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Politica ed Economia (a cura di Elisa Pirozzi) . Anno IX, n 91, marzo 2015

Zoom immagine La democrazia
assoggettata
all’economia

di Giuseppe Licandro
Gianluca Ferrara indaga
Sulle cause della recessione.
Da Il punto d’incontro


La recessione innescata nel 2008 dal crac del sistema finanziario statunitense scuote ancora il mondo occidentale, in particolare quei paesi che, come l’Italia, non riescono a superare la crisi anche a causa delle proprie contraddizioni interne.
Oggi appaiono pie illusioni le tesi di chi – come Francis Fukuyama nel saggio La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli) – sosteneva solo vent’anni fa che il corso delle vicende umane, dopo la fine della Guerra fredda, avesse raggiunto il punto di approdo terminale nel modello economico neoliberista vigente negli Usa.
Un’approfondita riflessione sulle cause e le conseguenze dell’attuale crisi internazionale è contenuta nel libro Derubati di sovranità. La guerra delle élite contro i cittadini (Il punto d’incontro, pp. 142, € 6,90) di Gianluca Ferrara, saggista e direttore editoriale di Dissensi edizioni, che si pone in controtendenza rispetto al pensiero economico dominante.

Keynesiani contro neoliberisti
Ferrara asserisce che nel nostro tempo si assiste alla fase terminale di uno storico conflitto tra due dottrine economiche, «quella di stampo neokeynesiano e quella neoliberista», che si sta concludendo con la vittoria della seconda, assurta ormai a “pensiero unico” che condiziona l’operato delle nazioni e ne riduce la sovranità.
Nel 1944 si tenne a Bretton Woods, negli Usa, una conferenza internazionale − tra gli organizzatori della quale ci fu anche John Keynes − che stabilì alcuni importanti accordi di natura finanziaria, permettendo «di stabilizzare il tasso di cambio a un valore fisso rispetto all’oro» e di instaurare «un regime di cambi fissi fra le monete e la convertibilità del dollaro in oro». Queste misure monetarie resero possibile, nel Secondo dopoguerra, la ripresa economica e furono alla base della costruzione di un moderno welfare state nei principali paesi occidentali.
La situazione mutò drasticamente a partire dal 1971: poiché il governo statunitense aveva stampato troppa cartamoneta per finanziare la disastrosa guerra del Vietnam, il presidente Richard Nixon, seguendo i dettami neoliberisti, decretò la fine della convertibilità del dollaro in oro.
Il valore delle monete, non essendoci più vincoli finanziari, iniziò a fluttuare liberamente e «a essere soggetto ad attività speculative capaci di generare profitti». Un’ulteriore accelerazione dell’economia neoliberista si ebbe dopo l’affermazione elettorale di Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979) e di Ronald Reagan negli Usa (1980), i quali cominciarono a smantellare il welfare state, coniando efficaci slogan propagandistici quali «meno Stato e più mercato», «lo Stato è il problema non la soluzione».
Nei trent’anni seguenti quasi tutte le nazioni del mondo si adeguarono a questa forma mentis, soprattutto in seguito al crollo del Muro di Berlino (1989) e alla dissoluzione dell’Urss (1991). Furono introdotte un po’ ovunque misure economiche che, «attraverso la difesa della proprietà privata, la svendita del patrimonio dello Stato, l’eliminazione di ogni barriera doganale, la deregolamentazione, la tassazione e il taglio della spesa pubblica», consentivano di incrementare i profitti delle grandi aziende multinazionali.
Nacque così un nuovo ordine economico mondiale, che ebbe il suo battesimo il 15 aprile 1994, allorché a Marrakech venne fondata l’Organizzazione mondiale del commercio con lo scopo di favorire la diffusione a livello globale del neoliberismo, supportata da altri due organismi sovranazionali: la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.

I guasti dell’economia neoliberista
Il modello economico imposto dopo il 1994 a gran parte del globo terrestre ha dimostrato in vent’anni tutti i suoi limiti strutturali, provocando immensi danni al tessuto sociale e all’ambiente naturale: crescita della disoccupazione nei paesi industrializzati, a causa della meccanizzazione del lavoro e della delocalizzazione produttiva; sfruttamento della manodopera, ridotta spesso in condizioni di schiavitù; deforestazione e crescenti emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, con aumento dell’“effetto serra” e della temperatura media del pianeta.
Altri “danni collaterali” del modello di sviluppo economico neoliberista possono essere considerati il consumismo sfrenato − il quale induce tanta gente a credere che «la felicità consiste nel piacere effimero dell’acquisto di oggetti invece che nel piacere profondo delle relazioni» − e il peggioramento della qualità della vita, con la ricerca di pericolose vie di fuga nell’alcolismo, nella droga e negli psicofarmaci.
Il motore del sistema, però, a un certo punto si è ingrippato, perché il trasferimento di denaro dai salari ai capitali ha prodotto come conseguenza l’impossibilità di «assorbire l’offerta produttiva» da parte de «cittadini-consumatori»
La produzione, pertanto, si è bloccata e le aziende multinazionali, volendo mantenere alti i profitti, hanno iniziato a licenziare e a dirottare i propri investimenti verso le speculazioni finanziarie. Il divario tra ricchi e poveri è diventato perciò enorme: oggi il 20% della popolazione mondiale consuma il 90% di tutti i prodotti e «le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere».
Un esempio dell’aumento delle disuguaglianze sociali è fornito proprio dall’Italia, dove, secondo i dati dell’Istat relativi al 2013, «circa la metà del reddito totale è di proprietà del 10% delle famiglie mentre il restante 90% deve spartirsi l’altra metà».
Di fronte alla crisi di sovrapproduzione l’inefficace ricetta neoliberista consiste nel ridurre i tassi di interesse per stimolare l’immissione di moneta sul mercato da parte delle banche, sperando che ripartano gli investimenti in vari settori produttivi.
Ciò determina, però, solo la formazione di «bolle speculative» di breve durata che, una volta “esplose” – come nel 2007 con i famigerati mutui subprime – innescano a loro volta una nuova ondata recessiva.
Ferrara, dunque, è convinto che il sistema neoliberista sia agli sgoccioli e che non possa più assicurare i diritti civili e la pace, anche perché «questo Sistema necessariamente deve armarsi e conquistare territori per accaparrarsi risorse che servono a garantire, a pochi, uno stile di vita insostenibile».

I “poteri forti” che controllano la politica
L’autore dedica ampio spazio all’analisi dei “poteri forti” che condizionano oggi l’economia mondiale, soffermandosi in particolare sul Club Bilderberg, sulla Commissione trilaterale e sulla banca Goldman Sachs.
Pur rigettando le tesi complottistiche di chi intravede dietro ogni avvenimento storico la longa manus della massoneria, Ferrara non sottovaluta l’importanza che i gruppi oligarchici rivestono in campo internazionale ed è convinto che «il mondo è governato da una élite, alla quale è stato permesso di […] creare un governo mondiale ombra presieduto dalla finanza internazionale, dalle lobby degli armamenti e dalle multinazionali».
La Goldman Sachs, in particolare, ha condizionato pesantemente la scena politico-economica mondiale dell’ultimo decennio: la banca newyorkese ha provocato la bolla speculativa immobiliare americana, ha innescato la recessione economica e ha speculato sui titoli di stato di Grecia e Italia, intaccandone i debiti sovrani (con la corresponsabilità delle classi dirigenti delle due nazioni).
Personaggi illustri della politica e della finanza italiana – come Mario Draghi, Gianni Letta, Mario Monti, Romano Prodi – sono stati in passato strettamente legati a questa potente holding. Secondo Ferrara, quindi, non è più vero che «la sovranità appartiene al popolo», perché quasi tutti gli stati sono ormai asserviti alla finanza internazionale che «esercita un potere assoluto».

Le riforme più urgenti
L’autore ritiene indispensabile, per uscire dalla crisi economico-politica globale, una rivoluzione culturale che realizzi forme avanzate di partecipazione democratica «attraverso gli strumenti del referendum propositivo senza quorum, del bilancio partecipato e attraverso l’uso della rete come mezzo di consultazione».
Queste appaiono le riforme più urgenti da realizzare per porre un freno allo strapotere dell’oligarchia finanziaria, che si è arricchita anche grazie alle disgrazie delle popolazioni cadute nell’indigenza.
Occorre, dunque, non fornire più alcuna legittimazione alle conquiste militari spacciate per «guerre umanitarie» e alle «missioni di pace» che servono solo a sottomettere i popoli riottosi ai diktat dell’Fmi o dell’Omc.
Le organizzazioni no profit dovrebbero adoperarsi per avviare progetti di sviluppo che servano a emancipare realmente i popoli in difficoltà e non dovrebbero rendersi complici di chi intende la cooperazione internazionale come un mezzo per intrufolarsi negli affari interni dei paesi più poveri o di arricchimento col business degli aiuti umanitari. È indispensabile, inoltre, che gli stati in difficoltà non paghino i debiti acquisiti illegittimamente, cioè frutto di raggiri finanziari o determinati dal cosiddetto «signoraggio monetario» che ha consegnato la gestione delle valute nelle mani delle grandi banche private.
Ferrara, in proposito, sottolinea come in Italia «l’avanzo primario negli ultimi decenni è sempre stato positivo» con un bilancio attivo di 484 miliardi di euro. I circa 2.000 miliardi di debiti ancora da pagare sono dovuti esclusivamente ai tassi d’interesse che lo stato italiano ha dovuto versare negli ultimi trent’anni alle banche private, dopo la scelta azzardata che nel 1981 spinse il governo Spadolini a rendere autonoma la Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, con la conseguente vendita dei Bot a tassi d’interesse molto più alti che in passato per attirare i capitali privati.
Oggi, a livello globale, i debiti ammontano a circa 100 mila miliardi di dollari, «una somma maggiore del prodotto interno lordo mondiale, cioè di tutta la produzione del pianeta». La sovranità monetaria, dunque, andrebbe tolta ai banchieri e restituita ai governi nazionali, perché i cittadini «devono usufruire di una moneta statale su cui non gravi alcun debito».
Gli stati, inoltre, dovrebbero adottare al più presto importanti misure economiche, come la separazione tra le banche d’investimento e quelle commerciali o la tassa sulle transazioni finanziarie, per porre rimedio ai difetti più lampanti del sistema neoliberista, tutelando i risparmiatori e garantendo una maggiore equità fiscale.

Un nuovo mondo da costruire
Ferrara definisce il capitalismo finanziario come una «grande macchina totalitaria» in grado «di infettare ogni aspetto dell’umano, dalla coscienza alle azioni, senza che si sollevi un dissenso rimarchevole».
Il “nuovo totalitarismo” mostra di rado il suo volto feroce – ad esempio durante il G8 di Genova del 2001 – perché riesce a narcotizzare i cittadini grazie ai mass media che ne condizionano la mente, illudendoli di essere liberi e impedendo loro di capire che stiamo vivendo, drammaticamente, la fine di un’epoca storica.
L’autore auspica, dunque, l’avvento di un nuovo sistema economico postcapitalistico, imperniato su quella che viene solitamente definita come «decrescita».
Nel 2013 l’Earth overshoot day – il giorno dell’anno in cui il consumo di risorse naturali supera la capacità rigenerativa del pianeta – è avvenuto il 20 agosto, mentre nel 2003 era stato il 20 ottobre. Considerando i ritmi di sviluppo elevati di nazioni come la Cina e l’India, c’è il rischio del collasso del pianeta entro la fine del secolo.
Non serve, pertanto, ripristinare il capitalismo di stato: neoliberismo e keynesismo, infatti, sono dottrine «entrambe devote al dio della crescita».
L’intervento dello stato è certamente necessario per porre rimedio ai danni provocati dal neoliberismo, occorre però modificare il paradigma di fondo della politica economica, prediligendo la qualità e non la quantità delle merci prodotte.
Si deve, inoltre, accantonare l’idea che «deve essere una élite a gestire il potere», favorendo il decentramento amministrativo e la partecipazione popolare.
Bisogna, dunque, puntare a una «globalizzazione completamente alternativa» che sostenga l’agricoltura biologica, introduca il protezionismo doganale in difesa delle economie locali aggredite dalle multinazionali (per esempio, tassando le merci «in base al chilometraggio prodotto») e adotti una politica energetica fondata sul risparmio delle risorse e sulle fonti rinnovabili.
Per realizzare tutto ciò, secondo l’autore, l’unica strada percorribile è quella della «rivoluzione non violenta», che dovrà essere costruita lentamente, mettendo insieme i tanti rivoli di protesta civile che già esistono, secondo un programma unitario.
Le idee contenute nel libro di Ferrara sono pienamente condivisibili, anche se l’autore non indica chiaramente quale sia il soggetto sociale e politico in grado di sconfiggere pacificamente l’“aristocrazia globale”.
I “poteri forti” oggi dominanti non sembrano, infatti, disposti a lasciare la barra di comando tanto facilmente, né ad attenuare lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente portato avanti nell’ultimo trentennio: anzi, cercheranno in tutti i modi di difendere i propri privilegi, facendo ricorso anche alla violenza.

Giuseppe Licandro

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 91, marzo 2015)

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