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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 7 - Marzo 2008

Zoom immagine Bande sovversive:
una nuova classe
di violenti criminali

di Martina Chessari
La strategia del generale dalla Chiesa
come modello investigativo da imitare,
in una saggio delle Edizioni Associate


La criminalità organizzata rappresenta un fenomeno complesso e difficilmente classificabile per il fatto che si tratta di un tipo di violenza che, pur professando di impugnare le armi in nome di alti ideali di giustizia, spesso nasconde invece logiche perverse e falsi valori.  Si pensi ad esempio all’organizzazione terroristica delle Brigate rosse che, fino a quasi trent’anni fa minacciava seriamente l’equilibrio e la sicurezza sociale dell’Italia: la lotta contro quel tipo di attività eversiva fu un esempio di approccio ad una delinquenza totalmente sconosciuta fino ad allora e che dunque, per essere sconfitta necessitava prima di uno studio attento dell’avversario così come di una rigorosa analisi culturale e sociale del contesto in cui divampava il fenomeno.

In questo senso, il libro La strategia vincente del generale dalla Chiesa contro le Brigate Rosse e la mafia (Prefazione di Nando dalla Chiesa, Edizioni Associate, pp.192, € 13,00), di Gianremo Armeni, rappresenta un importante contributo per capire a fondo cosa si nascondeva realmente dietro i fenomeni di violenza organizzata che colpirono l’Italia negli anni Settanta.

Si tratta di un dettagliato studio di ricerca sul metodo d’investigazione introdotto dal generale dell’Arma dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, figura determinante e attivamente coinvolta nelle battaglie contro la criminalità organizzata di quegli anni: le Brigate rosse prima e la mafia successivamente.

Attraverso una raccolta di testimonianze di figure dell’epoca impegnate o coinvolte nella lotta al terrorismo (magistrati, generali dei carabinieri, infiltrati, pentiti, nonché l’ex ministro degli Interni Virginio Rognoni), l’autore ricostruisce tutto il periodo che va dal 1974 (anno in cui fu istituito il primo corpo specializzato anticrimine contro il fenomeno Brigate rosse che iniziava a divampare) fino al 1982 (anno in cui il generale venne ucciso a Palermo dalla mafia siciliana), ripercorrendo tutte le fasi salienti dell’attività svolta dalla struttura antiterroristica.

Armeni descrive con minuzia e precisione la grandezza del fenomeno in cui si trovò coinvolta l’Italia di quegli anni, l’alto livello dell’organizzazione eversiva con cui si ritrovò a combattere nonché l’acquisita consapevolezza di dover adottare un metodo d’investigazione totalmente nuovo, adatto alla pericolosità della struttura criminale e che mirasse ad attaccare le Brigate rosse sia da un punto di vista pratico sia psicologico.

 

Il metodo investigativo contro le Brigate rosse

L’autore, nel corso di tutta l’opera, pone in particolare rilievo l’innovazione e l’efficacia del metodo investigativo che introdusse il generale dalla Chiesa, senza il quale i risultati che si ottennero non sarebbero stati così determinanti e tempestivi.

Inoltre, il valore e la grandezza del nuovo modo di condurre le indagini aumentano se si pensa che in quell’epoca non si avevano a disposizione tutti i mezzi tecnologici e scientifici di oggi.

Dichiara Armeni con fermezza che «col generale Carlo Alberto dalla Chiesa si assiste ad un nuovo approccio culturale-operativo nella conduzione delle attività investigative di Polizia Giudiziaria contro i fenomeni criminali complessi, ad una concezione filosofica di contrasto rivoluzionaria rispetto ai metodi classici. Le nuove metodologie rappresentarono uno strumento di lotta al crimine organizzato le cui fondamenta […] costituiscono l’ossatura per il detective del Duemila».

La grande intuizione del generale dalla Chiesa fu, innanzitutto, quella di vedere un filo conduttore tra tutti gli attentati e atti terroristici che iniziarono a verificarsi al principio degli anni Settanta in Italia.

Dalla Chiesa capì che si trovava di fronte a un nuovo tipo di criminalità organizzata, la cui matrice andava oltre i singoli attacchi; per questo era fondamentale non solo un rinnovamento delle tecniche investigative ma anche un nuovo approccio culturale che permettesse di capire qual era l’obbiettivo finale del nemico.

Fu proprio nell’individuazione degli elementi comuni che legavano crimini apparentemente separati che si fecero grossi passi avanti nelle indagini, riuscendo a scoprire e a smantellare successivamente l’ambizioso progetto finale delle Brigate rosse: abbattere lo stato borghese con le armi.

Ogni reato, che prima veniva esaminato dalla magistratura come un fenomeno individuale, divenne un tassello importante ed essenziale per arrivare alla radice più profonda del fenomeno e poterlo colpire; inoltre, conoscere accuratamente il nemico era estremamente importante per poterlo annientare in modo efficace e definitivo. La capacità e la tempestività con cui la rete terroristica si riorganizzava per tornare a colpire era sorprendente nonché indice della complessità di quanto stava accadendo.

Leggiamo quanto segue: «Il generale dalla Chiesa scopre che i primi progetti di una lotta armata hanno preso forma sui banchi dell’Università di Trento. La facoltà di sociologia, voluta dal democristiano Bruno Kessler, si è rivelata un’incubatrice di fenomeni eversivi. Doveva essere un tempio della borghesia capitalista (“uno strumento per la formazione della nuova classe dirigente”), ma divenne presto un focolaio di rivolta contro quegli stessi ambienti che ne avevano patrocinato la nascita».

Dalle dichiarazioni riportate si evince chiaramente che le Brigate rosse, oltre che dai vari nuclei operativi (nel loro linguaggio in codice venivano chiamati “colonne”) sparsi in tutto il territorio nazionale, erano appoggiati ideologicamente anche da una imponente fascia sociale (intellettuali, studenti, professori, industriali, giornalisti) che forniva loro un importante supporto morale e spesso anche logistico, rendendo così l’azione di contrasto estremamente complicata. Inoltre le difficoltà aumentavano anche perché la banda terroristica si muoveva in una clandestinità impenetrabile (il brigatista si camuffava scrupolosamente dietro la figura dell’italiano medio per non destare il benché minimo sospetto, osservava infinite norme di precauzione e segretezza), era versatile, imprevedibile negli attacchi e organizzata militarmente a livelli altissimi, paragonabili alle strutture di guerriglia dei clan sudamericani.

Una volta presa coscienza della reale pericolosità della minaccia eversiva che divampava, fu istituito nel 1974 a Torino il primo corpo speciale anticrimine di Polizia giudiziaria, il cui comando venne affidato al generale dalla Chiesa, che si era già distinto per il suo valore nella lotta contro la mafia siciliana.

Il metodo investigativo, unito anche al valore degli uomini che lavoravano al fianco del generale, risultò vincente e alla fine di quell’anno si ottennero risultati

sorprendenti quali lo smantellamento di alcuni importanti covi di brigatisti e l’arresto dei “capi storici” Renato Curcio e Alberto Franceschini.

Erroneamente, a fronte degli eccellenti risultati ottenuti da dalla Chiesa e dai suoi uomini, le istituzioni ritennero che il “caso Brigate rosse” fosse definitivamente concluso e si scelse, spiega Armeni, «lo scioglimento del nucleo speciale di P.G di Torino. Il risultato fu una sorta di decentramento presso i comandi di Divisione dell’Arma dei Carabinieri dove vennero costituite tre Sezioni speciali anticrimine con sede a Milano, Roma e Napoli».

 

La riorganizzazione brigatista e i successi del secondo comando

Lo scioglimento del nucleo speciale di Polizia giudiziaria di Torino, nel 1975, fu un imperdonabile sbaglio perché, al contrario di quanto si era creduto, le Brigate rosse si riorganizzarono a pieno, formarono nuovi nuclei operativi e ritornarono a colpire in una forma sempre più violenta che generò panico e sgomento sociale.

Bisognerà aspettare il 1978, dopo l’uccisione dell’onorevole Moro, per vedere dalla Chiesa nuovamente al vertice di un altro comando speciale antiterroristico.

La struttura operativa che venne creata presentava caratteristiche ancora più innovative rispetto alla precedente: si muoveva liberamente su tutto il territorio nazionale ed inoltre venne potenziata sia da un punto di vista numerico («circa 120 uomini appartenenti alle varie forze dell’ordine») sia da un punto di vista qualitativo («una struttura interforze dotata di intervento rapido e intelligence»).

Anche l’utilizzo di infiltrati all’interno delle organizzazioni terroristiche, così come la verifica maniacale dell’attendibilità delle fonti d’informazione, le attività di pedinamento minuzioso di persone ritenute appartenenti o comunque collegate ai gruppi eversivi, agevolarono la capacità di analisi e di razionalizzazione del processo informativo.

Un altro fattore di notevole importanza fu la grande agilità e flessibilità di cui godette la struttura, grazie al fatto che dalla Chiesa poteva comunicare direttamente con il ministro degli Interni (Rognoni) senza vincoli con la magistratura e ciò velocizzava sensibilmente i tempi d’azione e la tempestività degli interventi.

La sconfitta definitiva dell’organizzazione terroristica fu frutto di un intenso lavoro di squadra tra le istituzioni, la magistratura e i corpi speciali anticrimine: questo fu indiscutibilmente un fattore essenziale che determinò l’efficacia dei risultati.

Non va inoltre dimenticato che, nella fase finale delle indagini, numerosi brigatisti, non identificandosi più nell’ideologia delle Brigate rosse e rifiutando decisamente la natura eversiva della banda, iniziarono a collaborare con la giustizia, agevolando così notevolmente il lavoro della struttura anticrimine.

Ad ogni modo, il valore individuale del generale dalla Chiesa fu grandissimo.

Il suo operare, frutto anche del suo coraggio e di un forte carisma che coinvolgeva tutti coloro che gli stavano accanto, ha aperto le porte ad un nuovo modo di condurre le indagini, tanto da poter affermare che da essa dipendono tutte le strategie investigative che vengono utilizzate attualmente.

La sua fermezza e la sua determinazione nella lotta al terrorismo non vanno dimenticate, soprattutto oggi, perché rappresentano un esempio e una possibilità viva per sconfiggere la mafia e tutti coloro che oppongono le armi al libero vivere di ogni società civile.

 

Martina Chessari

 

(www.bottegascriptamanent.it,  anno II, n. 7, Marzo 2008)
Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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