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Politica ed Economia (a cura di Elisa Pirozzi) . Anno VIII, n 77, gennaio 2014

Zoom immagine Nuovi studi
sul pensiero
di Gramsci

di Emanuela Pugliese
Da Donzelli, un’attenta analisi
sui numeri e le questioni
dei Quaderni del carcere


Antonio Gramsci: un «personaggio ancora da scoprire». Questa la definizione di Franco Lo Piparo, ordinario di Filosofia del linguaggio all’Università di Palermo.

Quello che abbiamo tra le mani è un testo molto impegnativo, che ci aiuta a sciogliere alcuni nodi essenziali della vita, del pensiero e dell’impegno politico di uno tra i più grandi filosofi, intellettuali e pensatori del XX secolo: Antonio Gramsci.

Lontani da qualsiasi intento di militanza partitica, ci accingiamo a descrivere un libro il cui contenuto può risultare molto interessante e sorprendente per chi, da sempre, studia la figura di uno dei padri del Partito comunista italiano. L’attenta analisi filologica e linguistica condotta da Lo Piparo sui Quaderni del carcere di Gramsci è, infatti, uno studio di valore di un’opera che tutti conoscono quale raccolta di appunti e osservazioni, scritta durante la prigionia nelle carceri fasciste, tra il febbraio 1929 e il 1935.

Lo Piparo, nel suo libro I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli editore, pp. 146, € 16,00), esamina scrupolosamente la corrispondenza tra Gramsci e la cognata Tania in quegli anni di prigionia e, in particolar modo, si sofferma sulla lettera datata 27 febbraio 1933.

Andiamo a vedere, nel dettaglio, di cosa si tratta.

 

I Quaderni: un “giallo” irrisolto

La prima edizione dei Quaderni si colloca tra il 1948 e il 1951. L’edizione definitiva è quella del 1975, curata da Valentino Gerratana e corredata da un accurato apparato critico e un’attenta ricostruzione cronologica. Essi affrontano tematiche di diversa natura culturale e sociale, quali il problema dell’egemonia politica italiana, il ruolo e il peso degli intellettuali nella società, le critiche alla filosofia crociana, l’analisi dell’esperienza risorgimentale, la questione meridionale e la coscienza di classe: tutte riflessioni che saranno fondamentali per la formazione della cultura, della politica e della società italiana del Dopoguerra. Gramsci stesso considerava queste riflessioni, da una parte, come puro esercizio contro lo stato di apatia della vita carceraria, dall’altra come il frutto di un insieme di teorie valide per l’eternità. Tuttavia, esse lasciano in sospeso molte questioni ancora irrisolte che danno luogo a numerosi interrogativi come, ad esempio: i Quaderni erano trentatré o trentaquattro? Un quaderno si è perduto? Gramsci era consapevole del fatto che Sraffa, suo amico, trasmettesse le sue lettere a Togliatti? Quali sono le reali motivazioni che spinsero Gramsci ad allontanarsi, negli ultimi anni della sua vita, dai vertici del Partito e dell’Internazionale comunista?

Lo Piparo cerca di rispondere a queste domande e lo fa in maniera convincente e, soprattutto, con gli occhi del linguista, partendo dalla lettera che è stata definita da Tania Schucht – alla quale era stato affidato il compito di vigilare sulla vita del cognato in carcere – come «un capolavoro di lingua esopica», ossia un testo scritto in modo che i lettori potessero andare al di là del suo significato estrinseco. Tale lettera sarebbe la chiave di volta che lascerebbe intendere gran parte del pensiero filosofico e politico di Gramsci negli ultimi anni della sua vita. La frase in essa contenuta – «la mia vita: un grande errore, un dirizzone» – spiegherebbe il suo allontanamento dal Partito comunista. In altre parole, il leader del Pci dichiara di aver sbagliato tutto. Per il linguista, la dichiarazione si riferisce proprio all’ideologia comunista, da cui Gramsci si sarebbe ormai sentito distante.

lo Piparo poi dà nuova forza teorica alla questione del numero effettivo dei quaderni di Gramsci e propone il problema della scomparsa di uno di essi. La tesi del quaderno mancante viene sostenuta, oltre che da Lo Piparo, anche da un altro importante studioso di filologia classica: Luciano Canfora. Secondo il noto filologo e umanista, Gramsci avrebbe lasciato ai posteri un patrimonio letterario enorme e importantissimo, costituito da trentaquattro quaderni «grossi» e «coperti di una scrittura minuta, precisa, uguale», così come li definisce Togliatti in persona il 29 aprile 1945, al Teatro “San Carlo” di Napoli, in occasione di un celebre comizio che si apre proprio con una commemorazione dell’intellettuale sardo. Dunque, i quaderni di cui Togliatti parla sono trentaquattro e non i ventinove della storica edizione di Gerratana: trenta quaderni contenenti ricerche e riflessioni, quattro di traduzioni, a fronte dei ventinove di esclusivo «lavoro teorico». Se a questi si aggiungono i quattro quaderni di traduzioni, si giunge a trentatré quaderni. Né tantomeno si sale a trentacinque, considerando i due quaderni «bianchi», né si scende a trentadue secondo la tesi di Felice Platone, in un articolo apparso sulla Rinascita nell’aprile del 1946.

Il problema sollevato da Lo Piparo, stando anche all’analisi di Canfora, è dunque fondato.

 

Un Gramsci fuori dal comune…

Insomma, la ricerca ci sembra molto interessante, perché ci permette di cogliere alcuni aspetti della vita di uno dei più importanti personaggi della storia politica e intellettuale del nostro paese che, altrimenti, continuerebbero a restare nell’ombra.

 

Emanuela Pugliese

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 77, gennaio 2014)

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