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Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno VIII, n 83, luglio 2014
Federico di Svevia:
lo stupor mundi
tra luci e ombre
di Guglielmo Colombero
Da Rubbettino, un saggio storico
sul sovrano e sulla Sicilia medievale
«Di quest’uomo singolare non rimane pertanto solo la memoria storica, ma fattori fondamentali della moderna vita nazionale, come l’Università di Napoli, la lingua siciliana, creata dalla scuola poetica, e la lingua italiana, che derivò dalla siciliana». Così è definita la figura di Federico II, stupor mundi, nipote del Barbarossa e figlio di Costanza d’Altavilla, imperatore della casa di Svevia e re di Sicilia dal 1198, quando ancora bambino fu incoronato a Palermo, fino alla morte avvenuta nel 1250, nell’Introduzione al saggio Federico II e la Sicilia (Rubbettino, pp. 224, € 15,00), l’ultima fatica letteraria di Francesco Renda. L’autore, scomparso l’anno scorso, sarà ricordato come uno dei più insigni storici della Sicilia. Era nato nel 1922 a Cattolica Eraclea: iscritto giovanissimo al Pci, sindacalista della Cgil, avrebbe dovuto essere uno degli oratori del 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra, ma un guasto alla moto lo fece arrivare in ritardo, quando l’orrenda strage era già avvenuta. Senatore della Repubblica nella quinta legislatura, e in seguito titolare della cattedra di Storia moderna alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo, Renda ha dedicato alla Sicilia, nell’arco di mezzo secolo di studi approfonditi, una ventina di volumi fra i quali ricordiamo I fasci siciliani (1892-1894), Einaudi, 1977; La fine del giudaismo siciliano. Ebrei marrani e inquisizione spagnola prima, durante e dopo la cacciata del 1492, Sellerio, 1992; L’inquisizione in Sicilia. I fatti. Le persone, Sellerio, 1997; Storia della mafia, Vittorietti, 1998; Salvatore Giuliano. Una biografia storica, Sellerio, 2002; Storia della Sicilia dalle origini a giorni nostri, Sellerio, 2003.
Gli anni della formazione: un giovane principe autodidatta
«Dal re si facevano venire a Palermo studiosi di ogni paese del mondo con l’incarico di tradurre in latino, dal greco antico, dall’arabo e dall’ebraico, trattati di filosofia, di geografia, di storia, di matematica, di retorica, di astronomia, di scienze mediche e naturali. Tutto quel sapere era pane per la sua anima e il burbero tedesco diventava così un fervido normanno». Il substrato culturale assimilato in gioventù da Federico costituisce un humus incredibilmente fertile: sottolinea Renda che «aprì la sua mente a insoliti orizzonti del sapere». Affascinato dalla musica e dalle danze di ispirazione provenzale, il “fanciullo di Puglia” si fa valere anche come signore della guerra medievale: il 27 luglio 1214, sul campo di battaglia di Bouvines, ottiene la corona imperiale a spese dello scomunicato Ottone di Brunswick. Ha solo vent’anni, e già impugna lo scettro che fu di Carlo Magno.
La rivolta degli arabi siciliani scatena la collera di Federico
Nel 1220, l’intera «parte dell’isola che stava a occidente della capitale era in mano agli arabi ribelli». Fino al 1245, in un sanguinoso conflitto ventennale, la repressione decretata da Federico fu implacabile: l’emiro Ibn Abbad, che si era arreso e sottomesso, fu preso a calci dal re mentre era piegato in ginocchio, e in seguito impiccato insieme ai due figli. Con il passare degli anni, questi raptus di crudeltà del giovane imperatore si resero sempre più frequenti, fino a degenerare in un bieco sadismo, più consono a un despota orientale che a un monarca cristiano. Quella perpetrata contro gli arabi di Sicilia fu una “pulizia etnica” in piena regola. Narra Renda che si trattò di un evento «unico nel mondo occidentale non solo nel secolo XIII ma anche nei secoli seguenti. Tradotto in termini odierni, fu come se la popolazione siciliana dei suoi sei milioni di abitanti ne subisse lo sterminio di due milioni». Circa ventimila arabi superstiti furono deportati a Lucera, in Puglia. Renda individua gli scopi di questo editto imperiale: «Eliminare dal territorio siciliano l’etnia islamica malvista perché diversa per costumi e per credo religioso», e inoltre «determinare una mutazione esistenziale nella popolazione trasferita a forza in luoghi alieni e costretta a inventarsi un nuovo modo di vivere».
Inizia il duello mortale fra Impero e Papato
Renda ipotizza che «l’aspirazione di Federico era il consolidamento di un assolutismo statuario in cui ogni aspetto istituzionale doveva ricadere sotto il suo controllo». Il clero siciliano, fedele al pontefice romano, ostacola il suo disegno, e scatena efferate rappresaglie: «Federico era solito affermare che aveva sempre adoperato il coltello e il ferro rovente sia per uccidere che per cauterizzare ferite e mali. Dichiarò che lo stesso sistema avrebbe adoperato anche per l’epurazione del clero siculo». Il conflitto s’inasprisce con l’avvento al soglio di Pietro di Gregorio IX, il quale il 27 novembre 1227 scaglia la scomunica contro l’imperatore. Le sorti iniziali della lotta sono a favore di Federico: nel 1231, con la promulgazione delle costituzioni melfitane, l’imperatore «si proclamò di pari dignità del papa e persino infallibile come il papa. Aveva infatti la convinzione profonda, quasi morbosa, di essere lo strumento della Provvidenza, l’eletto, l’unto del Signore. L’Impero per lui era il mondo. Come Dio governava il mondo, così l’imperatore governava l’Impero». Dal punto di vista legislativo, Federico impone un principio di obbedienza assoluta che, sotto molti aspetti, anticipa di sette secoli la dottrina totalitaria del Terzo Reich: la legge federiciana considera «sacrilegio punibile con la morte anche il semplice dissentire dagli atti compiuti dal sovrano». Nel Regno di Sicilia, qualsiasi aspirazione autonomista dei comuni è considerata crimine di lesa maestà: «Le città che avessero creato potestà, consoli o rettori sarebbero state distrutte dalle fondamenta, gli abitanti ridotti in perpetua schiavitù e coloro che avessero esercitato quell’ufficio condannati alla forca».
Un despota illuminato che vuole egemonizzare la cultura
Nonostante la brutale persecuzione di qualsiasi dissenso, Federico alimenta un clima di fervore che trasforma la Sicilia in una specie di nuova Atene, la sua corte diventa «un centro di produzione culturale con studiosi che traducevano dall’arabo e dall’ebraico e gli amanuensi che facevano copie delle preziose traduzioni poi inviate a Napoli, Pavia, Bologna e Parigi con la dedica dello stesso imperatore». Il flusso di scambi interculturali promosso dall’imperatore è incessante, e si ramifica in ogni direzione: da «Foggia e dall’Università di Napoli Federico ebbe rapporti molteplici con gli intellettuali sia del mondo europeo che del mondo islamico. La sua attività lo fece definire dal cronista inglese Matteo de Paris splendor mundi et immutator mirabilis». La scuola poetica siciliana rappresenta il punto culminante del mecenatismo di Federico: afferma Renda che «si debba a Federico II e al suo dispotismo illustre se in Sicilia, insieme alla lingua letteraria italiana, si sia avuta nel corso dei secoli anche una lingua letteraria siciliana, segno che il suo valore linguistico e poetico non era da sottovalutare». Audace sperimentatore anche su questo versante, una volta scoperto «il criterio linguistico dei trovatori e dei minnesanger o meglio, compresa la funzione della poesia, Federico ebbe l’idea di promuovere nel Regno (e non solo nel Regno) un analogo fenomeno, ossia produrre poesia in volgare e con essa creare le basi di una lingua siciliana».
Il tramonto di Federico, fra odio, terrore e tradimenti
L’ultimo ventennio di regno di Federico assomiglia a una tragedia elisabettiana, in cui al fallimento del suo disegno politico e culturale si mescola un declino dinastico sempre più torbido e malsano. Enrico, il figlio ribelle, viene graziato ma sottoposto a umiliazioni così tremende da uscirne distrutto: «Quando, trascorsi sei anni di prigionia, seppe di dover mutare ancora una vola di carcere, mentre lo trasportavano al nuovo luogo di pena, mise fine alla sua vita buttandosi con il cavallo in un burrone». Durante la Domenica delle Palme del 1239, piomba sul capo di Federico la seconda scomunica da parte di papa Gregorio IX e s’inaugura così la fase più cruenta del conflitto fra guelfi e ghibellini. Renda descrive efficacemente la spietata militarizzazione della Sicilia: da quella terra «Federico voleva quanto più possibile: denaro, armi, prodotti alimentari e tutto ciò che gli era utile per condurre la guerra». Morto Gregorio IX nel 1241, trascorre quasi un anno prima che venga eletto il nuovo papa, Innocenzo IV, che, a conclusione del Concilio di Lione, il 17 luglio 1245 sentenzia contro Federico la deposizione dal potere temporale in quanto spergiuro, sacrilego ed eretico, e dichiara i suoi sudditi sciolti da ogni giuramento di fedeltà. La reazione dell’imperatore è parossisitica, e Renda la descrive senza mezzi termini: «L’unica soluzione rimasta a Federico fu quella militare e di controllo poliziesco. Nei confronti dei suoi avversari vi furono un numero incalcolabile di punizioni fra le più crudeli e feroci […] la morte sulle forche o sotto la mannaia era la meno feroce. Ma la politica del martello esigeva crudeltà più forti: taglio del naso, delle braccia, delle gambe, trascinamento di cavalli per le strade fino alla morte, accecamento ed evirazione». L’Italia centro-settentrionale insorge contro una tirannide divenuta mostruosa, non passa giorno senza che qualche nuova città aderisca al partito guelfo: «I funzionari imperiali non potevano non tener conto delle denunce ed erano obbligati a perseguire ogni sospetto per strappare una confessione, di solito facendo ricorso alla tortura». I cronisti dell’epoca narrano che, non fidandosi più dei sudditi cristiani, Federico affida il ruolo di torturatori e di carnefici a mercenari saraceni, che come scrive lo storico Ernst Kantorowicz, «non temevano né preti né santi». Un colpo durissimo per l’imperatore è la prigionia del figlio naturale Enzio, sconfitto dai guelfi bolognesi a Fossalta: non riuscirà a riscattarlo. L’anno dopo, mentre partecipa a una battuta di caccia nei boschi della Puglia, Federico viene colto da un tremendo attacco di dissenteria. Muore a Castel Fiorentino, fra le lenzuola lorde di escrementi, il 13 dicembre 1250. In appendice, Renda riporta il testo integrale del suo testamento, in cui persiste la patologica sete di vendetta dell’imperatore contro il partito guelfo: «Parimenti vogliamo e decidiamo che nessuno dei traditori del Regno debba tornare nel Regno in altro tempo, che non possano soccorrere nessuno della loro stirpe e infine che i nostri eredi siano tenuti a far vendetta su di essi». Saranno invece proprio gli eredi di Federico a subire la vendetta degli Angioini: Manfredi sarà ucciso in battaglia a Benevento il 26 febbraio 1266, Corrado finirà decapitato a Napoli il 29 ottobre 1268. Una sorte migliore toccherà ad Enzio, il principe poeta, morto a Bologna il 14 marzo 1272, dopo 23 anni di prigionia allietati da banchetti e compagnie femminili. Così si estinse la dinastia degli Hohenstaufen.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 83, luglio 2014)
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