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Storia (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VIII, n 80, aprile 2014

Zoom immagine Tenaci antifascisti
e contadini ribelli
nel Mezzogiorno

di Guglielmo Colombero
Edito da Città del sole, un saggio
sulle lotte per un anelito di libertà


«La vita dei singoli  e delle diverse comunità intreccia le sue radici attraverso elementi costitutivi fondamentali: libertà, dignità, responsabilità, solidarietà», valori fortemente radicati nelle passate generazioni, che purtroppo le nuove rischiano di disperdere nell’oblio del conformismo qualunquista, nell’erosione continua della memoria storica dell’antifascismo a cui ci tocca assistere quotidianamente da almeno vent’anni. Così il professor Francesco Adornato, preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata nella Presentazione invita alla lettura di Lotte e libertà. Storie di donne e uomini antifascisti (Città del sole, pp. 160, € 12,00) dell’autore Giorgio Castella, originario di Maropati, nella Piana di Gioia Tauro. Con salde radici contadine, emigrato a Milano negli anni Sessanta, ha maturato significative esperienze come sindacalista e amministratore pubblico. Ha già pubblicato Un calabrese a Milano con Teti e La vita di Fortunato Seminara a Pescano con Pellegrini.

 

L’odissea di un deportato nell’inferno dei vivi

Spicca nella prima parte del libro la figura del professor Francesco Ierace, socialista e antifascista, del quale Castella fu allievo nella “scuola dei poveri” di Polistena. Il suo racconto sulla deportazione di tremila soldati italiani rastrellati dopo l’8 settembre, e trasferiti prima a Bjala Podlaska, in Polonia, poi a Sandbostel, infine a Wietzendorf, in Germania, è scarno quanto toccante: «Nell’ultimo periodo, a fiaccarci ulteriormente, intervenne un decreto emanato da Himmler che disponeva per gli internati il “recupero delle eccedenze” di derrate alimentari superiori a quelle dovute». Ierace era uno dei 146 che rifiutarono di aderire alla Rsi di Mussolini. Racconta che quegli anni di prigionia rappresentarono per lui «più dei libri, la mia scuola di vita».

 

Un vecchio antifascista racconta il Ventennio

Rosario, contadino di Maropati, offre una testimonianza preziosa sui fermenti libertari che, nonostante la brutale repressione fascista, rimasero ben vivi nella società contadina calabrese. In seguito alle leggi razziali del 1938, sorse un campo di concentramento a Ferramontio di Tarsia, in una zona paludosa e malarica del cosentino, nella valle del fiume Crati. Era il più esteso d’Italia, vicino alla ferrovia, perimetrato dal filo spinato e con una torretta di guardia: racchiudeva 2.500 internati in un centinaio di baracche. «Il 20 giugno 1940», racconta Rosario, «appena entrato in funzione, giunsero per primi gli ebrei di nazionalità diverse, successivamente i cattolici, infine gli antifascisti italiani». La popolazione di Ferramonti fece di tutto per aiutare gli internati: due mesi dopo la caduta di Mussolini, le truppe britanniche li liberarono. Fra i martiri antifascisti ricordati da Rosario, troviamo una donna, Teresa Talotta, raccoglitrice di olive nativa di Cittanova. Sposa di Girolamo Gullace, segue il marito a Roma, insieme ai cinque figli: lei è in attesa del sesto. Il 26 febbraio 1944 Girolamo viene rastrellato dai tedeschi. «Il 3 marzo, le donne tra cui alcune facenti parte del movimento partigiano, si recarono in massa a chiedere la liberazione dei loro mariti. Teresa, intravedendo il marito, cercò di avvicinarsi per dargli un pezzo di pane e una sigaretta. Di guardia questa volta vi erano i soldati tedeschi dell’Alistato, dato l’attivismo del movimento antifascista nella capitale; incurante del divieto e dell’intimazione del soldato tedesco in stato di allerta, un colpo di pistola partì da quest’ultimo, uccidendo Teresa e il bambino che portava in grembo. Mentre il sangue bagnava la strada, le urla e il pianto delle donne scatenarono una collera popolare così forte che i tedeschi furono costretti a liberare il marito». La fotografia di Teresa, a pagina 56 del libro, ci mostra un volto fiero da contadina, i capelli spartiti sulla fronte, un orecchino che luccica sul lobo, le labbra socchiuse in un mezzo sorriso, gli occhi scuri e profondi che spiccano nella carnagione abbronzata e il colletto candido del sobrio vestito da festa come segno di appartenenza alla civiltà contadina di Calabria. Un’immagine che è l’istantanea di un mondo e di un’epoca.

 

L’umiliazione della pietra per i contadini indebitati

Nella primavera del 1944, è a capo del governo Ferruccio Parri, uno dei padri della Resistenza. È lui a nominare ministro dell’Agricoltura un antifascista calabrese della prima ora, Fausto Gullo, che aveva partecipato alla secessione dell’Aventino dopo il delitto Matteotti. Un decreto firmato da Gullo assegna le terre incolte alle cooperative di contadini, scatenando la reazione bestiale dei latifondisti, in passato accaniti sostenitori del fascismo. Una delle vittime, nell’inverno del 1946, è una donna, Giuditta Levato, colpita a morte a Calabricata dallo sgherro di un agrario quando era incinta di sette mesi. I privilegi feudali dei baroni calabresi non si toccano: scorre il sangue di chi osa metterli in discussione anche nella neonata Repubblica italiana, che quei privilegi avrebbe dovuto spazzare via. Un altro atroce episodio avviene il 29 ottobre 1949 durante l’occupazione delle terre appartenenti al feudo di Fragalà, nel comune di Melissa: mandati dal ministro dell’Interno Mario Scelba, i carabinieri aprono il fuoco sugli occupanti, uccidendo due uomini e una donna.

A proposito del dispotismo feudale dei baroni, ecco la testimonianza di Agostino Papalia, sindacalista contadino di Rosarno: «In Piazza del Popolo, all’inizio di Via Garibaldi, esisteva una pietra di circa un metro di circonferenza a forma di cuore, con incise delle scritture in carattere greco, che nemmeno i signorotti locali sapevano tradurre, tanta era la loro cultura! Questa pietra aveva una funzione precisa. Infatti quando i signorotti prestavano dei soldi ai contadini poveri a scadenza, passato il termine di scadenza, facevano radunare le popolazioni davanti a questa pietra». E ogni debitore insolvente «doveva tirarsi giù i pantaloni davanti al pubblico e doveva dare con il “didietro” 4-5 colpi alla pietra. Tutto il popolo doveva assistere alla scena e questo serviva di monito a tutti coloro che non potevano pagare».

Questo e altri passaggi del racconto di Castella sono densi non solo di memorie ma anche di emozioni, e custodire nelle pagine di un libro il ricordo di chi la lottato per la giustizia sociale e per la libertà, spesso fino all’estremo sacrificio, non può che trasmettere un fremito di gratitudine a chi come chi scrive è nato, e finora vissuto, in un clima di democrazia e di libertà costruito dalle generazioni che lo hanno preceduto.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 80, aprile 2014)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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