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Comunicazione e Sociologia (a cura di Vilma Formigoni) . Anno VIII, n 80, aprile 2014

Zoom immagine Gli strani casi
del call center

di Maria Assunta Carlucci
Da Periferia,
la difficile vita
di un operatore


Uno dei problemi che affliggono la società di oggi è il rapporto che intercorre tra giovani e lavoro: un qualcosa che ha necessità di essere trattato con estrema delicatezza e risolto prima che la società possa incontrare nuovi ostacoli. Tra i numerosi lavoretti ai quali si assoggettano i ragazzi di oggi, uno in particolare sembra essere lo specchio di quello che succede nella nostra epoca: il call center. Rifugio per alcuni, prigione per altri, quasi tutti sono passati per questo luogo tanto conosciuto quanto misterioso per chi si appresta per la prima volta ad entrarvi. Un veterano del mondo dei call center racconta la sua propria esperienza nel corso del tempo, svelando trabocchetti, sotterfugi, pro e contro del lavoro di operatore telefonico. Yes we call. Vita di un operatore call center di Gabriele Fabiani (Edizioni Periferia, pp. 108, € 10,90) non è solo un testo che racconta la vita di una persona qualsiasi che per necessità si appresta ad entrare in questo mondo, ma è soprattutto un saggio che ci insegna a guardare oltre la “prospettiva allettante” dell’avere un lavoro e un po’ di indipendenza.

 

La bella e la bestia

Gabriele Fabiani, oggi, ha 27 anni e ha iniziato la sua storia d’amore (si fa per dire) con i call center quando aveva solo 19 anni. Spinto dalla necessità di non pesare sulle spalle dei genitori e dalla voglia di avere un po’ di indipendenza monetaria, si appresta ad accettare il suo primo lavoro di operatore: corso di formazione, affiancamento, via. L’assistenza clienti o customer care (come si preferisce dire oggi) è un gioco da ragazzi. Dopo aver imparato ad usare il software e superato l’impatto della prima telefonata, si diventa a tutti gli effetti un operatore . Al primo stipendio, tolti sfizi e capricci, si riesce anche a mettere qualcosa da parte: una meraviglia di situazione. Si riesce ad andare al ristorante, a fare il regalino alla fidanzata, a fare un giro in più la sera in macchina perché c’è un po’ più di benzina, ci si compra il cellulare nuovo, il nuovo pc, il jeans o la maglietta che ci piace tanto. Come tutte le cose belle, però, questa situazione di benessere non tarda a trasformarsi in una di quelle che ti tolgono anche il tempo di respirare: si lavora sei giorni su sette, dalle quattro alle otto ore al giorno, con una cuffia o una cornetta, niente straordinario pagato, niente ferie, niente malattia, niente di niente. Il famoso co.co.pro: contratto di collaborazione a progetto. Finito il “progetto”, tutti a casa. Ed è così non solo per gli operatori inbound, ma anche per gli outbound (i promotori che chiamano a casa tutti i giorni, a tutte le ore, per cercare di vendere più pacchetti di offerte possibili), il recupero crediti, il data entry (operatori che vengono impiegati al fine di inserire dati in un programma che permette di indicizzare i clienti). È il contratto che tutte le aziende propongono al giorno d’oggi: «È la “Tratta di velluto” dei nuovi imprenditori, loro guadagnano, noi boccheggiamo». Sì, proprio così, si boccheggia, specie quando si tratta di operatori che vengono pagati a provvigione, perché ti pagano in base ai contratti che fai (sempre se pagano).

 

Un’intera generazione in 100 pagine

Gabriele Fabiani al suo terzo libro decide di raccontare il problema generazionale di tutti i ragazzi che, per necessità, per la voglia di mettersi in gioco, anche solo per avere “soldi in mano”, vogliono e cercano un lavoro. Lavoro che oggi più che mai scarseggia e che quando si trova nel call center alla fine fa passare la voglia di cercarne un altro, visto che la modalità di retribuzione e il tipo di contratto ormai è comune a molte imprese e aziende che cercano personale.

Quello che però ha segnato profondamente Gabriele nel corso degli anni è stato il divenire sempre più consapevole di essere uno schiavo alla mercé di «negrieri» provenienti dal Nord Italia e di scoprire che «La verità è che non vediamo futuro e prendiamo il presente per accondiscendenza, preferiamo oltrepassare quel portone bianco a testa bassa e rinunciare a lottare per ciò che siamo, persone con la voglia di lavorare non di regalare la propria prestazione». C’è in più un’altra cosa che va a sottolineare la condizione di precarietà e difficoltà che tutto il paese vive: le persone incontrate nei vari capannoni usati come uffici non sono solo giovani semplicemente diplomati o laureati con tanto di lode, ma – a volte, soprattutto – uomini di cinquant’anni disperati che hanno perso il loro lavoro e che oggi devono chinare il capo e prendersi quei quattro spiccioli per mandare avanti una famiglia e insieme donne che fino a ieri si occupavano solo delle faccende domestiche, costrette oggi a mettersi in gioco perché non si riesce più a vivere con un solo stipendio in casa.

Una luce in fondo al tunnel però c’è e si chiama Ccnl: Contratto collettivo nazionale di lavoro, un contratto in cui l’operatore viene pagato in base alle ore che lavora, che vengono registrate e corrisposte, cosa che non succede con i co.co.pro.

Gli interrogativi che l’autore pone a se stesso e a tutti alla fine del suo scritto sono gli stessi di chiunque abbia mai avuto la minima esperienza con il contratto dei nuovi precari, dei lavoratori a tempo determinato e che fanno riflettere su quanto le istituzioni di ogni ordine e grado siano veramente attente a quello che succede nel territorio della propria giurisdizione. Un testo che andrebbe proposto come lettura a tutti coloro che pensano di accostarsi al mondo del call center, a quanti vogliono semplicemente saperne di più e a chi ancora non sa come funziona il turnover della generazione dei nuovi precari.

 

Maria Assunta Carlucci

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 80, aprile 2014)

Collaboratori di redazione:
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