuovo.
Questo romanzo nasce dall’educazione alla curiosità, e nasce da quella speciale relazione che esiste tra una nonna e il nipote. Speciale perché un nonno condivide con un genitore la passione per la crescita di quel “cucciolo di uomo” che viene affidato alle sue cure. Il desiderio di vederlo sbocciare, aprirsi prima alla relazione con il mondo esterno, attraverso la malcerta deambulazione del bimbo che gattona e che poi si appassiona a cose e a oggetti, per entrare infine nel mondo sociale della scuola, dello sport, delle relazioni con gli altri attraverso le lenti organizzative della politica, dello svago, dell’amore e dell’apertura all’altro come confine e senso della propria esistenza. Lévinas nel “volto dell’altro” riscopriva non solo il senso della propensione verso il prossimo, ma poneva la condizione per cui cercando l’altro si scopre in realtà se stessi. Pròswpon, “volto”, “persona” secondo la cultura greca: colui/colei che mi sta davanti. Questa visione precede e anzi fa possibile l’agnizione di me stesso come persona.
Un atto di conoscenza che si basa costruttivamente nell’affermazione che identità e relazione sono due modi diversi di dire la stessa cosa.
Ma questo scambio non avviene una volta per tutte, nell’atto relazionale che si consuma come un flash: si sviluppa lungo le rispettive vicende personali dei soggetti della relazione stessa: abbraccia cioè la loro storia, quella individuale prima e quella del loro rapporto poi, ponendo le basi per lo sviluppo della storia nel suo complesso e delle storie che la compongono.
Non tutte le narrazioni sono buone, è ovvio. È bene distinguere fra le belle storie e quelle cattive, che invece di creare le condizioni per il dispiegarsi di una vera crescita la deviano, la rendono contorta e fanno sperdere il viandante che vi si avventura.
Potremmo dire che una narrazione buona, una bella storia è terapeutica, nel senso vero del termine. “Cura” i sintomi e i malesseri perché li fa vivere virtualmente nei personaggi che rispecchiano la vita di chi ascolta e di chi la legge, ma soprattutto esprime il desiderio di tutela della crescita di chi la riceve.
Questo implica una responsabilità nel narratore. Non basta l’affetto del genitore (o del nonno) per rendere positiva la passione che la sottende.
Occorre definire l’oggetto e nella storia che segue a queste poche righe abbiamo proprio un contenuto eccellente: la conoscenza, la scienza. L’oggetto al di là della lente che ne amplifica l’immagine, acuisce le nostre sensazioni e rifinisce le percezioni, dando loro un senso ed aprendo la strada a infinite nuove esperienze.
Ogni scoperta diventa quindi uno stimolo per ulteriori rivelazioni, in un processo virtuoso che consente allo spirito umano di ampliare le sue conoscenze e migliorare il suo rapporto con il mondo.
Vedere un microbo è già un disvelamento di per sé, ma soprattutto aumenta la nostra consapevolezza di essere in contatto con un mondo non immediatamente visibile, ma che si regge con sue leggi interne e si regola con equilibri che neanche immaginavamo prima di vederlo. Analogamente, scoprire un mondo prima sconosciuto grazie al telescopio ci forza ad esplorarlo, come stiamo facendo per ora con le sonde spaziali.
Esperienze che neanche avremmo immaginato di poter vivere se non avessimo avuto la prima sorprendente capacità di aumentare la nostra potenza visiva grazie alla lente.
Affidiamoci alle parole della professoressa Giacometti, che mi sembra della stessa pasta dei professori che al Liceo hanno saputo farmi amare la filosofia, e degli autori che hanno accompagnato la mia personale crescita verso la curiosità per il mondo delle scienze, quello aperto da Galilei. Riscopriamo insieme la limpidezza morale di Spinoza, il molatore di lenti che per amore della ricerca pura e disinteressata rifiuta la cattedra all’Università di Heidelberg.
E lasciamoci cullare da quella che è – evidentemente – più che una buona storia: un’ottima storia che ci introduce, in compagnia di Federico, alla nascita della scienza come oggi la intendiamo e ai valori che la rendono veramente, definitivamente, umana.
Annibale Bertola
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n.92, aprile 2015)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi