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Direttore editoriale: Graziana Pecora
Anno VII, n 76, dicembre 2013
Il malaffare
nell’Italia
del boom
di Guglielmo Colombero
Edito da Robin, una storia
simbolo del sopruso di potere
che devasta il Meridione
Il “miracolo italiano” degli anni Sessanta può essere considerato una medaglia a due facce: dietro i facili entusiasmi e la frenesia del boom, infatti, si celavano degrado, menzogna, corruzione. Fenomeni aberranti che utilizzavano l’enorme foglia di fico della politica. E, particolarmente in Calabria, quel periodo segna un disordinato processo di industrializzazione a tappe forzate, che ottiene come unico risultato tangibile la devastazione del mondo contadino e la conseguente, dolorosa emigrazione interna verso le ciminiere del Nord Italia. Il tutto, sotto l’egida mistificatrice della televisione di stato, all’epoca non a caso dominata dalla corrente politica democristiana capeggiata proprio da Amintore Fanfani (l’ormai famigerata Era Bernabei, destinata a durare fino alla riforma del 1975, inizia il 3 gennaio 1961): disintegrando le molecole della civiltà agricola del Mezzogiorno, si tentava di inculcare a viva forza nelle masse una mentalità urbana e consumistica, provocando in seguito rigurgiti rabbiosi come la sommossa istigata dai neofascisti a Reggio Calabria nel 1970. La colossale truffa dei bovini riciclati per simulare l’esistenza di insediamenti produttivi – in realtà morti prima di nascere – fu uno dei primi scandali conclamati della Prima repubblica: tre decenni prima dell’uragano di Tangentopoli, già spirava un forte venticello carico di miasmi putridi. Del resto, quel fatidico 1961 (centenario dell’Unità d’Italia, e anche in questa occasione si celebra l’orgia pantagruelica dei finanziamenti finiti chissà dove) si apre con la nomina di Ettore Bernabei a direttore generale della Rai, prosegue con il varo del “piano verde” per l’agricoltura e con gli attentati separatisti in Alto Adige, culmina con il blocco in censura del film pacifista di Claude Autant-Lara Non uccidere e si chiude alla vigilia di Natale con una sciagura ferroviaria a Catanzaro che costa la vita a settantuno studenti e lavoratori pendolari.
Scrive Marco Gatto nella sua Prefazione che all’autore «interessa, in questo romanzo, comprendere come il potere abbia utilizzato abbondantemente tutti i mezzi di coercizione ideologica per alimentare il proprio dominio – la televisione di massa, in tal caso –, abbia cioè trovato come alleato fondamentale il populismo insito nelle strategie di costruzione di un immaginario tranquillizzante e confortante». 1961, le vacche di Fanfani (Robin edizioni, pp. 240, € 14,00) è la più recente fatica letteraria di Francesco S. Mangone, insegnante presso il Liceo scientifico di Sibari: ha già pubblicato due romanzi, Schnellboot s-57 (Aljon editrice) e Jonion (Robin edizioni).
Il midollo bacato di una democrazia strabica
Narratore che ha saputo rielaborare con spiccata impronta personale le iperboliche alchimie lessicali di Carlo Emilio Gadda (in particolare quelle di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana), e che in certi scorci riecheggia l’umorismo caustico di Andrea Camilleri, Mangone tratteggia un repertorio di personaggi stralunati, maschere emblematiche di uno sfacelo morale che gonfia i bubboni della corruzione e del malcostume. Una suggestione visuale che sembra tratta di peso dalle inquadrature di qualche film di Paolo Sorrentino (la metafisica “sporca” del potere che impregna soprattutto Il Divo). La vicenda delle vacche trasferite nottetempo nelle aziende agricole che il presidente del Consiglio di allora, Amintore Fanfani, stava per inaugurare suscitò nei primi anni Sessanta una certa risonanza mediatica. Lo scandalo delle mucche ubique si intreccia alla cronaca nera: la morte, avvenuta in circostanze mai chiarite, dell’attempata aristocratica Ines Olivara (una «vecchia taccagna, mica tanto una personcina per la quale… era secca sfilata come una salacca affumicata. Vivente nella sua casa di campagna, nelle amenità dei giardini d’aranci, tra le amate galline… Sempre lo staffile a sé… a dar di strigliate a ’sti inattivi e pezzentieri di braccianti»).
Fotogrammi di un lebbrosario morale squallido e verminoso, in cui, come di fronte a uno specchio deformante, si contorcono i fantasmi di un tessuto sociale già decomposto ancora prima di uscire dallo stadio embrionale: «Mostro e mostruosità sempre stanno di fronte, dico io, a lasciarsi ingannare dalle apparenze, similmente ci si lascia abbacinare dallo scintillio delle merci… dalla propaganda dei prodotti, dal loro splendore mefitico e intrigante… non sapendoci più intravedere
Una tavolozza densa di suggestive folate impressioniste: «tutto uno strano cimitero di anime morte intente a serrare l’ultima luce della terra, a volgersi da occidente, nei vichi pazienti. La piazzetta nel crepuscolo era un balcone devastato tra la terra e il cielo morente».
Vacche grasse e bordelli di lusso
Fra le pieghe del racconto, Mangone insinua il luccicore decadente di una filosofia postribolare che, alla luce di recenti scandali politico-sessuali, sembra tutt’altro che tramontata: «Lei co’ uno scialle di pizzo nero… una spagnola ’sta Boccola… un falpalà a onde larghe, mica niente! Uno sguardo che ti gela… con lei che ti piglia a cantare a lamento… a chiamare tutti i morti prima di cominciare… col volto ch’era un programma… un tribolo di tagli, intorno a du’ braci neri… du’ tizzoni d’inferno… Che d’improvviso ti entra
E ridicolizza il maschilismo mediterraneo con impennate di crudezza linguistica, una specie di parodia disarticolata della turgida fallocrazia imperante in quegli anni, nell’Italietta retrograda e ancora clericalfascista dove il divorzio era tabù, l’adulterio reato, il delitto d’onore tollerato e l’aborto esecrato: «Un gesto meccanico, un fatto muscolare, una pompata. Un atto in crescendo, fino a essere violento e incontrollato, in tutto rappresentato dal fallo eretto, con tanto di cappella issata all’alzabandiera». Un brano degno del Gadda di Eros e Priapo.
L’abisso che si cela sotto l’apparenza dei fatti
L’epilogo (che è anche apologo) è amaro e disincantato, a voler suggellare una realtà contorta e inafferrabile nelle sue molteplici e perverse sfaccettature: «L’è comica… L’è tragica, ’sta storia di vacche e di mucche d’Italia. S’era mutato di continuo l’equilibrio… con un morto ch’era vivo e che urlava di dolore a dire ch’era morto… e d’una vecchia vivissima che non voleva morire a combattere con la morte e che infine era morta per davvero… Insomma cacciato e cacciatore si ribaltarono a più non posso i ruoli originari».
E, a conferma del fascino barocco di questo autore che speriamo ottenga la visibilità che gli spetta, citiamo in chiusura uno struggente arabesco rivolto a tutti e cinque i sensi, che non ha nulla da invidiare al Céline di Viaggio al termine della notte: «Un vento terragno, gravido d’arboscelli… a discendere lungo il corpo. La via d’Odisseo agli Inferi… L’inizio della Notte. Un sentiero misterico che lasciava penetrare i tanti clamori del giorno nella fresca attesa del mare notturno… Siamo fatti di tanti mirizzi… ogni uomo è una teca di odori».
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 76, dicembre 2013)
Francesca Buran, Pamela Quintieri, Francesco Rolli, Fulvia Scopelliti
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