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Comunicazione e Sociologia (a cura di Vilma Formigoni) . Anno IX, n 91, marzo 2015

Zoom immagine Una Palermo
“ristrutturata”

di Stefania Pipitone
Un progetto mafioso
reso in metafora.
Storia e Studi sociali


«Un paragrafo dopo l’altro, lungo un arco di tempo di più di quattro anni, sono raccontate le vicende di un progetto per la ristrutturazione architettonica e urbanistica di Kalhesa: città bellissima ma, a quanto pare, malandata, mal governata, martoriata da atroci cospirazioni e crimini efferati». Con una lettera indirizzata a un editore non identificato l’autore fornisce la chiave di lettura della sua opera. La missiva, però, porta in calce la firma di un viaggiatore inglese, tale Roger Bodenham, un personaggio creato ad hoc per far funzionare la costruzione della finzione letteraria: è lui a rinvenire il manoscritto di Ismé Gimdalcha, il quale, più che il protagonista dei fatti narrati, è l’osservatore esterno che annota quanto vede, sente e gli viene riferito su un diario che titola Il progetto Kalhesa (Edizioni di Storia e Studi sociali, pp. 212, € 14,00).
Un espediente letterario, insomma, congegnato dall’autore per denunciare una realtà complice della sua stessa rovina senza esporsi troppo.

Il travestimento del romanzo
Oggi sappiamo che dietro la figura di Ismé Gimdalcha si cela quella dell’architetto e urbanista genovese Giancarlo De Carlo, scomparso nel 2005 e divenuto noto per aver redatto il primo Piano regolatore generale della città di Urbino e per aver progettato il campus e gli edifici dell’università urbinate. È lo stesso De Carlo a dare al lettore gli indizi sulla propria identità, sempre attraverso le parole della sua creatura letteraria che, rivolgendosi all’editore immaginario, azzarda la risoluzione del rebus: «Ismé in arabo è la prima persona del presente del verbo essere […] la parola Gimdalcha ha tutta l’aria di essere l’assemblaggio di tre consonanti», che corrispondono alle iniziali del nome e del cognome dell’autore.
L’artificio di De Carlo non si ferma al suo travestimento: «i nomi delle città, delle istituzioni, delle formazioni politiche, delle associazioni a delinquere […] sembrano accuratamente manipolate» si legge ancora nella missiva di presentazione del manoscritto; così come manomesso è il calendario di riferimento, un altro enigma che Bodenham tenta di sciogliere individuando la giusta collocazione temporale dei fatti narrati: «Ho messo un bel po’ di tempo per associare le annotazioni […] con i nomi dei mesi e i numeri degli anni. Ma quando l’associazione mi è balenata nella mente, è stato rapido supporre che gli anni fossero stati contati a partire dall’Egira e non dalla nascita di Cristo e perciò che, se venissero aumentati di 622, si potrebbe pensare che il “journal” sia stato tenuto tra dieci e quindici anni fa». Sommando – come suggerito dal viaggiatore inglese – 622 anni alle date che compaiono sul diario di Ismé Gimdalcha, infatti, si giunge al periodo durante il quale De Carlo fu chiamato a redigere un progetto per il recupero del centro storico del capoluogo siciliano.
Ed ecco svelato l’ultimo degli arcani: Kalhesa è Palermo. Questa volta, però, l’autore della lettera non ce lo conferma – «Kalhesa io l’ho cercata dappertutto […] Alla fine ho deciso che Kalhesa non c’è e anche che è dappertutto» – e non lo fa perché l’intento di De Carlo è sì quello di riportare cronachisticamente l’esperienza di lavoro condotta nella Palermo degli anni di piombo, ma anche quello di rendere astratta e universale la storia di una città che diviene l’emblema di qualsiasi luogo nel quale la convivenza tra lo splendore artistico, la cultura e gli intellettuali, da un lato, e i poteri occulti, dall’altro, sopravvive alla contraddizione.
In verità, però, dietro al nome che De Carlo sceglie per la città protagonista del romanzo sembra esserci una spiegazione che, ancora una volta, ci porta in Sicilia, proprio in uno dei quartieri del centro storico di Palermo, il più arabo, la Kalsa. Perfino il nome è di derivazione araba: “al Khalisa” (l’eletta), un’assonanza fin troppo calzante per credere che l’autore l’abbia scelto a caso. Ma non è solo il suono a farci prendere in considerazione il fatto che De Carlo abbia pensato proprio alla Kalsa quando parla della sua Kalhesa. La Kalsa è, infatti, uno dei quartieri del capoluogo siciliano a più alta densità mafiosa, ma è anche quello nel quale sono nati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; è il quartiere della miseria e, allo stesso tempo, il quartiere della nobiltà: è quell’angolo di mondo nel quale gli estremi coabitano in un contrasto surreale. La Kalsa è stata anche la zona della città più duramente colpita dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale ed è ai danni da essi provocati che l’autore si riferisce quando scrive di «macerie lasciate intatte dalla fine della seconda conflagrazione».

Allusioni e riferimenti storici come condimento all’opera
Grazie all’espediente letterario della maschera, De Carlo può esprimere senza riserve ogni sorta di critica e abbandonarsi a un linguaggio privo di filtri: elimina a monte il rischio di incorrere in qualche querela per diffamazione. Eppure le allusioni ci sono: il testo ne è pieno zeppo e sono presentate come indovinelli che il lettore può, ma non per forza deve, decifrare. Si può assaporare il romanzo anche senza l’aggiunta di questo ingrediente, ma chi non vuole perdersi il retrogusto piccante del racconto può insaporire la lettura con le proprie conoscenze e gustarsi il lato storico dell’opera.
Qualche suggerimento lo troviamo nella Prefazione di Edoardo Salzano, altri indizi ce li rivela De Carlo nel corso della narrazione con le descrizioni minuziose dei personaggi, delle forze politiche, delle organizzazioni criminali e degli eventi storici.
Non è difficile, per esempio, individuare il riferimento, neanche troppo velato, al Sacco di Palermo, l’opera di speculazione edilizia, messa in atto negli anni Sessanta da uomini della mafia locale e da alcuni esponenti politici della Democrazia cristiana, che portò la città ad estendersi al di fuori dei confini del centro storico, rimasto abbandonato a se stesso: «Dalla fine della seconda conflagrazione a oggi non è stato fatto nulla per risanare il centro remoto di Kalhesa […] Forse non c’era neppure un disegno ma solo l’istinto sicuro di spingere il più presto possibile lo sviluppo della città verso l’estrema periferia, nelle grandi distese di aree che erano già state comprate dall’Organika e dai Reliquari».
Quando finalmente, sul finire degli anni Settanta, lo stato italiano provvede a stanziare finanziamenti per ricostruire il centro storico di Palermo, la macchina istituzionale siciliana si mette in moto. Ancora una volta De Carlo può lasciare libero spazio alle critiche individuando le reali motivazioni che spingono chi sta al potere a passare all’azione: «Si è capito subito, con prontezza silenide, che chi risanerà o farà finta di risanare il centro remoto di Kalhesa, potrà guadagnare ancor più di quanto guadagnerebbe chi riuscisse a demolirlo per poi ricostruirlo a densità elevata».
A prendere in mano le redini e a condurre il gioco ci pensa la Democrazia cristiana (i Reliquari), condizionando le contromosse degli avversari politici, soprattutto quelle del Partito comunista (la Congrega degli Austeri). Quando, per esempio, con un colpo di coda, la Dc abbandona l’idea della demolizione e propone di designare quattro urbanisti per redigere il piano di recupero, il Pci si lascerà cogliere dall’entusiasmo. E quando la scelta dei democristiani per la nomina dell’architetto ricadrà su Giuseppe Samonà (Aristide Fragalà, «che non è reliquiario affatto e anzi è stato venerando degli Austeri nell’ultima tornatura dello stato sovrano»), il responsabile regionale del Pci, Luigi Colaianni (Lucio Corinzio), deciderà di convocare Giancarlo De Carlo (Ismé Gimdalcha).

La mano della mafia nella politica
Anche se a muovere le pedine è la Dc, a decidere le mosse è la mafia (l’Organika) e l’autore non perde occasione per ricordarcelo, affidando talvolta la descrizione del suo modus operandi alla voce dei suoi personaggi: «L’Organika – mi dice Zait – è come una compagnia assicurante, attendibile perché determinata e costante. Chiunque abbia un’attività paga un “tozzo” (una tassa) e l’Organika lo protegge dai furti, dai ricatti e dalle piccole violenze. […] Chi non accetta di pagare il “tozzo”, vuol dire che non accetta l’autorità e la giustizia dell’Organika. […] Non bisogna “impicciarsi”: questa è la regola di ferro».
La mafia può agire indisturbata perché gode di un grande consenso tacito, l’omertà dei siciliani, e De Carlo ce ne offre uno scorcio nella descrizione di uno scippo consumatosi sotto i suoi occhi: «Santo Corinzio – che era stretto tra me e Lucio sul marciapiede – è stato strappato della bisaccia che portava a tracolla da due giovinastri […] Tutto nel silenzio […] perché non serve che la vittima faccia rumore: nessuno sentirebbe». L’organizzazione criminale può anche agire senza dare all’occhio perché ha i suoi uomini all’interno dell’amministrazione: «Nel palazzo della Legazione, c’è stato un incontro apparentemente casuale con Beppe Cianfrogna, ex legato di Kalhesa, grande notabile del partito dei Reliquari e famoso esponente dell’Organika». Il politico della mafia non esita a ricorrere alle intimidazioni: «Cianfrogna ha voluto dare a Fragalà un avvertimento: il mio partito ha fatto la sciocchezza di nominarti consigliere e ormai ci sei. Però faresti bene a stare attento perché io ti potrò tenere in pugno ogni volta che avrò voglia di farlo».
Non è neanche troppo velato il riferimento a Vito Ciancimino, sindaco di Palermo nei primi anni Settanta, nonché protagonista del Sacco di Palermo in qualità di assessore ai Lavori pubblici sotto la giunta Lima. Sembra anzi che De Carlo voglia confermarcelo quando nel dipingere Cianfrogna impiega tinte chiare, nette e decise: «Mi dicono che sta tornando velocemente in alto da quando il suo collega Prinzessa è stato sparato nella sua carrozza», una descrizione nella quale il personaggio di Prinzessa combacia con la figura dell’allora segretario provinciale della Dc a Palermo, Michele Reina, assassinato da Cosa Nostra il 9 marzo del 1979, proprio mentre stava per mettersi a bordo della sua auto.

“La tela di Penelope”
L’opera di contrasto di Reina nei confronti dei costruttori legati a Ciancimino ostacolava l’azione di quest’ultimo, pertanto l’omicidio compiuto per mano mafiosa non solo eliminava un nemico ma metteva fuori combattimento tutta l’ala democristiana antagonista all’ex primo cittadino di Palermo. Un’ulteriore riprova, questa, che dietro al personaggio di Cianfrogna ci sia proprio Ciancimino, infatti sul diario di Ismé Gimdalcha si legge: «dopo l’assassino di Prinzessa è rimasto il vuoto nella corrente del partito dei Reliquari, che avversava quella di Cianfrogna; perciò è il momento della riscossa».
Gli esponenti della Dc appaiono come le marionette dell’opera dei pupi siciliana e Ciancimino è il puparo che muove i fili: «Cianfrogna – si dice – è dietro le quinte e dirige l’azione di sabotaggio». De Carlo rincara la dose quando, durante la stesura del progetto per il risanamento del centro storico di Palermo, si imbatte nel problema di una documentazione planimetrica praticamente assente: «Per verità mi dicono che l’apparato tecnico e la documentazione esistono, ma sono altrove, in qualche base dell’Organika. Il gazzettista Zerbino mi raccontava che Beppe Cianfrogna ha in casa sua un grande modello del centro remoto», tesi tra l’altro attendibile dal momento che Ciancimino, avendo ricoperto la carica di assessore ai Lavori pubblici, conosce molto bene la città.
L’intento di Ciancimino-Cianfrogna è quello di intralciare la realizzazione del progetto di ristrutturazione. È per questa ragione che il “progetto Kalhesa” fatica a decollare dietro a continui rilievi, stesure, discussioni, cancellazioni, ripianificazioni e di nuovo discussioni e cancellazioni: una tela come quella di Penelope, nella quale però all’eroina omerica si sostituisce un’altra tessitrice di trame, la mafia.

Stefania Pipitone

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 91, marzo 2015)

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