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A. XVIII, n. 206, dic. 2024
La lotta quotidiana
dei “Baschi rossi”
alla ’ndrangheta
di Guglielmo Colombero
Uno dei reparti speciali dell’Arma
visto dall’interno. Da Falco editore
«Abbiamo imparato a muoverci senza farci scoprire, a osservare senza essere visti, a colpire inaspettati. […] quanta fatica ci è costata imparare, quante notti insonni nella boscaglia, quante marce lunghe e faticose sulle montagne, quanta costanza hanno richiesto questi sforzi prima che giungessero i primi importanti risultati»: così descrive la genesi dello Squadrone eliportato cacciatori di Calabria (istituito nel 1991) il suo primo comandante, il colonnello Claudio D’Angelo, nella Prefazione a Il Basco Rosso. La storia, la vita e le emozioni dei Cacciatori di Calabria (Falco editore, pp. 176, € 15,00). Alessandra D’Andrea, giovane studiosa della fenomenologia del crimine organizzato e delle tecniche adottate dai corpi speciali per combatterlo, dedica questo suo saggio ai “Falchi dell’Aspromonte”, che ha avuto modo di conoscere personalmente e anche di vedere all’opera. A Vibo Valentia, nel nido dei “Falchi”, l’aeroporto “Luigi Razza”, l’autrice contempla «le foto dei latitanti catturati dallo Squadrone. Volti noti, nomi famosi che hanno riempito per anni le cronache italiane: un sacrario del male! Quello che i Cacciatori combattono ogni giorno, da più di vent’anni ormai, per ridare a questa terra un futuro di libertà, un segno della presenza dello Stato e dell’Arma con i suoi uomini migliori!».
Nelle viscere dell’Aspromonte, fra caverne e bunker
L’Aspromonte è un «territorio incontaminato e selvaggio, dove la fitta vegetazione boschiva si confonde con la macchia mediterranea, noto non solo per la sua spettacolare bellezza, ma anche e soprattutto per la sua impenetrabilità, che lo ha reso il luogo ideale dove nascondere ostaggi e latitanti». Una struttura labirintica, degna di Piranesi, si dipana grazie alla perversa creatività delle menti criminose: catacombe che non ospitano cristiani perseguitati, ma latitanti clandestini; un intrico tentacolare di tunnel, cunicoli e bunker destinato a sfociare nelle acque fognarie sotto la strada e a ramificarsi verso casolari isolati in aperta campagna. Il libro di D’Andrea ci fornisce un quadro impressionante dell’humus in cui proliferava vent’anni fa l’atroce industria dei sequestri di persona gestita dalla ’ndrangheta e dalle cosche della Locride. L’anello di congiunzione fra il Nord industrializzato, vero e proprio vivaio di potenziali vittime dei rapimenti a scopo di estorsione, e la criminalità organizzata dell’Aspromonte spesso era costituito dai “confinati” sottoposti al soggiorno obbligato, ben presto trasformati in basisti. «Avverto la fatica e il sudore degli uomini, i Cacciatori, che hanno scalato questi sentieri», riporta D’Andrea, «per donare libertà a chi non l’aveva e toglierla a chi si nascondeva tra queste rocce per sfuggire alla giustizia: a quegli uomini braccati che hanno mescolato il puzzo dei soldi macchiati di coca e sangue all’adrenalina della fuga e all’odore della disfatta».
L’impero della ’ndrangheta, antistato e metastasi sociale
Grazie ai legami stabiliti con i narcotrafficanti colombiani, la ’ndrangheta allunga i propri tentacoli verso l’emisfero sudamericano e, da fenomeno locale radicato esclusivamente nel Mezzogiorno d’Italia, si evolve verso una struttura, vera e propria multinazionale del crimine. «Proprio in Colombia», precisa nel corso di un’intervista il magistrato Salvatore Curcio, «e più in generale in Sud America, vengono inviati, sempre più frequentemente, esponenti delle organizzazioni calabresi per trattare ogni singolo affare. Con il passare del tempo, alcuni di questi trasferiscono la propria residenza, in via definitiva, proprio in detti paesi, rappresentando delle vere e proprie teste di ponte delle organizzazioni mafiose calabresi». E specifica più avanti: «la compartecipazione di più cosche calabresi alle sistematiche importazioni di narcotico, secondo il modello contrabbandiero delle quote o carati; la diffusione in altri paesi europei o altre aree continentali, come l’Australia, di radicate filiazioni ’ndranghetiste; le tecniche di riciclaggio e di reimpiego di proventi che investono pericolosamente il mondo economico e finanziario legale; l’interazione con le principali organizzazioni mondiali del settore, rispecchiano una globalizzazione criminale». Inoltre, le cosche malavitose si dedicano a una diffusa e capillare attività di propaganda mediatica, tesa a screditare le istituzioni e a rendere leggendarie le figure dei latitanti: veri e propri eroi negativi, esaltati persino su Youtube da canzoni, inni, ballate, in cui i Cacciatori di Calabria sono bollati come “gli aguzzini che arrivano da cielo e terra”.
Le cronache incalzanti di un percorso di guerra
La seconda parte del libro di D’Andrea è costellato di testimonianze dirette dei “Falchi”, e alcuni episodi risultano più romanzeschi di un thriller. Racconta Cecio, nome in codice Falco 13: «a pochi metri da noi, nel buio totale, sentimmo il ringhiare lungo e profondo di qualcosa: era un branco di lupi, che riuscimmo ad allontanare lanciando contro di loro alcuni razzi. Iniziammo la discesa disperata sotto l’acqua battente: un sentiero di ciotoli intrisi d’acqua scavato nella terra, ai lati solo rovi che sferzavano il viso, lo zaino che ci sfiancava e ci costringeva a fare tre metri in terra ogni tre in piedi e dietro di noi i lupi». Ed ecco come Java, Falco 13, spiega l’origine del suo appellativo: «ci ritrovammo fra scenari di intensa bellezza e pareti di roccia a strapiombo in un vero e proprio budello, un greto ciottoloso, reso scivoloso dall’acqua che vi scorreva in parecchi punti e che non ci consentiva di capire quanto fosse lungo il salto che ci aspettava […]. Fu in quel momento che nacque Java, l’uomo delle caverne. Presi il mio machete e abbattei un albero abbastanza grosso da utilizzare come scaletta, lo sfrondai sotto gli sguardi perplessi dei colleghi, poi lo gettai di traverso sulle pietre e mi lasciai scivolare riuscendo ad arrivare sul fondo». Chissà se un giorno lo stato italiano deciderà di utilizzare il denaro dei contribuenti per erigere un monumento di marmo in onore dei Cacciatori di Calabria: nessuno più di loro lo meriterebbe.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 74, ottobre 2013)