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Poeti della Firenze
medicea tra fedeltà
e interessi politici
di Alessandra Pappaterra
Il complesso rapporto tra i letterati
e i potenti alla corte del Magnifico
Scriveva il filologo Mario Martelli: «D’altronde, chi, un po’ prima un po’ dopo, a Firenze, tra il 1434 e il 1494, non divenne, almeno ufficialmente, mediceo?» [1]. L’essere medicei nel Quattrocento costituiva per molti letterati uno status del tutto privo di solide ideologie, ma basato troppo spesso su interessi personali. I poeti di corte, specialmente, svolgevano una produzione encomiastica totalmente in funzione delle proprie aspettative sociali.
Il caso più emblematico è rappresentato da Poliziano, il cui intero corpus di rime, di corsi tenuti presso lo Studio fiorentino, di interessi culturali, ruotava totalmente attorno al volere del suo protettore Lorenzo. La sua devozione nei confronti del Magnifico è palesemente riscontrabile in molti suoi scritti, in cui il precettore di casa Medici non esitava a ringraziare Lorenzo e a definirsi quale strumento nelle sue mani. Eppure, dopo la congiura dei Pazzi, con altrettanta facilità si rifiutò di accompagnare il suo mecenate nel viaggio verso Napoli finalizzato a stipulare una pace con Ferdinando d’Aragona.
Naturalmente Poliziano incarna il portavoce della poetica e politica laurenziana, ma nel loro piccolo anche personaggi di rilievo ed importanza minore nella Firenze dell’epoca non esitavano ad abbandonare le grazie medicee, in vista di eventuali situazioni scomode.
Nella cerchia dei “traditori” andrebbe incluso anche Alessandro Braccesi. Questi si fece conoscere al pubblico come poeta mediceo, sotto la guida di Lorenzo stesso, al quale dedicò una raccolta di Carmina, colmi di rinvii alla sua grandezza. Braccesi però, non appena scorse un panorama politico scricchiolante per la sua carriera, non esitò ad allontanarsi dalla cerchia medicea e, addirittura, a realizzare una seconda redazione delle sue rime, all’interno della quale vennero espunte le celebrazioni del Magnifico. Tra il 1486 e il 1487 portò a termine il terzo libro, costituito da Epigrammata; il dedicatario dell’opera questa volta fu – per ragioni politiche intrise di tornaconti personali – Guidobaldo da Montefeltro.
Morto il Magnifico nel 1492 e, dopo poco più di due anni, cacciati i Medici da Firenze, Braccesi, per mezzo degli ottimati, riuscì ad ottenere importanti cariche politiche.
Francesco d’Altobianco degli Alberti, Feo Belcari e Antonio di Guido, mostrarono anch’essi delle vicinanze alla famiglia dei Medici, in particolar modo durante l’ascesa al potere di Piero di Cosimo.
Francesco degli Alberti, sebbene appartenesse ad un’antica e rispettata famiglia fiorentina, a causa delle ristrettezze economiche in cui cadde il padre, della confisca dei beni e di un allontanamento da Firenze per parecchi anni, lasciò che la propria produzione poetica fosse fortemente condizionata da eventi strettamente personali. Un notevole avvicinamento a Piero avvenne proprio per cercare di sanare quel poco che restava del suo patrimonio. Attraverso un’epistola che questi inviò a Piero di Cosimo, si evince una richiesta di aiuto in favore del figlio Giovanni a causa di problemi sorti con Niccolò di Matteo Cerretani. La richiesta di aiuto nella lettera autografa dell’Alberti fu seguita da una postilla di Mariotto Benvenuti, personaggio molto vicino ai Medici, a cui l’Alberti si era rivolto perché intercedesse in suo favore.
Le lodi del Poliziano lasciarono congetturare un avvicinamento a casa Medici anche per Antonio di Guido [2]. È chiaro l’apprezzamento da parte dell’autore delle Stanze a tal punto che gli dedicò un epigramma [3] in cui il maestro canta in pancha venne elogiato a tal punto da superare, col suo canto, Orfeo stesso: infatti, se quest’ultimo aveva il potere di trascinare le bestie e le piante, Antonio Di Guido riusciva a smuovere gli animi umani. L’epigramma in questione è dedicato a Fabiano da Montepulciano, chierico della Camera Apostolica nel 1477, e suona così:
Ad Fabianum,
de Antonio tusco extemporali poeta.
Tuscus ab othrysio, Fabiane, Antonius Orpheo
Hoc differt: homines hic trahit, ille feras [4].
Perché mai un semplice canterino avrebbe ricoperto un ruolo tanto notevole nell’opera del Poliziano, maggiore strumento di propaganda medicea? Evidentemente l’autore di Dormi Giustinano e non aprire, per meritarsi le lodi del Poliziano, già prima si era guadagnate quelle di Lorenzo.
Nel corpus delle sue rime, Antonio di Guido ci lascia un sonetto chiarificatore del suo avvicinamento ai Medici, finalizzato alla risoluzione di problemi familiari, come già fece l’Alberti. Secondo quanto racconta Francesco Flamini, l’autore inviò un sonetto ad Antonio di Fronte, rispettabile cittadino fiorentino vicino all’ambiente mediceo, in cui mise in chiaro le sue ristrettezze economiche. Infatti così scriveva:
Anton di Fronte, io, vostro servidore,
che mi trovai con voi in cittadella,
con quella víoletta buona e bella,
benché non consonasse il sonatore,
per dio, vi priego con supremo amore
che quel che ha per donna mia sorella,
con la brigata ignuda e poverella,
sia ricordato al vostro alto valore.
Lapin d'Andrea, barbier che sta agli Spini,
di ventina ha diciassette soldi e due,
e fugli posta in su quatro bambini,
che mai simil peccato al mondo fue.
Per dio, ponete a lui venti quatrini,
ché per mia fé e’ non ne merta piùe [5].
Non potendo provvedere personalmente all’aiuto della sorella data in sposa a Lapin d’Andrea, Antonio di Guido chiese il supporto di Antonio di Fronte e, come emerge da alcune lettere, era molto in confidenza con Giovanni di Cosimo.
Altra possibile vicinanza alla cerchia medicea per il canterino poteva essere rappresentata dal rapporto di stima con Feo Belcari. Questi infatti fu per moltissimo tempo sotto le grazie di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico. Il mediatore che permise a Belcari una profonda stima nella figura di una nobildonna così potente nella letteratura dell’epoca è rappresentato dall’amore per la poesia religiosa. Era noto, infatti, che Lucrezia, oltre a privilegiare la letteratura cavalleresca (non a caso è la dedicataria del Morgante di Luigi Pulci) si dilettava nel comporre rime di argomento sacro. Pezzarossa, con la sua edizione critica delle rime della Tornabuoni, ricalca molte analogie stilistiche con l’Ordo prophetarum di Feo Belcari: ciò, naturalmente, lascia presupporre quanto fosse stretto il rapporto letterario fra i due. La Tornabuoni, inoltre, esercitò il suo potere civile per molto tempo in Firenze, specialmente attraverso l’organizzazione di rappresentazioni sacre. Nel 1473 istituì delle messe in scena di argomenti tratti dalle Scritture in onore del passaggio di Eleonora d’Aragona che stava per andare in sposa ad Ercole d’Este. L’evento inoltre coincideva perfettamente con i festeggiamenti patronali di S. Giovanni Battista. Questa data è una delle poche ricordate che mettono in luce la situazione politico-culturale pianificata e messa in atto dalla Tornabuoni fino al fatidico 26 aprile 1478, giorno in cui i congiurati della famiglia dei Pazzi assassinarono nella cattedrale di Santa Maria del Fiore suo figlio Giuliano. Il clima funesto e l’imminente guerra con il re di Napoli posero definitivamente fine al ruolo di mecenate della moglie di Piero dei Medici. Pochi anni dopo, nel 1482, Lucrezia si spegneva.
Non sappiamo se Antonio di Guido avesse letto qualcosa della Tornabuoni. Infatti la produzione della madre del Magnifico non andò oltre la cerchia cortigiana e familiare. Lo stesso Poliziano lo lascia intendere in una lettera scritta da Fiesole e datata 18 luglio 1479, in cui riporta che i nipoti avevano molto apprezzato le poesie mandate in precedenza dalla nonna. Pezzarossa evidenzia un interessamento della Tornabuoni per i cantori di San Martino e, considerando anche le lodi proferite dal Poliziano nei confronti del nostro autore, è veramente improbabile che non lo conoscesse. A questo punto, dopo aver messo in luce i rapporti di stima tra Belcari, Antonio di Guido e Lucrezia Tornabuoni, potremmo anche ipotizzare che qualche lauda composta dal canterino di San Martino sia stata recitata durante gli avvenimenti religiosi di Lucrezia. È possibile che Feo Belcari rappresentasse il mediatore per entrare nelle grazie dei Medici dal punto di vista culturale. Analogamente Antonio di Fronte venne chiamato in causa, attraverso il sonetto indicato in precedenza, per chiedere un sostegno economico a Giovanni di Cosimo.
Alessandra Pappaterra
[1] Cfr. Mario Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento. Il filtro degli anni Sessanta, Firenze, Le lettere, 1996, pp. 7-50.
[2] Tutte le fonti in nostro possesso sul suo conto hanno come incipit il 1437, anno del suo esordio come cantastorie presso la piazza di San Martino, quando giovanissimo (si ipotizza che fosse più o meno ventenne) iniziò ad intonare versi seguito dal maestro Niccolò Cieco d’Arezzo. All’epoca San Martino era nota proprio grazie alle improvvisazioni dei cantastorie, detti secondo il gergo dell’epoca canta in pancha, che solevano intrattenere il pubblico nelle piazze declamando versi di denuncia morale, le cosiddette “cantilene morali”, ma si interessavano anche di argomenti di contenuto religioso, profano, epico e quant’altro.
[3] Si tratta del XXIII componimento della raccolta di epigrammi latini.
[4] Cfr. Angelo Poliziano, Prose volgari inedite e poesie latine e greche, edite e inedite, a cura di Isidoro Del Lungo, Firenze, Giunti-Barbera, 1867, p. 121.
[5] I versi sono riportati da Francesco Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, ristampa anastatica dell’ed. di Pisa, Nistri, 1891, Firenze, Le Lettere, 1977, pp. 185-187.
Bibliografia
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(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 90, febbraio 2015)