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Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno IX, n 90, febbraio 2015
Cuore e mente:
forze opposte
o convergenti?
di Irene Nicastro
L’organo vitale più caro
ai pensatori in un saggio
filosofico edito da Zona
Il cuore è spesso chiamato in causa da molti filosofi. È proprio all’organo vitale che Sant’Agostino, per esempio, indirizza i suoi pensieri più profondi e personali: è dal cuore che, dopo essersi messo nella posizione dell’ascoltatore, si aspetta una risposta per risolvere i problemi che lo turbano. Altri pensatori, invece, ritengono che al cuore appartenga il linguaggio, uno strumento importantissimo per relazionarci con il prossimo, poiché il sentire del cuore non si distingue dal pensare dell’individuo e, addirittura, i processi vitali, compresa l’intelligenza, passano per il cuore.
A questo punto sorge spontaneo un quesito: di cosa parliamo quando ci riferiamo al cuore? È a questo interrogativo che Giuseppe Pulina intende dare risposta nel suo libro Rigor Cordis. Per una filosofia del cuore (Zona, pp. 120, € 13,00), che, attraverso il pensiero e l’etica, cerca di spiegare la vita quotidiana e l’impiego del cuore nelle nostre azioni più banali.
La tesi del rigor cordis
In una sorta di lettera al lettore, Pulina scrive: «Un libro che parla di cuore […] andrebbe letto almeno con un po’ di cuore». Ne basta infatti una piccola quantità per spingere il lettore fino all’ultima pagina e, se non si ha abbastanza cuore, «ci si può sempre appellare alla ragione, perché dove si parla di cuore, è anche della ragione che, alla fine, si parla», ed essenzialmente per due motivi differenti: per segnare la distanza della ragione dal cuore, o per ridurne lo scarto. Già Blaise Pascal, definendo i metodi di conoscenza, aveva distinto l’esprit géométrique (la conoscenza scientifica e analitica ottenuta con procedimenti geometrici e razionali) dall’esprit de finesse (la conoscenza esistenziale dell’individuo, dei moti della sua anima, dei princìpi che governano la sua sfera spirituale) dando «al cuore ciò che per troppo tempo era stato considerato esclusivo della ragione». Ed è questo l’intento stesso di Pulina che, con l’espressione rigor cordis, cerca di dare un nome «ai talenti del cuore» rivendicando, in tal modo, la vitalità delle sue funzioni, perché, come ricordava Arthur Schopenhauer, il cuore è l’ultimo organo che abbandona l’essere umano. Pulina, dunque, attraverso l’uso di strumenti filosofici, va alla scoperta del cuore descrivendo gli elementi che gli sono propri.
Per una filosofia del cuore
L’autore del saggio si pone anzitutto come guida per portarci alla scoperta del cuore e di ciò che esso ha rappresentato nelle varie epoche. Partendo dal presupposto che l’essere umano è ciò che è grazie all’uso e alla funzione dell’organo cardiaco e all’importanza che gli è stata attribuita, Pulina fa una distinzione fra tre “epoche cardiache”. Nella prima, «un cordone ombelicale collegava l’universo al cuore, alimentandolo e facendo di questo lo stesso universo, il luogo letteralmente inteso in cui tutto si “versa”, con-verge e raccoglie». Nella seconda, che per Pulina non è molto distante dai nostri giorni, «il cuore si è indurito così tanto da farsi pietra e trasformarsi in macchina». La terza, infine, «cerca il cuore di cui ci siamo incautamente liberati».
Alcuni filosofi, come ad esempio quelli che Nietzsche contrapponeva a Socrate, sostenevano la potenza del cuore, e secondo questi nella prima delle tre ere cardiache non vi era differenza tra l’organo e la facoltà del pensiero dell’essere umano. Pulina mette in evidenza come tutti i processi vitali, a cominciare dall’intelligenza, passino dall’organo cardiaco, contrariamente a quanto sosteneva Alcmeone, filosofo pitagorico, secondo cui è dal cervello, dunque dalla ragione, che hanno inizio tutte le funzioni vitali. Per altri filosofi dell’antichità, il cuore «assolveva una più significativa gamma di funzioni: centro pulsionale (ardore, thymos), punto di contatto con il divino, luogo di raccolta del Nous e dell’attività spirituale», e per Lucrezio il «“cor” era anche “mens”». In tutti si evince l’idea di una continuità fisica tra cuore e universo.
Filosofia vs etica
Accanto a quella di tipo filosofico, Pulina compie anche un’analisi etica. All’interno del suo saggio mette a fuoco un’idea “non comune” di cuore, sottraendolo dalla semplice funzione meccanica di esecutore di processi fisiologici. Proprio la chiave etica fornisce una visione alternativa sulla società attuale. Ciò che l’autore si propone è superare i luoghi comuni che accompagnano e formano un’idea “standard” del cuore nell’immaginario collettivo, invitando alla riflessione sull’immagine di quest’organo a volte un po’ “abusata” nella nostra società, un cuore che è diventato «fiacco e impotente», raffigurato su t-shirt, loghi o inciso sulla corteccia di un albero, che «non è nemmeno l’ombra del cuore che fu». Spesso ci dimentichiamo di possederlo e restiamo sorpresi e sbigottiti quando lo sentiamo pulsare nel petto, quasi come un intruso, un ospite non atteso. Un po’ ciò che accadde al primo uomo che sentì il suo cuore battergli in petto, e noi come lui pian piano ci siamo abituati al suo rumore, diventando sicuri di poterlo conoscere.
La bellezza del cuore
La stesura del saggio di Pulina ruota tutta attorno ad un perno fondamentale, ossia il concetto in base al quale «non si può dare bellezza senza cuore, perché il cuore è ciò che la intende». Quando parliamo di cuore, tendiamo a rappresentarlo come il punto focale dell’attività sensoriale. Ciò spiega il fatto che per l’autore sarebbe stato riduttivo intendere il cuore solo come un muscolo dotato di autonomia, poiché, con questa “definizione”, il lettore non avrebbe potuto capire la sua personale visione dell’organo cardiaco. Pulina sostiene che esso possegga una struttura in apparenza talmente semplice da farlo percepire, a un primo colpo d’occhio, «povero e banale». Ma non è così. Se imparassimo di nuovo ad apprezzare ciò che di semplice ci circonda, riusciremmo a percepire la particolare bellezza del cuore, perché, sostiene l’autore, «la bellezza ha la sua cifra nell’ineffabile semplicità di ciò che ci colpisce; per questo, una volta che ne veniamo rapiti, ci sembra che, per esprimerla, tutte le parole del mondo siano inadeguate».
Irene Nicastro
(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 90, febbraio 2015)
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