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Anno VIII, 85, settembre 2014
Dal degrado
alla rinascita
di Giuseppe Licandro
I mali del Sud
e i possibili rimedi.
Da Città del sole
Nel 2013, secondo i dati forniti dall’Istat, la Calabria è stata la penultima regione italiana nella classifica relativa al Prodotto interno lordo, con un calo del 3,2% rispetto all’anno precedente.
Tutti i settori economici calabresi sono risultati in affanno e la disoccupazione ha toccato il 22%, con punte assai elevate tra i giovani e le donne. Nell’ultimo decennio è ripresa intensamente anche l’emigrazione, ma ad allontanarsi dal territorio calabrese oggi non sono più i braccianti, bensì i diplomati e i laureati, che si trasferiscono all’estero in cerca di gratificazioni negate loro in patria.
Un’interessante analisi sull’attuale situazione della regione è contenuta nel saggio Una vil razza dannata? Riflessioni sulla Calabria e i calabresi (Città del sole edizioni, pp. 232, € 15,00), scritto a quattro mani dai giornalisti Aldo Varano e Filippo Veltri.
Il volume trae spunto da un numero speciale, dedicato alla Calabria, de Il Ponte, la rivista di politica e letteratura fondata da Pietro Calamandrei, che nel 1950 volle focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sulla realtà calabrese, scossa nel Secondo dopoguerra dalle lotte contadine in favore della riforma agraria.
Il saggio di Varano e Veltri si divide in due parti: nella prima, gli autori ragionano sulle cause del degrado politico e sociale della Calabria odierna formulando alcune proposte per superare l’attuale fase di stallo; la seconda propone la ristampa anastatica del numero 9-10, settembre-ottobre 1950, della rivista Il Ponte, contenente vari articoli sulla storia calabrese vergati da autorevoli scrittori e politici dell’epoca.
Genesi ed evoluzione della ’ndrangheta
I due giornalisti, interrogandosi sul perché la Calabria «continua ad essere in fondo alle classifiche dell’economia, della crescita, del vivere civile e sempre prima nelle classifiche dei primati negativi», evitano comode giustificazioni o atteggiamenti vittimistici, pur contestando chi ne spiega il degrado con motivazioni puramente etnologiche, riconducibili all’indolenza e alla sottocultura degli abitanti, bollati semplicisticamente come una «vil razza dannata».
L’attenzione degli autori si sofferma sulla piaga della criminalità organizzata, che da lungo tempo condiziona la collettività della regione, riportando le testimonianze di due noti scrittori, Corrado Alvaro e Mimmo Gangemi, i quali documentano il consenso popolare di cui beneficiò in passato l’“Onorata società”.
Alvaro, in un articolo pubblicato nel 1955 sul Corriere della sera, ricorda che, durante un soggiorno a San Luca negli anni Trenta, la madre gli aveva comunicato con compiacimento che il padre era andato a una riunione della “Fibbia” (altro nome con cui s’indicava un tempo la ’ndrangheta); Gangemi, in una conferenza svoltasi a Reggio Calabria nel 2013, ha confessato di aver nutrito da bambino «un’altissima considerazione» per il “capobastone” di Santa Cristina d’Aspromonte.
Tali dichiarazioni offrono lo spunto ai due giornalisti per una breve digressione sulle origini della ’ndrangheta: secondo quanto sostenuto da Eric Hobsbawm nel saggio I ribelli (Einaudi, 1974), essa sarebbe nata come «associazione di mutuo soccorso tra persone che volevano difendersi dal potere feudale, statale o poliziesco», rientrando quindi tra le «forme primitive di rivolta sociale».
Rispetto alla mafia siciliana, quella calabrese ha conservato più a lungo «il proprio carattere d’organizzazione popolare di autodifesa», anche se poi ha creato «un sistema di estorsione organizzata e di nuclei locali di potere», trasformandosi in una tra le più sanguinarie associazioni per delinquere del mondo, dedita agli affari più loschi e redditizi (appalti, spaccio di droga, sequestri di persona, traffico di armi, smaltimento illegale di scorie tossiche, ecc.).
L’immagine distorta dei calabresi
Un insidioso travisamento dei connotati degli abitanti della Calabria è stato compiuto nel 1992 dal giornalista piemontese Giorgio Bocca, che con L’Inferno (Mondadori), un saggio antimeridionalistico dal sapore “leghista”, ha contribuito a cristallizzare la rappresentazione stereotipata «del calabrese come inguaribile delinquente e mafioso».
Insieme alle frequenti operazioni di polizia contro la ’ndrangheta e alla strage di Duisburg del 2007 (in cui furono uccisi sei esponenti della cosca dei Pelle-Vottari di San Luca), il libro di Bocca ha contribuito a proiettare sulla regione una luce sinistra, alimentando forti pregiudizi nei confronti dell’“uomo calabrese”, spesso classificato nel resto della penisola come un soggetto da temere e da evitare perché «violento, armato, vendicativo».
Questa fittizia rappresentazione affiorò già a metà degli anni Settanta, sull’onda dei rapimenti compiuti in tutta Italia dall’“Anonima sequestri” che aveva la sua base operativa in Aspromonte, e successivamente si sedimentò nel corso della seconda guerra tra le cosche mafiose che sconvolse Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, provocando oltre un migliaio di morti.
Anche la stampa locale ha contribuito, talvolta, a mistificare l’immagine dei calabresi, enfatizzando le gesta dei criminali o addirittura costruendo ad arte qualche efferato crimine, come nel caso della “testa mozzata” che, secondo una ricostruzione giornalistica rivelatasi poi infondata, sarebbe stata presa a fucilate da due feroci killer a Taurianova nel maggio 1991, in una sorta di macabra riedizione dei film western.
Le “zone grigie” e il boom della droga
Varano e Veltri individuano le cause della decadenza del tessuto sociale calabrese in tre fattori prevalenti, che consentono di capire perché la malavita vi abbia attecchito così profondamente: il basso livello della classe politica, l’inconsistenza degli intellettuali e della “società civile”, l’esistenza di una “zona grigia” collusa coi clan mafiosi.
In primo luogo, si nota come la classe dirigente calabrese risulti coinvolta in frequenti scandali, inducendo molti osservatori a individuare «proprio nella cattiva politica il principale dei mali di questa regione». Si riscontra, poi, una diffusa disaffezione per il degrado calabrese nell’opinione pubblica e negli intellettuali locali, non più in grado – come in passato – di «prendere […] in mano una bandiera di discussione unitaria e alta». Si evidenzia, infine, come sia cresciuta la “zona grigia”, ossia «un mondo fatto di faccendieri, professionisti, avvocati, imprenditori che sono all’apparenza puliti e insospettabili ma che poi si scopre che esistono solo in funzione del malaffare».
La ’ndrangheta ha assunto un ruolo rilevante all’interno del sistema criminale globale, specializzandosi nella produzione e nello spaccio di alcuni tipi di droga, in particolare della marijuana. Infatti, nell’agosto 2013, «in Calabria sono state sequestrate […] 12 volte più piante di marijuana rispetto alla Lombardia; il doppio della Campania; una volta e mezzo della Sicilia».
Le retate dei carabinieri hanno portato all’arresto non solo di criminali incalliti, ma anche di «contadini, braccianti esperti, giovanotti senza lavoro, sorelle che danno una mano».
L’economia illegale si allarga sempre più, coinvolgendo strati sociali un tempo estranei alla malavita, che sbarcano il lunario coltivando, per conto delle cosche, le piantagioni di Cannabis, soprattutto in Aspromonte, mentre stentano a decollare i progetti per rendere più produttiva l’agricoltura regolare. Tempo fa, ad esempio, l’ex vescovo di Locri-Gerace Giancarlo Bregantini ha creato delle cooperative agricole nel territorio aspromontano, ma queste aziende, sistematicamente infiltrate da personaggi in odore di ’ndrangheta, sono state poi sciolte.
Dall’emigrazione allo sviluppo di un’economia sana
Le responsabilità della cronica decadenza calabrese, però, non possono essere accollate solo alla ’ndrangheta, perché hanno inciso anche altri fattori, principalmente «l’inefficienza delle istituzioni, la povertà di infrastrutture e servizi, una classe politico-amministrativa mai decisamente orientata in direzione dello sviluppo, una burocrazia incapace e servile coi potenti, l’ostilità e l’umiliazione del merito ovunque apparisse».
In una situazione del genere, molti calabresi scelgono di andare via dalla loro terra. Secondo l’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero, nel 2012 la Calabria è stata la decima regione italiana più interessata dal fenomeno dell’emigrazione con 4.813 partenze; facendo però la proporzione tra il numero di emigranti e la popolazione residente nelle varie regioni, essa schizza «al primo posto in meravigliosa solitudine».
Varano e Veltri ritengono che, nonostante tutto, possa ancora svilupparsi in Calabria un’economia sana e sostenibile e concludono la prima parte del volume con una nota di speranza, narrando la bella storia di Domenico Cristofaro, fondatore della Ecoplan Srl, un’azienda manifatturiera della Piana di Gioia Tauro che si è specializzata nel trattamento della plastica riciclata con la sansa esausta delle olive (prodotto di scarto della produzione olearia), «consentendo così una riduzione del quantitativo di materia plastica ed aumentando nel contempo le caratteristiche del materiale ottenuto».
Le riflessioni di Corrado Alvaro sulla Calabria
Tra gli articoli pubblicati sul numero speciale de Il Ponte dedicato alla Calabria (cui collaborarono, tra gli altri, Giuseppe Berto, Gaetano Cingari, Fausto Gullo, Giuseppe Isnardi, Mario La Cava, Pietro Mancini, Leonida Repaci, Manlio Rossi-Doria, Umberto Zanotti-Bianco), vorremmo soffermarci in particolare sul saggio di Corrado Alvaro, L’animo del calabrese.
Lo scrittore sanluchese analizza con sagacia il carattere dei suoi corregionali, indicandone quali tratti comuni «l’aria riservata, diffidente, riflessiva e insieme timida», e opera una precisa distinzione tra due tipi di calabresi, che risiedono in aree limitrofe della regione: «quella che va da Squillace alla punta meridionale della penisola, e quella che da Squillace va ai confini settentrionali della regione».
Gli abitanti della “Calabria meridionale”, entrata in relazione più tardi col mondo romano, parlano dialetti influenzati sia dal greco antico, sia dal latino volgare e si presentano perlopiù «ospitali sebbene diffidenti degli stranieri, molto stimanti di sé, inclini alle lettere […] e con un culto estremo e pedissequo del passato, sensuali, pronti d’ingegno e adattabili».
Gli abitanti della «Calabria italica», entrata in contatto prima degli altri con la lingua e la cultura romana, possiedono «una familiarità e semplicità e sobrietà, una acutezza e penetrazione a servizio d’uno spirito di ricerca, un senso della natura e della vita senza idoleggiamenti» e appaiono «seri e riflessivi e d’ingegno acuto e positivo».
Alvaro ricostruisce poi l’evoluzione economico-sociale della realtà calabrese dopo l’Unità d’Italia, concludendo la sua analisi con la dolente constatazione che, all’inizio degli anni Cinquanta, la situazione complessiva della regione è peggiorata, al punto che «visitando la Calabria, fa impressione il grado di denutrizione dei ragazzi e degli animali amici dell’uomo».
L’unica nota positiva viene individuata nella caparbietà con cui i calabresi, nel Secondo dopoguerra, hanno cercato di elevarsi socialmente, «avviando i figli, con sacrifici inenarrabili, alle professioni liberali e agli impieghi».
Questa tendenza, a ben vedere, ha permeato anche in seguito la regione, permettendole di affrancarsi dalla miseria atavica, salvo poi ricadere in una nuova forma di degrado, prodotta dal malaffare e dalla cattiva amministrazione dei servizi pubblici.
Giuseppe Licandro
(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 85, settembre 2014)
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