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A. XVIII, n. 205, nov. 2024
Gorgona: un modello
di carcere sostenibile
di Federica Lento
Integrazione dei detenuti e riabilitazione ideale.
L’esperienza riportata in un saggio da Nutrimenti
Guardare al di là delle sbarre, sognando «la libertà e […] di andare via» come recita una canzone di Lucio Dalla, trascorrere le giornate in cella senza alcuna occupazione: è quello che accade nella maggioranza delle carceri italiane. Ci si chiede però se un altro carcere sia possibile, se sia utopistico pensare ad un luogo di detenzione in cui vengano rispettate le condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza, i percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale, mantenendo il contatto con la realtà. Carlo Mazzerbo e Gregorio Catalano tentano di rispondere a queste domande nel libro Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto (Nutrimenti, pp. 192, € 16,00), raccontando l’esperienza del carcere di Gorgona, una piccola isola toscana, in mezzo al Tirreno, che si è proposta come un vero e proprio modello di carcere “sano” e che ha reso i detenuti protagonisti attraverso il lavoro, in un contesto, paradossalmente, di libertà. Un testo a quatto mani, in cui Catalano, noto giornalista, con la professionalità della sua scrittura, supporta lo scorrere delle vicende vissute personalmente da Mazzerbo in quanto direttore del penitenziario.
Lo stesso Mazzerbo, nel corso della rassegna “Più libri più liberi” dello scorso dicembre, ha raccontato: «Ho deciso di parlare della mia storia nel carcere di Gorgona quando mi sono stancato di sentire che eravamo l’eccezione, mentre eravamo noi la normalità. Il carcere realizzato sull’isola di Gorgona mi ha permesso di trovare condizioni ottimali di lavoro, in un istituto dal regime meno duro. Di solito nei penitenziari, dopo le sedici c’è la chiusura definitiva e diventano un luogo di sofferenza, mentre lì fino alle ventuno c’è un’atmosfera rilassata. Mi sono reso conto che era una realtà che andava difesa e fatta conoscere. Ero molto determinato poiché mi sembrava un posto che andava valorizzato al massimo. Un detenuto una volta rimase a lavorare fino a tardi, oltre l’orario stabilito, poiché aveva ricevuto la fiducia dalle istituzioni; l’ho abbracciato sinceramente in quanto mi ha fatto vedere i detenuti quali persone in cui avere fiducia. Grazie a una condizione serena ed umana il carcerato non era più oggetto del trattamento, ma soggetto ed artefice, protagonista attivo del suo destino, del cambiamento di vita di cui farlo sentire partecipe attivo. Si tratta di storie di uomini che hanno trovato se stessi poiché trattati nel rispetto umano e hanno imparato a valorizzare ciò che avevano, a fare proprie le opportunità di vita che si davano loro. Se ci legate i piedi come facciamo ad essere noi stessi? Ci domandavano. Ed era vero».
Già in un’intervista al sito www.elbareport.it del 25 ottobre il direttore parlava del suo carcere ideale: «Utopisticamente quello che non esiste, ma realisticamente lo immagino, e lavoro per questo, come un luogo di doveri e di diritti, dove le istituzioni, tutte e non solo quella penitenziaria, si pongono su di un piano di non contrapposizione ma offrono strumenti e percorsi concreti e validi perché ogni utente possa rivedere, coscientemente, il proprio passato e di agire sulla base di valori diversi per costruire un futuro da cittadino».
Storie che “vale la pena raccontare”
L’elenco di storie e suggestioni su cui Ne vale la pena ci spinge a riflettere è molto lungo e avvincente. Partendo dal 1984, sono ripresi dal direttore episodi comici come il piano di evasione sventato a Patti; eventi drammatici, come il suicidio del giovane detenuto Oscar; vicende negative, come quelle del detenuto che scappa senza lasciare alcuna traccia dietro di sé; personaggi esemplari, come l’uomo che sta per essere liberato ma che, pur avendo scontato la pena, decide di trattenersi altri tre giorni per terminare il lavoro di amministrazione che gli era stato assegnato. Ancora, la realizzazione di un telegiornale trasmesso su Telegranducato, dal nome simbolico di Tg Galeotto, e la piccola impresa di acquacoltura che porta i pesci allevati in mare aperto nelle pescherie e nelle Coop toscane. Natura incontaminata, tramonti, ideali, la realtà sospesa e magica che è propria di un’isola che fa di tutto per essere autosufficiente e che prova con difficoltà ad aprirsi al mondo: sono gli ingredienti che si mescolano in un libro che lascia il segno nel lettore. La domanda che accompagna tutto il testo sembra essere: “Che me ne faccio di un buon detenuto se poi torna ad essere un pessimo cittadino?”. Mazzerbo nel testo racconta del senso di «isolamento che ti porta a pensare: o ti suicidi o ti rimbocchi le maniche, rimetti in discussione te stesso, le tue convinzioni, i tuoi errori». In Ne vale la pena i due autori descrivono, in maniera toccante, una storia in fondo tanto semplice quanto straordinaria, quella di come sia possibile applicare i propri ideali al quotidiano, per fare della propria vita e di quella degli altri un esempio meraviglioso.
Federica Lento
(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 80, aprile 2014)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi