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Anno VIII, n 79, marzo 2014
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Filosofia e religioni (a cura di Denise Amato) . Anno VIII, n 79, marzo 2014

Zoom immagine L’esistenza
nel pensiero
dei “sommi”

di Federica Lento
I quattro grandi che “fecero” la Storia
in un rilevante saggio edito da Fazi


Le figure di Socrate, Buddha, Confucio e Gesù hanno influenzato e influenzano, ancora dopo millenni, la storia dell’umanità. «Le quattro personalità decisive hanno avuto un’efficacia storica di ampiezza e profondità incomparabili. Altri uomini di alto livello possono avere assunto un significato altrettanto importante entro cerchie più ristrette. Ma la differenza riguardo alla durata e all’estensione dell’azione millenaria è così potente che l’evidenziazione di quei quattro assume il valore di una chiarificazione della coscienza storica universale»; così Karl Jaspers, uno dei massimi rappresentati dell’esistenzialismo tedesco, nonché uno dei più noti psichiatri del Novecento, riflette su questo mistero nel saggio Socrate, Buddha, Confucio, Gesù. Le personalità decisive (Fazi, pp. 208, € 16,00), analizzando a fondo il pensiero di queste figure, che equivale a conoscere l’universalità umana. Riportando le biografie, citando le fonti e ricostruendo la storia del loro pensiero e di come esso veniva percepito, Jaspers sottolinea l’importanza del dialogo in Socrate, la condizione di ritiro dal mondo di Buddha, la prevalenza dell’ethos di Confucio e il tema dell’amore in Gesù, nel tentativo di recuperare la voce originaria nel ritratto di questi protagonisti della Storia. Essi non sono veri e propri filosofi in senso canonico: Gesù, Buddha, Confucio e Socrate furono caratteri decisivi che, senza ergersi a modello, foggiarono una certa maniera di essere uomini. Nella loro realtà hanno dimostrato il loro valore storico insostituibile.

 

Il dialogo di Socrate

Si comincia con la biografia: «È strano che conosciamo l’aspetto di Socrate. Egli è il primo filosofo di cui abbiamo presenti le fattezze corporee. Aveva un aspetto odioso con i suoi occhi sporgenti, naso camuso, labbra carnose, grossa pancia, la sua corporatura tarchiata lo faceva somigliante ai sileni e ai satiri. Dotato di salute ferrea, sopportava facilmente gli strapazzi e il freddo. La nostra immagine di Socrate è quella dell’uomo attempato. Manca ogni notizia sulla sua giovinezza». Socrate realizza l’insufficienza della filosofia naturale e prende coscienza del suo scopo nella vita: «Egli non ha altra missione che di cercare insieme agli uomini, uomo egli stesso. Deve interrogare inesorabilmente, scovando gli uomini da ogni loro nascondiglio. Non deve richiedere alcuna fede su nulla, né su di sé, ma deve pretendere il pensiero, deve interrogare e mettere alla prova, e così porre l’uomo su sé medesimo. Ma poiché questo se stesso risiede solo nella conoscenza del vero e del bene, è lui stesso innanzitutto a dover prendere nella sua serietà quel pensiero che si vuol lasciare determinare dalla verità». La missione di Socrate si espleta nel dialogo rivolto verso l’altro, un altro ogni volta differente; l’incontro con manovali, politici, artisti lo porta a trovare la sua casa nella strada, a cercare la verità nel confronto, soprattutto con i giovani. Socrate voleva educare: non un dialogo da sapiente a ignorante, ma uno scambio reciproco poiché «i giovani aiutavano Socrate quand’egli voleva aiutarli. […] Non propone alcun programma per riformare lo Stato, né un sistema del sapere. Non si rivolge al pubblico né ad adunanze popolari». Nell’Apologia dice infatti: «Io mi rivolgo sempre agli individui soltanto», essendo egli realmente interessato all’individuo soltanto, indipendentemente dal suo ruolo nello stato. Nel Medioevo lo splendore del suo nome si affievolisce, per riemergere nel Rinascimento e, dal tempo dell’Illuminismo, Socrate diventa il pensatore dell’indipendenza e della libertà morale.

 

Buddha: la conoscenza che porta alla perdita del dolore

Buddha discende dalla nobile famiglia degli Śākya, vivendo, da ragazzo, nell’assoluta ricchezza, fino ad arrivare alla propria consapevolezza di essere autonomo: «Mentre così pensavo in me stesso, mi venne meno ogni energia vitale». Di conseguenza, a ventinove anni, decise di abbandonare, secondo la tradizione indiana, casa, patria, famiglia, ricchezze per trovare la salvezza nella sua dottrina: «non è giusto vivere nel piacere o godere nel mondo, né vivere nell’ascesi in cui l’uomo si tormenta. La prima cosa è ignobile, la seconda fonte di ogni dolore, e nessuna delle due porta alla meta. La via scoperta dal Buddha stava nel mezzo. È questo il sentiero della salvezza».

Egli sceglie la via di una predicazione che doveva aiutare tutti: «Nel mondo divenuto oscuro, io voglio battere il tamburo che non è segno di morte». A Benares guadagna i suoi primi discepoli. Egli vivrà ancora per più di quattro decenni, viaggiando e insegnando. Anche Buddha si avvicina all’altro, chiunque esso sia, come faceva Socrate, usando un linguaggio popolare. Buddha respingeva il carattere sacrificale della religione; la sua dottrina mirava a percorre un sentiero salvifico in cui presupposto di tutto è la giusta intuizione della fede, il sapere ancora oscuro intorno al dolore e al superamento del dolore stesso, chiamato “Ottuplice Nobile Sentiero”, che prevedeva la fede retta, la decisione retta, la parola retta, l’azione retta, la vita retta, la morte retta, il pensiero retto, la concentrazione retta su di sé. Solo alla fine del sentiero questa fede si fa conoscenza, cessazione del dolore. Il punto decisivo della sua dottrina ha al centro sempre la volontà dell’uomo che stabilisce e raggiunge il fine, grazie alla quale «può agire in modo morale, per meditare e per pensare. Egli lavora, lotta ed è simile a chi scala una montagna. È perciò che Buddha esorta costantemente gli uomini a fare ogni sforzo. Tutte le forze devono esser messe in opera […] il buddhismo ebbe una capacità illimitata di accogliere in sé tutte le religioni, filosofie e forme di vita che poteva incontrare. Esso aveva il valore dei gradini per preparare il salto verso quel fine unico che per il nostro modo di pensare occidentale resta sospeso nell’illimitato e nell’infinito».

 

Confucio: la salvezza dell’uomo nel ritorno all’antichità

Si narrano molte storie su Confucio, su come gli scolari lo seguissero e su come egli non perse mai la fiducia nella sua vocazione di educatore e di ordinatore dello stato. Confucio fu uno dei molti filosofi erranti che con il loro consiglio volevano portare la salvezza. Per tutti questo era il sapere, per Confucio, era invece la conoscenza dell’antichità; ciò significa allontanare da sé la superbia di concepire verità. La sostanza del nostro essere, per Confucio, sta nell’origine della storia. Diventa uomo «chi superando se stesso s’inserisce nei limiti dei li, leggi del costume. […] Colui presso il quale prevale il contenuto è grossolano, colui presso il quale prevale la forma è uno scriba (un bellimbusto intellettuale). […] Se l’uomo non ha amore per gli uomini, a che gli giovano i li? Occupare una posizione preminente senza una disposizione adeguata, esercitare il culto senza timore reverenziale, i riti funebri senza intimo dolore, sono tutte cose che non posso sopportare». La necessità di un equilibrio tra i li e l’originarietà induce Confucio ad accentuare tanto gli uni quanto l’altra; Confucio non fa insomma distinzione tra costumi, moralità e diritto.

 

Gesù: colui che ha annunciato la fede

«La cosa più certa che sappiamo di Gesù è il suo annuncio: della venuta del regno di Dio, dell’ethos che ci prepara a questo regno, della fede come salvazione». L’ubbidienza a Dio, non solo esterna, deve comprendere e giustificarsi nel volere divino. «L’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per il prossimo sono due cose inseparabili. L’amore di Dio ci tocca solo in quanto noi amiamo: l’amore di Dio, insomma, opera in noi l’amore. Se non amiamo siamo respinti. L’amore, resosi privo di scopo e privo di mondo, è la vera realtà del regno di Dio. Allora esso è illimitato, incondizionato». Da qui l’innovazione di Gesù: amare i nemici, ricompensare il male con il bene, una propensione che esige l’amore del prossimo. La fede (pístis) che Gesù sprona a sentire è indispensabile per entrare nel regno di Dio, è salvezza come condizione alla salvezza. L’espressione di questa fede è la preghiera del Padre nostro. Tre invocazioni sono qui decisive: «Venga il tuo regno», l’accordo con la volontà di Dio e la fine di ogni bisogno con la fine del mondo, «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», liberazione da tutto ciò che è terreno, «Rimetti a noi i nostri peccati non indurci in tentazione», unico modo per raggiungere Dio. Gesù non annuncia una scienza, ma la fede, e i suoi fedeli lo hanno sempre seguito serenamente.

 

Federica Lento

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 79, marzo 2014)

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