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Anno VII, n 75, novembre 2013
Giovani d’oggi
e precarietà:
e i sentimenti?
di Valeria Vaccaro
Pubblicata da Sovera
una storia comune di amore,
lavoro, futuro e ricerca di sé
Ce lo si è chiesto in passato e ce lo si chiede, magari a maggior ragione, ancora oggi: i ventenni dell’attuale generazione sono davvero dei nullafacenti o semplicemente non c’è nulla che possano fare? Hanno gli strumenti giusti ma non li sanno usare o forse c’è sempre qualcosa che manca nelle loro vite?
Il giovane Matteo Deraco nel suo romanzo autobiografico, Vita, morte, miracoli di un uomo qualunque (Sovera edizioni, pp. 80, € 9,00), parla in modo schietto e smaliziato di quel che egli stesso ha vissuto e sta vivendo e ci fa riflettere su cosa caratterizzi ogni generazione.
Chi sono i “giovani d’oggi”?
Reduci da quel che i loro predecessori hanno creato e con un futuro ancora troppo indefinito davanti, i giovani d’oggi si trovano effettivamente nel mezzo e lì sembrano fermi. «Sempre a metà tra la rivoluzione e il suicidio di massa». I loro padri e le loro madri hanno vissuto il Dopoguerra, il Sessantotto, Tangentopoli e allo stesso tempo hanno goduto degli svaghi che solo i migliori yuppies avrebbero potuto assaporare. Loro, gli stessi che oggi rivestono cariche importanti, gli stessi che oggi ritroviamo come manager, sono stati gli ultimi, forse, ad aver avuto in mano la sicurezza dell’occupazione fissa.
I giovani d’oggi, sembrano quelli della continua gavetta, della non-esperienza, quelli che semplicemente tirano avanti. E se la situazione non cambia, si ritrovano a pensare che forse quel posto fisso non lo vogliono, sembrano quasi credere che nulla potrà mai essere certo e così sentono la necessità di avere altri appigli sicuri nella vita, ossia le persone e i sentimenti.
Eppure Deraco smonta anche queste aspettative sul nascere: «non domani nel lavoro, non domani nell’amore, nell’amicizia».
Lavoro e amore
Il racconto di Deraco si articola in tre capitoli, è narrato per lo più in prima persona e con un linguaggio semplice ma d’impatto. Potremmo limitarci ad interpretare i tre capitoli come inizio, svolgimento ed epilogo; ma l’autore nella sua semplicità non è così banale. Si tratta di un viaggio interiore, una sorta di terapia che egli stesso ha voluto somministrarsi.
Nel primo capitolo, Concerto d’amore per solista sordo, il giovane Matteo inizia a raccontare le sue disavventure personali, che orbitano per lo più intorno al lavoro e all’amore. Viene licenziato senza troppe cerimonie ed è forse da questa vicenda che il protagonista inizia a riflettere a fondo sulla propria vita.
Nel corso del suo monologo interiore, ricco di delusione e pessimismo, intravede una luce. C’è solo una cosa che egli stesso può controllare: essere coerente con i propri sentimenti. Si rende conto di aver tirato troppo a lungo la corda che lo teneva legato alla sua ragazza, Chiara. Decide così di lasciarla e, a più riprese, le spiega che non può continuare un rapporto in cui non crede. L’egoismo di Chiara ha troppo spesso preso il sopravvento nella loro relazione e lui non può stare con una persona che non riesce a dare nemmeno il proprio 50%. Per Matteo diventa centrale il fatto di dare e darsi. Decide che non ne vale più la pena, perché nessun tipo di rapporto dovrebbe comportare un tale dispendio di energie.
Per superare indenne l’estate, decide di fare quel che gli è sempre riuscito al meglio; qualcosa in cui non si sarebbe sentito un principiante, qualcosa in cui non avrebbe semplicemente rischiato di dover dare al prossimo il proprio 100%. Cerca e trova lavoro come animatore: ottiene un ingaggio di tre mesi nel villaggio di Torre Oliva, a Sapri, un villaggio un po’ particolare, a detta della responsabile dell’agenzia turistica che lo ha assunto.
L’Io e l’amicizia
Giunto al Torre Oliva, Matteo inizia a respirare un’aria familiare. Ecco che ci ritroviamo catapultati nel secondo capitolo, Tra via Toraldo e il West.
Forte della sua ormai assodata esperienza, sente che qui troverà la pace di cui ha bisogno. La particolarità di questo villaggio consiste nel fatto che i clienti sono gli stessi da anni. Si tratta di persone che non amano essere disturbate e quindi l’animazione deve essere contenuta e rispettosa degli spazi e dei silenzi richiesti. Proprio il silenzio sarà un elemento che in qualche modo il protagonista scoprirà di amare, anche grazie ad un’ospite del villaggio con cui, verso la fine della stagione, avrà modo di confrontarsi.
I tre mesi non passano senza difficoltà; il capo animatore del villaggio si dimostra poco collaborativo e attira su se stesso le antipatie di tutti, clienti e staff indistintamente. Al contrario di quest’ultimo, Matteo primeggia ed è ben voluto da tutti. Pur consapevole di avere a che fare con persone che forse non rivedrà più, riesce a stringere amicizie che, per assurdo, sente potranno durare in eterno. Comprende poi che è forse questo l’elemento centrale di tali relazioni; lui non è in grado di stringere rapporti durevoli ma riesce solo a condividere la propria esperienza con altre persone per brevi periodi. Sono persone che sente gli rimarranno nel cuore, con cui non ha dovuto costruire meccanismi né aspettative. Non ce ne sarebbe stato il tempo. Il giovane protagonista ascolta se stesso, impara a dare importanza all’Io e comprende che senza questo fondamentale passaggio, non sarà mai in grado di darsi agli altri nel giusto modo. Deve prima di tutto dare a se stesso.
In questo villaggio Matteo trova la catarsi di cui aveva evidentemente bisogno. Ma non giunge a nessuna particolare epifania. Conserva semplicemente i ricordi di quelle persone, di quei luoghi. Sente che gli mancheranno ma è contento, nonostante tutto, di tornare a casa.
Un nuovo inizio
Nel rientrare a Roma, iniziano a manifestarsi riflessioni e fiumi di pensieri. Scrive, come per voler buttar fuori tutto, nel tentativo di capirsi e forse curare qualche vecchia ferita. Nella sua analisi arriva a qualche conclusione che lui stesso però sembra voler ignorare.
Grazie ad una sua vecchia conoscenza – che si rivelerà presto un nuovo possibile inizio – Matteo comprende di avere semplicemente paura di dare il proprio 50% in una relazione; paura di attendere il 50% dell’altro, in verità. Paura che non arrivi mai.
Quanta bellezza c’è nella semplicità e nella schiettezza di tutti i giorni? In questo romanzo se ne vede molta e per questo si apprezzano lo stile, le vicende personali e le riflessioni di Deraco. Una cosa appare chiara in queste righe: essere schietti e sinceri è fondamentale ma, allo stesso tempo, è la cosa più difficile che si possa chiedere a se stessi, forse perché, come dice lo stesso autore, «La verità è uno specchio in cui l’anima non guarda mai».
Valeria Vaccaro
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 75, novembre 2013)
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